Sabato scorso a Roma si è svolta la manifestazione antagonista più importante degli ultimi anni. Non tanto per i numeri e la coesione dei movimenti, quanto per avere fatto emergere un problema culturale fondamentale. Se ne è occupato molto bene Leonardo Bianchi sulle nostre pagine madri: fondamentalmente si sono svolte due manifestazioni completamente diverse, una per strada, una nel ridicolo mondo dei media.
Sembrano menate da grillini, da “democrazia della rete”, da popolo dalle palle viola, e ci si sente quasi ridicoli a scriverlo; sta di fatto che i media dotati della possibilità di raggiungere il grosso della popolazione non hanno alcun interesse a partecipare seriamente al dibattito che si sta svolgendo dentro la popolazione stessa, continuando anzi a demonizzarlo in blocco, con una cialtroneria e una faziosità che, a questo punto, c’è proprio da chiedersi se siano strumentali—nel caso: A CHE?—o solo figlie una razza parassita, pruriginosa e in malafede. Una razza a cui appartiene la maggior parte di chi scrive in questo Paese, purtroppo
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Cosa c’entra questo con la musica e perché ne sto parlando tra un articolo sui peli pubici di Drake e l’altro, tra la pubblicità di una multinazionale e l’altra? Ci arrivo.
Nel tardo pomeriggio di quello stesso sabato è comparso sulla mia bacheca uno status, calato come una manna dal cielo, immediatamente condiviso da decine di persone e sbocciato in altrettante conversazioni—fiume.
Chi è sto tizio? Mauro Teho Teardo, un musicista dalla carriera di tutto rispetto. Sono molti a conoscerlo principalmente per alcune colonne sonore di film di Sorrentino con Servillo e con Servillo senza Sorrentino che, nonostante Servillo e Sorrentino, sono ottimi lavori. Ma prima di arrivare a quelle, aveva già avuto modo di farsi un nome nella scena elettronica underground, esordiendo giovanissimo sul tempio del noise industriale Broken Flag per arrivare poi a collaborare, remixare o condividere il palco con quasi tutto il giro che negli anni Novanta oscillava tra noise rock, industriale, techno e avanguardia. Tra i tanti, consiglio di brutto di recuperare Matera, il suo progetto in collaborazione con Mick “Scorn” Harris. Di recente ha fatto un disco con Blixa Bargeld: che vi sia piaciuto o meno, vi renderete conto non essere una collaborazione piovuta dal cielo.
Il ragionamento di Teardo parte da un’ottica, se non proprio “interna” alla protesta, quantomeno di simpatia. E ne avrebbe ben donde: sono sicuro di essere fastidiosamente schierato a mia volta, ma non riesco a non pensare che prendere atto dell’inadeguatezza del sistema attuale sia un fatto di intelligenza e onestà intellettuale molto più che di ideologia. Specialmente in questo Paese.
Il problema della musica “di movimento”, “da fricchettoni”, o “da centro sociale” è qualcosa di cui raramente si parla in termini davvero politici. È una roba talmente vecchia, stantia e ridicola che è davvero il bersaglio perfetto per sfottò di tutti i tipi, alcuni dei quali da parte di gente schifosamente ipocrita che farebbe meglio a tacere per sempre. Manca, invece, l’intenzione seria di fare qualcosa a riguardo, di risolvere il problema. Una volta tanto, vedo un musicista dotato di seguito che pone la questione in maniera costruttiva invece di cacare semplicemente nel piatto in cui mangia. Quello che mi chiedo io è come non sia successo prima e, soprattutto, in che modo dare una risposta concreta.
Già mi immagino una possibile replica: perché? Perché dovremmo? D’altronde è solo musica, e in un contesto di protesta e azione attiva non è certo l’elemento più importante. Oppure l’esatto contrario: perché dovremmo? Chi se ne frega della politica, la musica non è politica.
In entrambi i casi, è presto detto, si tratta di cazzate, ma non del tutto infondate né prive di spunti. Partiamo dalla seconda, che è più semplice, e soprattutto ci dà anche la possibilità di rispondere alla prima. Insomma, è vero e stravero che l’arte è autonoma, e che quindi anche la musica lo è: quanta tristezza fa quell’arte che nasce come “propaganda” di un certo pensiero? Non è proprio questo che risulta incredibilmente palloso nella musica “impegnata”? Il fatto che sembri sempre studiata per imboccarci col cucchiaino un’ideologia, ridotta in ovvii slogan? Allo stesso tempo, però, ci sembra stupida e pallosa tutta la cultura—quindi la musica—che non sembri avere alcun contatto con la realtà. Non che debba PARLARE narrativamente della realtà, quello che ci interessa percepire è semmai un’urgenza, una indescrivibile vitalità di fondo che la connetta a un tessuto palpabile, che appartiene all’ascoltatore, al musicista o a entrambi. Mi rendo conto di non essere chiaro, ma è qualcosa che tutti conoscono, a meno che non vivano la musica come puro intrattenimento. D’altronde, se fosse qualcosa che si può spiegare, nessuno starebbe qui a fare dell’arte.
La stessa cosa, ad ogni modo, dovrebbe valere per la politica: per quale motivo si dovrebbe scendere in strada a protestare? Perché se ne sente l’urgenza, appunto, altrimenti non si hanno le palle di andare fino in fondo anche nella pratica quotidiana. E così la musica diventa l’espressione viva non di un “messaggio” ma di un’investimento di emozioni, delle stesse emozioni che dovrebbero servire ad alimentare una lotta condivisa. Non saranno (solo) i testi o le dichiarazioni di intenti a rendere “politica” certa musica, e il suo scopo non sarà quello di fare proseliti per il movimento, ma di dargli autenticità, freschezza, di favorire l’interazione tra le persone in maniera più profonda.
Teardo scrive che “Non abbiamo una voce e non abbiamo un suono, quindi non abbiamo idee valide per superare questo momento.” Non so se abbia ragione, se sia nato prima l’uovo o la gallina. È stato l’antagonismo per primo a indurirsi, invecchiare e ripiegarsi su se stesso? O è stata la musica, complice la commercializzazione di tutte le forme più creative e interessanti, che è si è incagliata su quattro stronzate con la chitarrina, magari pure con paura di perdere quel po’ di pubblico rimasto? Non ha neanche molta importanza, MTT ha comunque ragione a dire che si alimentano a vicenda. Quantomeno, l’assenza di un’arte antagonista che sia interessante, viva e fresca la dice lunga sullo stato del ricambio di idee dentro al movimento stesso, che si trova alla fine con armi scariche e parole sgonfie. La “musica da fricchettoni” vuole restare inalterabile per non venire cooptata dall’industria dell’intrattenimento, non rendendosi conto di esserlo già stata, di essersi trasformata in una nicchietta di mercato identitaria. Gli Assalti Frontali e 99 Posse che Teho cita hanno prodotto degli “inni”, e l’inno è, per definizione, un’istituzione immobile, storia. Quello di cui ci sarebbe bisogno, invece, è l’esatto contrario. Non cantare a una voce, ma in polifonia.
C’è poi il punto fondamentale del “come”, vale a dire della modalità in cui la musica si condivide e diffonde, e dei luoghi che la ospitano. Può sembrare solo accessorio alla musica in sé, ma non lo è affatto. I centri sociali, le occupazioni e autogestioni in generale (che sono comunque un fatto solo italiano), che siano o meno mai stati davvero territorio “libero”, hanno sicuramente perso da tempo la funzione di luoghi creativi. L’autoproduzione è passata dal diventare un vanto a darsi praticamente per scontata, ma è davvero triste che questo abbia portato più ad uno annoiamento generale che altro.
Lo stesso “fallimento” di tanti generi di musica di protesta non può essere usato come scusa per non tentare di più la strada di una cultura radicale e nuova. Tehardo parla in quanto “cresciuto” in un’epoca e in una scena in cui suoni e rumori elettronici, messi e colorati in un certo modo, si portavano dietro tutto un corredo di idee e sensazioni estreme ed eccitanti. L’epoca a cui è sicuramente più legato, gli anni Novanta, ha visto nascere alcune esperienze che incarnano alla perfezione quello di cui parlo: la rave culture, ad esempio, perlomeno come è stata intesa in Europa dagli Spiral Tribe in poi, voleva unire indissolubilmente liberazione e libidine. Sappiamo bene tutti che non ci è riuscita, che è degenerato tutto nella fattonaggine e nello squallore, oppure in massacri neurali di massa come quella strana idea di rave che hanno ora in America.
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Andando indietro, si possono trovare altri esempi a pacchi: giusto per nominare quelli che mi stanno particolarmente a cuore, mi vengono in mente i Crass e l’anarcopunk, uno spirito che invece di limitarsi ai testi “di protesta” ti faceva urlare tutte le ossa di una voglia implacabile di vita, e lo faceva sparando senza sosta feedback di chitarra e una sezione ritmica a pallettoni. Eppure tutto è finito nella rassegnazione, nel ritiro dalle scene o, molto peggio, nel revivalino nostalgico. Ma è stato inutile? No. Non è mai inutile, è sempre inutile, non ha importanza. Il punto che rimane fondamentale è che si è critici verso lo stato delle cose, si deve essere critici anche nei confronti dei linguaggi culturali. Non si può mettere in discussione la realtà senza mettere in discussione il modo in cui questa ci viene proposta. Tipo Mark Stewart che, in onda su BBC4, sbraita verso il pubblico “punk è sperimentare: con la politica, coi vestiti… Non è un vecchio ciccione che ti spiega il punk in televisione” parlando, ovviamente, di se stesso. Genio, ma andiamo avanti.
Torniamo all’argomento con cui ho aperto: così come si impara facilmente quanta distanza c’è tra noi e i media tristissimi che tentano la presa per il culo, si può anche arrivare a capire quanta distanza c’è tra noi e un mondo di musica pop che non appartiene più a nessuno. Non vi pare di essere incastrati tra una sovrastimolazione di cazzate e l’impossibilità di portarvi davvero dietro qualcosa di significativo?
Dal canto mio ne ho piene le palle di non potermi entusiasmare con un sentimento estetico nuovo, che mi sembri fornire qualcosa di forte e aggressivo alla vita della mia generazione. Così come ne ho piene le palle di trovarmi in mezzo a gente, anche dotata di coscienza, il cui massimo impegno culturale sono però pippe pseudo-post-moderne su Miley Cyrus o un continuo flusso di inutili puttanate su musica che si sbriciola al primo cambio del vento. Riprenderci l’idea che l’arte e la cultura che produciamo hanno la possibilità di intervenire davvero sulla nostra vita significa fornirci una spinta di emozioni in più perché crisi e corruzione la smettano di strozzarci. Non so da chi di preciso possa venire questa di spinta, perché anche le menti musicali più interessanti che mi è capitato di conoscere di recente si dicono tutte molto dislluse sul potere propulsivo dell’arte in generale, eppure l’esigenza è forte, e se c’è un momento propizio per iniziare a soddisfarla, è proprio questo.
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