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In un mulino del 1830 ho scoperto il marketing dietro le farine “macinate a pietra”

macinazione a pietra

Si legge “macinato a pietra” su molte farina nella GDO. Alcuni finalmente hanno dovuto scrivere che il prodotto che vendono non è propriamente macinato come nei mulini tipo il nostro.

Chiunque durante il lockdown si sia spinto verso le desolate corsie dedicate alla panificazione avrà scorto la dicitura su molti pacchi di farina: “macinato a pietra”.

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Macinato a pietra significa macinare un cereale con uno dei metodi più antichi, ovvero schiacciando il chicco fra due grandi pietre contrapposte, che ruotano. Alcune delle pietre sono naturali, e hanno un grande lavoro artigianale dietro, altre artificiali. Dopo che le due pietre schiacciano il chicco, bisogna poi setacciare per avere quella splendida e profumata farina che userete per del pane fatto in casa con lievito madre a 72 ore di lievitazione, o per quelle pizzette poco invitanti che ho eletto a capolavori durante la mia clausura fra marzo e aprile.

La verità, però, è che dietro tutte le farine che abbiamo utilizzato e utilizziamo quotidianamente, e che riportano la dicitura di “macinato a pietra”, non c’è sempre un procedimento “antico” o se vogliamo essere più precisi artigianale. Spesso il passaggio ulteriore che viene fatto è quello con i cilindri, o la farina macinata a pietra viene mischiata a dell’altra prodotta in modo industriale.

È possibile dunque trovare nella Grande Distribuzione della vera farina macinata a pietra?

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Quando vedi per la prima volta un antico mulino, che macina a pietra, capisci immediatamente che qui non si possono lavorare i volumi imposti dalla Grande Distribuzione. Innanzitutto i mulini che macinano a pietra davvero sono pochissimi, in più quelli che ancora esistono riescono a lavorare partite di grano poco alla volta.

Non voglio essere considerato biologico, non ho voglia di dare soldi alle certificazioni.

La maggior parte delle farine che troviamo con dicitura “macinato a pietra” semplicemente non lo sono, o non lo sono completamente. Su questo punto insiste molto Diego Assandri, che ha un figlio piccolo che si augura non faccia il mugnaio come lui, e come suo padre e suo nonno prima di lui, “troppo lavoro”, mi spiega. La famiglia Assandri macina da cinque generazioni nello stesso mulino, che è rimasto invariato dal 1830 a Sassello, provincia di Savona.

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Diego e Rinaldo Alessandri

Sono a Sassello in gita fra alcuni dei piccoli produttori più interessanti della Liguria grazie allo chef Giorgio Servetto, del ristorante Nove di Villa della Pergola, che è il fiore all’occhiello dell’ospitalità e della gastronomia ad Alassio. Lo chef fa un discorso che non fanno molti ristoranti della zona: cerca piccole aziende che abbiano prodotti artigianali unici, e che possano aiutarlo a raccontare una Liguria meno turistica nei suoi piatti. Dopo aver mangiato quasi tutto il suo menu, posso dire che ci riesce benissimo, tanto da farmi amare un territorio che istintivamente ho sempre snobbato e mal sopportato.

Da Alassio a Sassello c’è circa 1 ora e mezzo di strada in auto; stiamo entrando nell’entroterra savonese nel Parco del Beigua – un Unesco Global Geopark. Sassello è celebre per i famosi amaretti, birrifici artigianali, e una macelleria che con i suoi insaccati è arrivato a scalare le classifiche dei gastronomi. E ovviamente è celebre per il mulino del 1830 della famiglia Assandri, dove si lavora grano, farro e segale, quasi tutti coltivati proprio vicino il mulino, fra Liguria e Piemonte. Mi dice subito Diego, che è un personaggio molto agguerrito e un ottimo divulgatore, che gli appezzamenti di terreno in Liguria sono scoscesi e devi fare molta parte del lavoro a mano. Cambia tutto dalla vicina Padania, ad esempio. Anche i tempi del raccolto sono diversi: loro lo fanno fra luglio e agosto mentre in molte parti del nord Italia la fanno anche a giugno.

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A Sassello c’erano sette mulini come quello della famiglia Assandri; adesso non ce ne sono sette così neanche in Italia e, ovviamente, manca tutta la manodopera collegata, come ad esempio il martellatore delle pietre, cosa che rende la normale manutenzione molto difficile.

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Rinaldo

Appena arriviamo Diego mi dice subito: “Si legge macinato a pietra su molte farina nella GDO. Alcuni finalmente hanno dovuto scrivere che il prodotto che vendono non è propriamente macinato a pietra, come nei mulini tipo il nostro, e che ci sono passaggi con i rulli. D’altronde se vedi le quantità te ne accorgi. Noi facciamo in media 1 quintale di grano all’ora, alcune di quelle aziende le fanno in pochi minuti.” Ce lo spiega mentre gli ingranaggi cigolano vigorosamente e mentre il padre Rinaldo, che è un uomo molto pacifico a differenza del figlio, controlla bene il risultato delle macine, chiamati anche palmenti.

Guardo anche io da vicino: dalla macchina esce una farina integrale che assomiglia più a un pestato. Mi spiega Diego che dovrà poi essere passato nel setaccio per diventare farina.

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Con la macina a pietra, il risultato è quello di una farina davvero integrale, perché si macinano chicchi interi e in questo modo il germe e il rivestimento esterno – come viene spiegato molto bene qui da Il Fatto Alimentare-, “si amalgamano con la farina, ottenendo sapore, aroma e proprietà nutrizionali superiori rispetto alla macinazione tradizionale con cilindri”.

Il mulino a pietra aiuta, certo, ma se macini farina canadese OGM, il gusto resta quello della farine industriali.

Il mulino viene alimentato dall’acqua del fiume, che Diego ci porta a vedere: l’acqua è limpidissima, ci sono anche i gamberi di fiume se guardi bene.

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Accanto al mulino c’è una piccola bottega e da un anno un bistrot: “Abbiamo creato il bistrot per far assaggiare tutto il nostro territorio. Siamo un punto di riferimento per i turisti nel Parco del Beigua. Non vuole essere un ristorante, ma un posto dove mangiare piatti veloci e fare acquisti; segue gli orari della bottega, non facciamo cena, infatti”.

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Diego è una persona che ha le idee molto chiare e altrettante chiare opinioni: “Non voglio essere considerato biologico non ho voglia di dare soldi alle certificazioni. Comunque non mettiamo nulla sui terreni; abbiamo comprato quindici ettari che non venivano coltivati da 80 anni. Per dieci o quindici anni dovrebbero non aver bisogno di fertilizzazioni, poi vedremo. Coltiviamo grano tenero, farro, mais e un’altra varietà e basta anche perché a Sassello il terreno non permette di far tutto.”

Il discorso farina industriale vs farina artigianale non deve concentrarsi solo sul metodo di macinazione, ci tiene a spiegare Diego: “Da 4 anni siamo in autoproduzione totale. Il mulino a pietra aiuta, certo, ma se macini farina canadese OGM, il gusto resta quello delle farine industriali.”

Aggiunge sempre sulle varietà di grano usate: “Con la facoltà di agraria di Torino stiamo trattando anche un grano antico che si chiama Frassineto, anni fa era molto comune”.

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Se dopo tutto questo parlare di macina a pietra aveste voglia di comprare la loro farina, sappiate che non è per nulla facile: si affidano a piccole distribuzioni, locali, ristoranti sulla costa e come quello dello chef Giorgio Servetto ad Alassio, che utilizza le farine del Mulino di Sassello per il cestino del pane a cena e per tutte le colazioni. “Mischiato con altre farine, però, è una farina debole che non consente di poter essere lavorata in purezza” mi dice il giorno stesso a cena lo chef. Farina debole significa semplicemente che è una farina con poca maglia glutinica, che è quello che consente a panificati e dolci di tenere le lunghissime lievitazioni.

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In un momento in cui gli e-commerce gastronomici sono rinati, verrebbe da chiedersi perché non sia possibile ricevere anche la loro farina comodamente a casa: “La nostra farina non avendo conservanti soffre gli sbalzi di temperatura, cosa che contribuisce a guastarla; hai presente le farfalline della farina? Dovremmo spedire con costi proibitivi, visto anche che si parla sempre di un alimento povero che costa poco:”

Diego sul discorso distribuzione aggiunge: “Vado a trovare molti dei panificatori che dicono di usare la mia farina. Me ne accordo dai consumi se la usano davvero o in piccolissime quantità. Non voglio che i locali dicano di usare la mia farina se ne usano in minima parte, giusto per dire che hanno della farina di un mulino del 1830.”

Il discorso su farine, mulini, macinazione a pietra o con rulli non è sempre facilissimo da comprendere e da spiegare ai profani, ma Diego mi ha dato due o tre nozioni molto chiare, sulle quali ragionare. So bene che l’argomento non si esaurisce certo qui, ma è un’ulteriore spinta a informarsi meglio su cosa consumiamo, a cosa dobbiamo prestare attenzione quando andiamo al supermercato.

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Dopo il giro al mulino ho comprato la farina della famiglia Alessandri per mio marito, che con il lockdown, ci è andato sotto con la panificazione, e adesso parla solo di quando farà la prossima pagnotta o dovrà rinfrescare il lievito.

Quando ha visto le farine mi ha chiesto in cosa differissero da quelle comprate al supermercato per tutti i mesi addietro; gli ho suggerito di farsi un giro a Sassello e di parlare con Diego.

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