New York negli anni Novanta era un posto assurdo. Il tasso di omicidi aveva toccato il suo apice storico e l’epidemia di crack dilagava in città. Gli edifici abbandonati zeppi di spacciatori e tossici e la prostituzione che imperava avrebbero portato alla controversa elezione nel 1994 del sindaco Rudolph Giuliani, il primo repubblicano da oltre trent’anni. Tra le altre cose, il sindaco mise in atto un giro di vite sulle discoteche, con una serie di raid che avrebbero trasformato la scena underground da uno spazio libero e aperto a tutti a un ammasso di club finanziati dai grandi marchi, con bottiglie pregiate e divani.
È in questo momento storico che l’artista danese Jacob Fuglsang Mikkelsen arriva in città e scopre il Gershwin Hotel della 27esima strada, epicentro dell’avanguardia di New York. Come un giovane Holden con la fotocamera, Mikkelsen ritrasse i personaggi della scena in una serie di scatti che intitolò Catcher in the Eye.
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VICE: Ci puoi raccontare le tue prime esperienze al Gershwin Hotel?
Jacob Fuglsang Mikkelsen: Ho visitato il Gershwin Hotel per la prima volta nel 1993. Sembrava una specie di posto per ex detenuti e senzatetto. Però Urs Jakob, uomo d’affari svizzero, e sua moglie Suzanne Tremblay avevano fatto un patto con la città. Avevano potuto acquistare l’edificio per un dollaro a patto di trasformarlo in un’attività elegante e ripulita.
Dopo un anno di accademia d’arte a San Francisco, sono tornato a New York e al Gershwin Hotel. Ho cominciato una relazione con Lynne, interior designer dell’hotel, e lei mi ha presentato un sacco di personaggi fantastici che erano direttamente collegati a ciò che era diventato il Gershwin durante la mia assenza. Mi sono trasferito lì in pianta stabile nel 1999. L’hotel si chiamava MA13—Museum of Art 13 Floors. Ogni piano ospitava un’esposizione permanente di diversi artisti.
Quando hai cominciato a scattare la serie Catcher in the Rye?
Avevo quel progetto in testa sin dal 1996, quando ho letto Il giovane Holden [in inglese, The Catcher in the Rye, NdT] che Lynne mi aveva regalato, dicendo che le ricordavo il protagonista. Ho creato tutta una performance tenendo bene a mente il personaggio di Holden Caulfield e scattando le fotografie delle persone che mi circondavano proprio come se fossi lui. La macchina fotografica diventava una protezione perfetta dietro la quale nascondersi. Se stai dietro l’obiettivo e osservi il mondo da lì, non devi partecipare attivamente.
Una volta che le foto sono state esposte, tutte le persone ritratte potevano interagire tra loro. Avevo stampato direttamente i negativi su tela. In quel momento pensavo che se Warhol fosse stato vivo all’epoca, anche lui avrebbe fotografato e poi stampato i suoi lavori su tela. Quando giravo tra i club e gli ambienti artistici underground, ero quasi l’unico con una macchina fotografica.
Cosa ha reso così unica la vita notturna newyorkese degli anni Novanta?
Gli anni Novanta sono stati un periodo di transizione, c’erano la musica house, l’ecstasy, la ketamina, gli open bar, la borsa in crescita e la bolla dell’era digitale che stava per esplodere. Un’intera generazione fatta di giovani intelligenti, creativi e svegli con tantissimi soldi da bruciare.
La scena clubbing era diventata commerciale, mainstream, una noiosa macchina da soldi. Ma la vita notturna dovrebbe essere uno spazio libero, felice, carico di energia positiva. I party migliori si erano spostati ben lontani dalla West Side e da Chelsea. C’erano sempre più feste in barca e nei loft di Brooklyn. Poi c’è stato l’11 settembre, e quella è stata la fine della New York che conoscevo io.
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