“Il principio alla base dei miei scatti è la curiosità che nutro verso i dettagli, la memoria dei posti e delle persone,” spiega Giuseppe Giammetta.
Nato e cresciuto a Matera per poi trasferirsi a Roma, Milano e infine New York, è all’università che inizia ad approfondire la sua passione per la fotografia: una pratica che, fin da bambino, trova affascinante e un po’ misteriosa, e che, col passare degli anni, lo spinge a immortalare ciò che sente la necessità di custodire nel tempo.
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In Figli di San Gennaro, uno dei suoi ultimi progetti, Giammetta—oggi anche direttore creativo, designer e brand storytelling strategist—ci porta nel vivo della Feast of San Gennaro: la processione newyorkese che ogni 19 settembre celebra il patrono principale di Napoli nel cuore di Little Italy, ravvivandone le strade per più di dieci giorni.
Ho contattato Giammetta per scoprire di più riguardo a questa festività e capire che cosa l’ha spinto a documentarne i momenti salienti.
VICE: Parlaci di come ti sei avvicinato al mondo della fotografia. Giuseppe Giammetta: Come nel più delle case di fine anni Ottanta, da noi la fotografia c’è sempre stata: mio padre scattava con una reflex Nikon e avevamo due grandi album di famiglia, i ricordi stampati di quel periodo non mancano. I miei nonni materni usavano la fotografia per conservare testimonianze dei loro viaggi, del lavoro e dei momenti che trascorrevano con i parenti.
Al liceo avevo una compatta digitale Canon che portavo sempre con me, la tenevo nell’astuccio sul banco. Avendo iniziato da autodidatta, le mie fotografie hanno cominciato a evolvere quando studiavo architettura all’università: un giorno una professoressa di Urbanistica ci chiese di documentare con qualsiasi mezzo a nostra disposizione i luoghi più agglomeranti o abbandonati del quartiere Laurentino 38 di Roma, quell’esperienza mi illuminò.
**Pur esplorando diverse tipologie di soggetti e ambientazioni, l’elemento umano è sempre centrale nella tua pratica fotografica. Cosa ti incuriosisce così tanto della gente che ti sta attorno?
**Non sono mai stato un amante delle folle né delle situazioni caotiche, le uniche che ho sempre tollerato sono quelle in occasione delle feste di paese e dei concerti. In una città piena come New York cerco di isolare un soggetto che mi cattura per come cammina o per come è vestito. Solitamente vengo attratto da persone che sembrano appartenere a decenni precedenti.
La mia fotografia riflette la mia ricerca della calma, di qualcosa che esiste da tempo e che forse non esisterà più, creando una sorta di diario. È per questo che a Matera mi piace documentare i rituali, i luoghi, gli oggetti, e la gente che mi manca quando sono lontano: tutte cose che non so se ritroverò al mio ritorno.
**Quali influenze artistiche possiamo trovare nelle tue fotografie?
**Sono cresciuto negli anni Novanta in una famiglia semplice, in un decennio ‘perfetto’: ho assaporato la semplicità degli amici in cortile ma anche la tecnologia a casa, i VHS, le musicassette, i CD, il primo computer con stampante annessa e internet.
Nel ‘93 la videoteca principale di Matera si chiamava “Manhattan”, mio padre lavorava in una banca nella stessa strada e quando tornava a casa il venerdì sera mi portava una cassetta. Mi capitava di rivedere lo stesso film almeno 20 volte: amavo studiare i film fantasy, americani, e i colossal nei minimi dettagli. Grazie al cinema ho capito il potenziale dell’immagine e della fotografia, e penso che questo mi abbia portato a scattare cercando sempre di raccontare una storia che comincia da una minuzia.
Mi sento influenzato anche dall’architettura, quella popolare e quella art decò, quella brutalista e razionalista, dagli spazi e dall’arredo urbano, dai portoni e dai cortili rionali. Sono un collezionista di oggetti antichi, cartoline e foto d’epoca, libri di immagini—tutto ciò che può raccontare una storia. Le persone, gli oggetti, l’architettura e la natura: sono questi i miei soggetti fotografici, le cose che più mi piace osservare.
**Cosa ti ha portato a New York e quali sono state le tue prime impressioni?
**Sono arrivato a New York per motivi personali, ma per me non è una meta definitiva. Vorrei riavvicinarmi all’Italia ma in un contesto di campagna, non urbano. New York è un luogo incredibile dove si innescano magie, ma è anche il posto peggiore per affezionarsi alle cose o alle persone.
Vivo qui da quattro anni ma ho la sensazione che dal mio arrivo tutto sia diventato più estemporaneo, e che questa velocità di ‘progresso’ e marketing, accelerata dal COVID, stia schiacciando la storia della città come una grande nube.
Nel tuo progetto Figli di San Gennaro racconti la processione in onore del patrono di Napoli nota come la Feast of San Gennaro**. Che cosa ci sai dire della storia di questo evento?
**Figli di San Gennaro è il primo di una serie di progetti che ho iniziato un paio di anni fa, intitolata Prima che tutto svanisca. Questa processione rappresenta quello che cerco a New York—ciò che è autentico, ha una storia ed è sopravvissuto al marketing aggressivo, all’inflazione economica e all’era digitale.
San Gennaro è un santo che mi hanno fatto conoscere i miei amici di Napoli. Mi affascina e ispira simpatia, perché da secoli gli viene data la responsabilità delle sorti della città: se il sangue non si scioglie alcune donne gli imprecano contro, se invece si scioglie sarà di buon auspicio per tutta la città, di cui è patrono principale, e quindi avviene il miracolo.
A New York questa festa è molto famosa, si tiene il 19 settembre e ha radici che risalgono al 1926, anno in cui sette immigrati italiani si stabilirono su Mulberry Street in quello che diventò poi il quartiere di Little Italy. Nostalgici delle loro tradizioni, decisero di proseguire la loro devozione al Santo costruendo una piccola cappella contenente la statua di San Gennaro, la quale è conservata permanentemente nella chiesa The Shrine Church of the Most Precious Blood.
Col passare degli anni, da una festa che interessava un solo isolato si è arrivati a una celebrazione che dura ben 11 giorni tra eventi, giostre, gare tra pasticcerie, e le iconiche gare di abbuffata—chi riuscirà a mangiare più cannoli o spaghetti meatballs in cinque minuti?
**Che differenze ci sono tra i cosiddetti Figli di San Gennaro e chi, anni dopo, ha lasciato l’Italia per seguire le proprie ambizioni a New York?
**Il numero di residenti di origine italiana nel quartiere di Little Italy è in calo dagli anni Sessanta, quando l’immigrazione dall’Italia è diminuita drasticamente e gli italoamericani hanno prosperato, trasferendosi in altre parti della città e nei sobborghi.
Oggi trasferirsi in America senza nessun presupposto concreto è quasi impossibile, ma per chi è ambizioso penso che New York oggi sia più un punto di arrivo che di partenza.
**A livello di immaginario impresso sul quartiere invece, cosa si potrebbe dire della festa?
**Le prime feste di San Gennaro nel quartiere risalgono a quando le prime famiglie italiane arrivarono da Napoli negli anni Venti. All’epoca c’era un premio per chi decorava meglio le scale di emergenza sulle facciate degli edifici: oggi queste decorazioni sono diventate una vera e propria produzione di allestimento e progettazione. Quest’atmosfera faceva da filtro al senso di povertà, che diventava così ricchezza di rapporti e relazioni.
Ci sono dei riti e delle tradizioni, come la festa di San Gennaro, che oggi tengono unite le persone che hanno vissuto in quel quartiere: chi è andato via ritorna in quella settimana per celebrare non solo il Santo, ma anche il senso di comunità.
Che cosa hai scoperto riguardo alla comunità italiana a New York grazie a questo evento? Non ero mai stato a questa festa e mi è sembrato di ritrovare un’atmosfera familiare in un contesto nuovo e tutto da scoprire. È stato come assistere a una qualsiasi situazione di paese in Italia: lo stesso linguaggio del corpo, gli stessi gesti, gli abbracci tra amici ritrovati e i saluti formali ma allegri tra le vecchie conoscenze. È per questo che fotograficamente mi sono dedicato specialmente ai volti e alle espressioni di coloro che hanno preso parte alla processione.
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