Sono tempi d’oro per le interiora.
Trippa, coratella, animelle e pajata e cuore sono i nuovi re delle tavole d’oggi. Antichi moderni acchiappacuoricioni dal che fanno riallineare il gourmet annoiato con la cucina di una volta.
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Spesso dimentichiamo che un tempo erano considerati gli scarti ignobili di una bestia e che la povera gente non voleva mangiarli, ma doveva farlo. O quello o i soliti fagioli. Di certo non avevano il blister di pollo a tre euro e ottantanove. Per questo le bravi madri di famiglia facevano di tutto per nascondere il più possibile la carne tra pane, verdure, sughi, salse e qualsiasi cosa potesse essere adatta allo scopo. Mia nonna, calabra verace, la trippa al sugo piccante la metteva in un pane gigantesco a forma di ruota: si tagliava e si metteva nella gavetta che serviva agli operai per riprendere forze a metà mattina.
Ora, tenete a mente per qualche secondo: scarto e metà mattina. Qualche tempo fa ho scambiato quattro chiacchiere con lo chef Andrea Dolciotti di Pigneto 1870. È venuto fuori che aveva una mezza idea di mettere in carta palle di toro, utero di mucca e il buco del culo di asino. A sentire la notizia la faccia mi si deve essere contratta tipo quella di Winona Ryder che guarda una pizza volante agli Screen Actors Guild Awards. Alla fine però ho deciso che non solo avrei assaggiato tutto, ma ne avrei aggiunte altre e ci avrei fatto colazione.
La prima volta che ho pulito uno stomaco non mi hanno detto che dovevo fare un buchino prima di mettere l’acqua calda. Mi è esplosa in mano e ho puzzato di merda per tre settimane. Rischi del mestiere
Così, in una calda mattina autunnale, sono entrato nella cucina di Pigneto 1870 senza caffè in corpo, ma con la mia ragazza pronta a fare scatti estremi. Intestini, cervelli, un cuore, delle mammelle necrotizzate, un buco di culo e una matrice ancora da pulire, delle animelle e un bel pezzo di trippa invadevano i banchi ovunque ci girassimo.
Andrea Dolciotti ha cominciato a pulire il tutto e nel mentre mi ha raccontato alcune storie sulle frattaglie, che andavano dal mercato alle ricette usate in tutta Italia fino ai metodi di cottura più corretti e al modo migliore di riconoscere i pezzi buoni.
Ad esempio, sapevate che la maggior parte della pajata, cioè del primo tratto dell’intestino del vitellino o agnellino nutrito solo a latte materno, viene pulita sparando un getto d’acqua da un estremo a un altro per renderla più sanificata, date le schifezze che potrebbe aver mangiato la madre?
Gif Irene Casavecchia Sangiorgi
Col risultato che di latte ne rimane ben poco e che se la cuocete si raggrumerà tipo ricotta invece che addensarsi come latte riscaldato. Quella vera, buona, che veniva usata come stipendio per i macellai del mattatoio più giovani, non può costare meno di 10 euro al chilo e se la tagliate deve sgorgare fuori tutto latte. Segnatevelo.
Per sentirti romano per davvero devi fare due cose, anzi tre: imparare a svicolare, non arrivare mai puntuale e mangiare i rigatoni co la pajata.
Tra uno scatto e una parola, tra schizzi di escrementi e latte che riempivano il lavandino, le mani esperte dello chef hanno cominciato a mettere insieme i primi piatti da assaggiare. Un pochino di ansia, un sorso di vino, l’attesa al tavolo.
La Trippa
Spesso e volentieri si crede che sia l’intestino della mucca, ma sono invece le parti dei suoi stomaci. Se avete in mente una consistenza morbida, allora avete mangiato la cuffia, la parte a nido d’ape. Per la mia colazione, invece, abbiamo optato per una finta trippa alla toscana . Finta perché loro usano l’ abomaso, il famoso lampredotto , mentre noi per fare una cosa un po’ più hardcore ci abbiamo messo il rumine , che è la parte più spessa e grassa: bollita, piastrata, tagliata e messa dentro un panino con della salsa verde.
Il primo morso era di perplessità, il secondo per confermare che no, il rumine non è adatto per questa cosa. Il sapore non era male, ma la consistenza era quella di una gomma masticata cento anni fa. Mentre i presenti sorridevano sotto i baffi, è arrivata la trippa come la conoscevo già: alla romana , cotta in un court buillon con cotica di maiale, ripassata in padella con cipolla e sugo di pomodoro e impiattata con mentuccia e pecorino.
“La prima volta che ho pulito uno stomaco non mi hanno detto che dovevo fare un buchino prima di mettere l’acqua calda. Mi è esplosa in mano e ho puzzato di merda per tre settimane. Rischi del mestiere”. Grazie Andrea, terremo a mente il tuo consiglio.
Le Animelle
Non è molto facile spiegare cosa siano le animelle, perché una definizione c’è, ma ognuno dice la sua. Tecnicamente sono una ghiandola spugnosa nel collo dei giovani bovini, in pratica sono definite animelle anche parti del pancreas nel Lazio o ghiandole salivari se parliamo di agnelli. Qui a Roma sono un piatto di tradizione, in genere si impanano e friggono, ma sempre per complicare le cose mi sono state portate piastrate dopo un bagno caldo in acqua, menta e alloro. Poggiate su una crema di cavolfiore, accompagnate da un carciofo alla romana e da gambero rosso crudo erano un piatto completo, appagante, calibrato che mi ha fatto venire altra fame.
Avanti il prossimo.
La Pajata
Per sentirti romano per davvero devi fare due cose, anzi tre: imparare a svicolare, non arrivare mai puntuale e mangiare i rigatoni co la pajata.
Con questa cominciamo a entrare nel vivo delle cose estreme. L’intestino tenue del vitellino o dell’agnellino che non è ancora stato svezzato, pieno ancora del latte materno, è una prelibatezza rimasta illegale per un po’ di tempo, quando ci fu la questione “Mucca Pazza”. Trovare la pajata era come trovare delle metanfetamine – forse anche più difficile. Quella che è tornata subito dopo il rientro di contagio, però, non somigliava nemmeno lontanamente alla pajata vera: color grigio morte, mezza vuota e moscia.
Quella che ci ha portato Massimiliano il Macellaio, proveniente da allevamento fatto alla vecchia maniera (erba, le mucche mangiano erba, signori, non mais), era rosa come il culetto d’un infante e dentro si poteva vedere per tutta la sua lunghezza il latte rigoglioso.
Ci sono sostanzialmente due modi per trattare la pajata prima di cuocerla: farne delle ciambelline annodate a se stesse – il metodo usato da tutte le nonne romane -, oppure intrecciata con dei movimenti fluidi bellissimi da vedere.
Per non cadere nei soliti Rigatoni al sugo in cui il latte si mischia al rigatone che acchiappa il pomodoro in un’orgia estatica incredibile, il buon Dolciotti ha sbollentato una bella treccia piena, l’ha sbattuta su una piastra rovente, un minuto e mezzo a 130 gradi di forno, sale grosso, olio e che vuoi di più dalla vita.
Immaginatevi questa ciccia gonfia e il coltello affonda e il latte schizza ovunque in uno splatter poetico. La membrana, cui era stato tolto lo strato di velo per renderla più leggera, era elastica al punto giusto. Morbida come le guance di un neonato, con il latte che si mescola al sale e all’olio e il palato non sa più che fare, è frastornato e gode.
Consiglio spassionato: non prendete pezzi troppo grossi, non scendono e vi escono gli occhi fuori dalle orbite.
Il Cervello
Come le animelle, il cervello di vitella può sembrare una parte disgustosa, ma è tuttora una delle interiora che più si usa mangiare. Già Plinio ne parlava. Da vedere era bellissimo.
Una bella spurgata con acqua frizzante e ghiaccio, una prelessatura di latte e acqua in parti uguali per evitare che mi beccassi cose brutte e una volta che tutti i “corridoi” si sono fatti bianchi è stato impanato nel pan grattato, scottato un attimo in padella e fritto.
Non so se abbiate mai assaggiato un cervello, ma se non l’avete fatto correte ai ripari. Panatura croccante, interno che si scioglie in bocca: la prova provata che, come si dice da ste parti, fritto è bono tutto, pure ‘a merda.
O quasi, ma quello lo vedremo tra poco.
Il Cuore
Vedere un cuore crudo di mucca è fichissimo: tendini, ventricoli, il colore tra il rosso e il viola e una dimensione veramente mastodontica. Nella santa tradizione giudaico-romanesca non si buttava talmente niente, che persino le valvole erano utilizzate, stufate, come nervetti.
Essendo giustamente diviso in due parti, il consiglio dello chef e di Massimiliano il Macellaio (che sconsiglia di mangiare carne tutti i giorni chiusaparentesi) è di tagliare in obliquo, in modo da prendere sia atrio che ventricolo.
Il cuore è un muscolo tosto, ragion per cui farne bistecche è la scelta più ovvia. Per la mia colazione ipercalorica, che mi ha fatto assumere ferro per i prossimi tre anni buoni, si è scelto di omaggiare la tradizione antica, di quando ogni Rione aveva le sue ricette differenti per ogni piatto. Una montagna di carciofi saltati ricopriva bistecchine di cuore passate in padella con burro e olio in un tripudio di sugna generosamente coperta di pecorino. A Testaccio, ad esempio, gli spazi tra le foglie dei carciofi venivano imbottonati di pane, per saziare di più.
Si copriva per non far vedere ai bambini – ma anche ai grandi – cosa si stavano mangiando. Era ok, andava giù, ma tutti i sapori sparivano dopo una scazzottata bella forte senza vincitori (tranne la sugna. Quella è da scarpetta, sempre).
La sorpresa è arrivata col secondo piatto di cuore: un carpaccio cotto ore e ore in sottovuoto poggiato su un’insalatina condita all’olio di sesamo tostato, e condito con gelato alle acciughe, puntarelle e frutti di bosco. La consistenza del cuore diventa quella di un prosciutto, così come il sapore (ma più ferrico), mentre l’aspetto è molto molto simile al roast-beef. Da un muscolo non mi aspettavo una complessità del genere, ne avrei mangiati cinque se non stessi per arrivare al limite fisico e mentale. Le ore passavano e mi cominciavo a preparare alle parti proibite.
La Mammella
Con la mammella la cosa si fa più hardcore. Sono stato a guardare chef Dolciotti che con mano sapiente scuoiava il pezzo tagliando pelle e capezzoli necrotizzati trattenendo conati veloci.
Sebbene la sua geografia abbia previsto un utilizzo in Valle d’Aosta, Milano (!) e Sardegna, oggi come oggi è (raramente) possibile trovarla solo a Napoli e in Toscana – che prendiamo come ufficiale patria delle frattaglie.
A parte gli ultimi irriducibili vecchietti fiorentini che la gustano direttamente dal trippaio con lo stuzzicadenti, città sacra della zizza è Livorno.
Il primo rapporto avuto con una mammella bovina è stato il più possibile indolore. E la cosa più indolore, ormai lo sanno tutti, è la frittura.
Tranci di mammella sbollentati, impanati e fritti serviti su una crema di cicoria e gel acidi sono stati un rischioso funambolismo tra sanità ed Escherichia Coli, ma soprattutto l’eccezione che conferma la regola: ebbene sì, fritto non è buono tutto.
La panatura non è servita ad arginare una consistenza gommosa ed elastica quanto uno pneumatico, così come non è riuscita a coprire il nauseante sapore di latte fresco che fuoriusciva ad ogni travagliato morso.
Esperimento fallito, momento di sconforto, esperimento nuovo. Era arrivato il momento di provare la vera ricetta, la Poppa al Pomodoro direttamente da Livorno. Sbollentata più a lungo fino a renderla morbida in acqua, latte ed erbe, porzionata, panatura leggera di semola, fritta e tuffata nel sugo.
Morbida, lattiginosa, acidula grazie al pomodoro, ero innamorato. La prova che il fritto può sbagliare, ma se tuffi qualcosa nel sugo vincerai ogni battaglia.
Il Buco di Culo e la Matrice
Eccoci qua, ormai con le luci del pomeriggio, alla fine di questo climax infinito. Arriviamo alla causa di tutto, il principio scatenante di questa malsana idea di mattina alternativa.
Ormai non parliamo nemmeno più di scarto, ma di scarto non commerciabile. Per quanti sforzi si siano potuti fare, è assolutamente impossibile riuscire a reperire l’ano dell’asino, così come quello di mucca. A quanto pare nel Lazio è illegale vendere un tale ricettacolo di batteri, per cui Massimiliano il Macellaio ha avuto la furba idea di andarlo a prendere direttamente in Toscana, dove legale è, eccome.
Afflosciati nel lavandino in attesa di essere puliti per le somme gioie del mio stomaco, il retto e la matrice (che sarebbe l’utero) della povera bestiola lanciavano sguardi inquietanti. Indirizzati a me. Mi minacciavano.
Dopo un immane lavoro di pulizia dalla pelle e dal grasso in eccesso penzolante, lo chef si è prodigato in dimostrazioni di allargamenti per mostrarci l’interno e procedere con lo spurgo. Rigagnoli di sterco fuoriuscivano senza sosta e non potevo fare altro che pensare “Mio Dio, mi sa che ho fatto una cazzata”, già certo che mi sarei beccato un virus incurabile.
Una volta aperti i due canali si sono fatti un bel bagno nel brodo vegetale prima di venire tagliati in pezzettoni.
Uno crede di stare facendo qualcosa di nuovo e straordinario, e invece no. Nella ormai appurata Patria delle Interiora, comunemente chiamata Toscana, utero e buco di culo vengono serviti in un panino come fosse trippa condito dalla sola salsa verde. Tutto ciò porta con orgoglio il nome di Bollito Erotico, e io penso che non ci sarà mai nome più azzeccato per un piatto.
La fine della mia introversa colazione non poteva che essere questo bollito pornografico. Il buco di culo prende in sposa la matrice nella Santa Chiesa del Panino Sciapo e colui che celebra è affamato.
Per agitare un poco le acque – e creare della suspence – i panini preparati sono stati due: il primo semplicemente bollito e servito con salsa verde, il secondo bollito e poi piastrato, sempre accompagnato dalla salsa verde. Il morso primordiale è spettato, non senza iniziale riluttanza, al semplice bollito di canali. Un connubio di consistenze tra le fibre più morbide della matrice e quelle nodose del culo. Di sapore nemmeno l’ombra. Devo dire che ci sono rimasto male. L’utero aveva un lontano sentore di acqua dolqciastra, il retto non aveva assolutamente alcuna caratteristica gustativa.
Ho attaccato senza troppe aspettative il panino con la carne piastrata. Credeteci o no, il fratello passato sulla piastra non solo aveva un ottimo sapore, ma le consistenze si equilibravano in modo perfetto. Il tocco bello grosso del buco di culo dava la sostanza necessaria, le terminazioni fibrose della vagina scioglevolezza e un sapore pieno.
In poche parole, alla fine non solo ho assaggiato due delle parti di una mucca che mai avrei creduto di mettere sotto i denti, ma mi sono anche piaciute.
Con una forza sovrumana che mi scorreva tra le vene mi sono incamminato verso casa. La pancia piena di altre pance. L’anima più ricca, con meno pregiudizi alimentari.
E qualcosa di fastidioso tra i denti.