Quando nel 1980 venne presentata al Lucca Comics, era chiaro che Frigidaire sarebbe diventata una rivista diversa dalle altre. Fondata in quello stesso anno da Vincenzo Sparagna, Stefano Tamburini e Filippo Scòzzari, Frigidaire usciva dalla logica di informazione settoriale di solito alla base di qualunque prodotto editoriale e si cimentava in un progetto di comunicazione totale: fumetto, arte, satira, letteratura, politica, filosofia, musica fusi in un insieme indissolubile.
Su quel palco di presentazione a Lucca, Andrea Pazienza si era tirato su una manica e aveva mimato una pera per illustrare una sua vignetta provocatoria del primo numero. “Ma non lo rimproverai,” scrive Sparagna in Frigidaire. L’incredibile storia e le sorprendenti avventure della più rivoluzionaria rivista d’arte del mondo.” Pensavo che il suo fosse un modo teatrale per attirare l’attenzione sulla nostra radicale sincerità, per dire che ci trovavamo altrove, che l’ipocrisia dominante ci faceva schifo. Lo vedevo come un gesto di sfida, uno sparo nel mucchio dei fans, come aveva fatto Sid Vicious dei Sex Pistols.”
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Pazienza, che aveva partecipato come Tanino Liberatore e Massimo Mattioli alla fondazione della rivista, era solo uno dei giovani autori che pubblicavano su quelle pagine. Infatti al gruppo iniziale si affiancarono quasi subito Franz Ecke, Giorgio Carpinteri, Silvio Cadelo, Marcello Jori, il francese Marc Caro, Josè Munoz, Igort e molti altri. Le vicende che hanno segnato Frigidaire sono varie e molto diverse. Censure, denunce, chiusure, sequestri e morti hanno fatto da contorno alla storia della rivista che superando mille difficoltà è riuscita ad andare in edicola fino 1998 e poi, a fasi alterne, fino al 2003—anno in cui Vincenzo Sparagna fu costretto a vendere la sua casa ormai piena di ipoteche. La pubblicazione ha ripreso poi a uscire solo nel 2009.
Oggi trovarla in edicola a Milano non è un gioco da ragazzi. Più facile è comprarla nel bar di fiducia di Vincenzo, a Giano dell’Umbria: un comune di 3000 abitanti in provincia di Perugia dove Sparagna ha fondato nel 2006 in una ex colonia balilla abbandonata la Repubblica di Frigolandia, divenuta poi anche casa di Vincenzo e della sua attuale compagna e principale collaboratrice, Maila Navarra, una disegnatrice e grafica romana che quando Frigidaire venne fondata aveva dieci anni.
Ho deciso di raggiungerli a Frigolandia per farmi raccontare da Sparagna la storia vista dall’interno, le curiosità della rivista e le dinamiche che hanno portato al primo numero. Dopo aver girato a lungo per la campagna umbra, arrivo che è notte fonda. Dei cani ululano e fa freddo. Davanti a me un enorme cancello vagamente simile a quello di Auschwitz, ma il messaggio di benvenuto, anziché essere il tetro “Arbeit Macht Frei”, è il gioioso nome Frigolandia in lettere di ferro colorate. Maila mi aspetta ancora sveglia perché sta impaginando il numero di novembre de Il Nuovo Male e mi accompagna alla mia camera. Fuori il vento soffia forte, la stufa a legna è spenta, ma ho un paio di birre, degli antidolorifici e molte coperte.
Mi sveglio presto e dopo aver fatto una passeggiata nella pineta di Frigolandia, ammirato Il Teatro Naturale di Oklahoma (una costruzione in legno realizzata dall’artista folignate Luciano Biscarini in memoria di Franz Kafka), la pittoresca Casa Rosada dal camino enorme e il parco giochi mi presento a Vincenzo, che nel frattempo è uscito per dare da mangiare ai cani—quattro, per la precisione. Indossa una berretta nera da cui escono dei folti capelli bianchi. Mentre mi prepara il caffè sorride e mi chiede se ho dormito bene.
Casa di Vincenzo è anche la sede editoriale di Frigidaire, nonché di parte degli archivi storici della rivista e de Il Nuovo male, nonché un museo dell’Arte Maivista. Ed è tutte e tre queste cose contemporaneamente, senza distinzione di spazi. Nell’ampio studio di Vincenzo, dove mi sta guidando per fare due chiacchiere, ci sono due grandi librerie, dei computer, una meravigliosa scrivania che poggia su un enorme tronco di castagno tagliato e due grandi finestre. Quando iniziamo a parlare, Vincenzo si versa un bicchiere d’acqua e ci spreme un limone. “Ero convintissimo che mancasse una rivista capace di un racconto fenomenologico del mondo, per uscire dall’universo delle ideologie che negli anni Settanta avevano avvelenato anche l’analisi,” mi dice tra un sorso di limonata e l’altro. “Anche adesso raramente si racconta davvero quello che accade, perché è più semplice sovrapporre alla realtà degli schermi ideologici. Ma allora questa distorsione era fortissima. Noi abbiamo cercato di rappresentare il mondo in diretta e in soggettiva, fuori da ogni gabbia preconcetta.”
La preparazione del primo numero è durata circa un anno ed è stata il frutto dell’incontro tra Tamburini e Sparagna, che allora faceva parte della direzione de Il Male, una delle più importanti riviste satiriche italiane. “Tutto è nato da un’idea convergente mia e di Stefano Tamburini dopo la chiusura di Cannibale [la rivista di fumetti fondata da Tamburini nel 1977 e mandata in edicola dal Male], una fine obbligata perché perdeva troppi soldi e Il Male non poteva più sostenerla. Cannibale aveva comunque dei fumetti straordinari e Tamburini voleva dargli una continuità. D’altra parte anche io stavo pensando a una nuova rivista. Il Male aveva infatti liberato il linguaggio della satira, ma tante altre forme di racconto della realtà restavano inesplorate. Insomma ci abbiamo ragionato su anche con Scozzari ed è venuta fuori l’idea di Frigidaire. Che fin dalla nascita era un brand. La rivista era formata dal gruppo dei cinque di Cannibale più me che la dirigevo. Avevamo trovato una sponda finanziaria in un gruppo milanese, ma già dopo il primo numero i nostri partner editoriali si sono ritirati scandalizzati e tutta la situazione amministrativa e organizzativa è ricaduta su di me.”
Mentre parliamo osservo l’infinità di disegni, sculture in legno, poster o gigantografie singolari come la foto di Achille Bonito Oliva nudo su un divano (da uno dei più celebri reportage della rivista). Ovunque intorno a noi, è come se le pagine diFrigidaire fossero esplose nella realtà. Quando gli chiedo cosa sia l’arte “Maivista” di Frigidaire—come la definirono lui e Pazienza—Vincenzo risponde che semplicemente è un’arte che c’era ma non veniva vista. “Fu un modo parodistico e beffardo per illustrare il nostro concetto dell’arte che è sempre mai vista, perché si rinnova a ogni sguardo,” spiega. “Ci sono opere che sono state viste migliaia di volte, per esempio quelle di Leonardo o di Michelangelo, ma quando le rivedi provi sempre un’emozione nuova perché hanno una vibrazione che le rende mai viste ogni volta. Tuttavia il termine nacque in origine per definire i disegni a china che facevo sin dall’adolescenza, ma che non avevamo ancora mai pubblicato. Non erano fumetti, non erano illustrazioni, proprio non sapevamo come battezzarli. A quel punto Pazienza disse, ‘È un’arte che esiste, ma non è stata vista. È un’arte maivista!’”
Come ogni movimento artistico, anche l’Arte Maivista—apparsa ufficialmente su Frizzer, la rivista che affiancò Frigidaire tra il 1985 e il 1986—ha un suo manifesto. “Abbiamo iniziato per scherzo, ma presto è diventato un modo per definire tutta l’arte di Frigidaire—che è l’arte dell’ascoltare l’arte. Infatti abbiamo ospitato stili e artisti diversissimi tra loro. Ma queste presenze sono state il frutto di una nostra capacità di ascoltare, cioè guardare; scoprire l’immagine artistica quando nasce, cioè prima che finisca nei musei o che entri nel sistema della comunicazione e si affermi. Prendi il coatto sintetico Ranxerox, inventato da Tamburini e oggi tradotto in tutto il mondo, quando lo abbiamo pubblicato su Frigidaire nello splendore dei colori e delle forme di Liberatore, nessuno lo conosceva. Così è successo anche per le storie di Zanardi e di Pazienza e per tanti altri. Molti autori, anche della nostra seconda generazione come Ugo Delucchi, Giuseppe Palumbo, Danilo Maramotti, Davide Toffolo e altri, hanno debuttato proprio sulle nostre pagine. Abbiamo avuto la capacità di cercare il nuovo non seguendo il modello avanguardistico del Novecento ma ponendoci oltre l’epoca, in maniera postmoderna, considerando il passato un unico immenso serbatoio di contemporaneità. Del resto tutta l’arte nostra, nell’immagine come nella scrittura, nasce lontano dalle accademie, dalle gallerie e dai salotti, su un territorio melmoso, più vicina idealmente a Céline che a Tolstoj per capirci. È un’arte che vive nel buio dei bassifondi, da cui emergono talvolta luci straordinarie. E anche in questo senso è un’arte maivista, perché nessuno prima di noi riusciva a vederla.”
Per essere mai vista, è stata comunque assorbita bene: ancora oggi tanti si tatuano la faccia incazzata di Ranxerox e Pazienza è considerato uno dei più grandi fumettisti del Novecento. “Effettivamente c’è questa permanenza, questa durata delle pagine di Frigidaire,” mi dice Vincenzo con ormai solo i semi del limone rimasti nel bicchiere. “Non è un caso. Sin dal principio abbiamo cercato di vedere la realtà con gli occhi del futuro e mi sembra naturale che ancora oggi Frigidaire venga letta, numeri antichi o recenti, come una rivista assolutamente attuale. Ricordo che per il gennaio 1980 noi del futuro gruppo di Frigidaire preparammo un inserto del Male che si chiamava Duemila e cercava di vedere il mondo nel suo divenire, di anticiparne le trasformazioni.”
Un altro elemento avveniristico della rivista è stata la sua grafica, che non è mai cambiata nelle linee portanti pur nel mutare dei decenni. “Credo rappresenti il nostro carattere e ci ha reso unici. La grafica di Frigidaire, impostata all’epoca da Tamburini e curata sempre da me, oggi con l’aiuto creativo di Maila, si rifà alla Bauhaus e coniuga la leggibilità con l’eleganza: ovvero è sorprendente, ma senza mai cedere al gusto stucchevole dell’eccentrico.”
A proposito di “cedere”, gli chiedo come sia cambiato il modo di fare satira negli ultimi decenni. “Mah, sai… La satira nata una quarantina di anni fa con il movimento del ’77 era autonoma rispetto a tutto il sistema della comunicazione. Rispetto a quella satira gli unici rimasti coerenti con la sua filosofia di fondo siamo noi. Quando non dipendi da nessuno ti puoi permettere di essere sarcastico, ironico ma soprattutto veritiero verso tutti. Quando nessuno ti rispetta per convenienza o complicità, puoi permetterti di non rispettare nessuno. Il satiro non può che essere un marginale geniale. Certo esiste anche una satira più ufficiale, una satira che non esito a chiamare cortigiana. La vignetta del quotidiano X fa parte del quotidiano in sé. Capisci che intendo? Un mio vecchio amico del Male ad esempio è uno dei redattori de Il Foglio e lì pubblica le sue vignette. Quando lo critico per essersi fatto fare prigioniero dalla stampa imperiale, si giustifica dicendo ‘nessuno mi censura’. Non capisce che il problema non è la censura, è che stai dentro un sistema, sei parte di un discorso gestito da altri, ti sei ridotto al ruolo del giullare di corte. Tu disegni la tua vignetta, ma il discorso è gestito da altri, sei la loro parentesi comica. Come quando Santoro chiama l’insopportabile Vauro e gli dice ‘adesso facci ridere!’ Una cosa triste, anche perché da un punto di vista satirico serio… fa più ridere Santoro che Vauro,” mi risponde Sparagna.
La satira del resto non può limitarsi alla risata, e dal Lunedì della Repubblica ai falsi internazionali, il filone dei falsi del gruppo procede lungo questa linea. Quando ne parlo a Sparagna, mi racconta che “dopo aver fatto nel ’79 una falsa Trybuna Ludu distribuita clandestinamente in Polonia e nell’80 una falsa Pravda diffusa durante le Olimpiadi di Mosca, ci accorgemmo nel 1983 che in Russia c’era fermento per la guerra in Afghanistan. Ne discutemmo con Vladimir Bukowski e altri intellettuali russi in esilio a Parigi, i quali combattevano il bolscevismo che negava il valore fondamentale della libertà, e decidemmo di fare una falsa Stella Rossa da distribuire in Russia ma soprattutto ai 500.000 soldati sovietici schierati sul campo per sfidare la guerra con l’arma della satira.”
“Per trovare i fondi vendemmo l’idea ad Actuel e Interviù e ci facemmo anticipare denaro e biglietti. ‘Basta con la guerra! Tutti a casa!’ questo era il titolo di prima pagina e l’immagine che l’accompagnava era un soldato russo che spezza un kalashnikov. Con me c’era il giovane giornalista dissidente lituano Savik Shuster che era già stato in Afghanistan e aveva i contatti giusti sul posto. Naturalmente la cosa era complicata, si trattava di depistare il KGB, perciò ci dividemmo in due gruppi, dei quali uno si spinse fino dentro la Kabul occupata dall’Armata Rossa. Così Frigidaire riuscì a sbeffeggiare l’Unione Sovietica. Abbiamo distribuito una grande quantità di copie e siamo tornati sani e salvi. L’impresa ha avuto un eco mondiale. Tanto più che i giornali russi, compresa la vera Stella Rossa, risposero accusandoci di essere falsari al servizio di Reagan. Ma più loro smentivano, più le nostre false notizie sembravano ai lettori russi, abituati alle continue menzogne del regime, verosimili e perfino probabili. Infine cercavano di cancellare il nostro slogan ‘Basta con la guerra!’ con l’appello ‘La guerra continua!’ Era tragicomico.”
Di eventi singolari come questo sono piene non solo le pagine della rivista, ma la stessa vita di Sparagna, che tra i tanti modi per appianare i debiti del giornale trovò plausibile—anzi logico—andare nel 1984 a prendere cento chili di hashish in Marocco per rivenderlo in Europa. Quando gli chiedo di questa sua folle azione sento ridere in sottofondo Maila che si avvicina per riascoltare la storia. Anche Vincenzo ride. “Bisogna mettersi nei panni di uno che non ha una lira, ma deve inventarsi dei milioni,” mi dice. “Il giornale aveva bisogno di soldi. E io, che sono una persona di umili origini, ho un sacco di amici cresciuti nei bassifondi sociali, dove ci si inventa di tutto per vivere. Insomma, un amico conosceva una ragazza che aveva sposato un marocchino, il cui fratello aveva una fattoria in Ketama. Quindi c’era ‘sta possibilità di farsi appoggiare [dare a credito] un quintale di hashish. Dovevamo ‘solo’ andarcelo a prendere.”
“Il mio compagno d’avventura, un ex autonomo che scriveva anche lui su Frigidaire,” continua, sempre ridendo, “era un esperto marinaio e pensò di utilizzare un grosso gommone che poteva più facilmente sfuggire alle eventuali navi militari di pattuglia. Inizialmente volevamo partire da Civitavecchia, ma ci rendemmo conto che ci avremmo impiegato mesi. Perciò, mentre un nostro complice andava in aereo in Marocco per mettersi d’accordo con gli amici marocchini, ci spostammo a Marbella in Spagna e, dopo complicati calcoli su quante taniche di nafta imbarcare, salpammo verso il mare aperto nel buio di una notte senza luna. Quando arrivammo in vista della costa africana spuntava l’alba, qualcuno rispose dalla spiaggia ai segnali della nostra torcia e un barchino si avvicinò per consegnarci un centinaio di panetti di fumo. Ma una volta caricata la merce ci accorgemmo che il consumo di nafta era stato maggiore del previsto e non potevamo più tornare in Spagna. Glielo facemmo capire, ma quelli del barchino per darci la nafta volevano soldi che non avevamo. Alla fine chiesero in cambio il nostro motore fuoribordo di riserva e fummo costretti a cederlo. Galleggiammo sotto il sole africano per tutto il giorno e la sera eravamo sulla via del ritorno. Ma, forse per esserci scolati nel frattempo una seconda bottiglia di Carlos Primero, un brandy spagnolo, sbagliammo strada e girammo a lungo in tondo nell’inchiostro nero della nostra seconda notte in mare. Un’orca volteggiava intorno al gommone—’Ma vai da un’altra parte a giocare, no?!’—e branchi di delfini sfrecciavano accanto e sotto di noi come siluri d’argento fluorescenti.” Mentre Vincenzo racconta, non è semplice separare tra reale, probabile e improbabilissimo. “Finalmente, all’alba, arrivammo in vista di Marbella. Sulla punta del molo c’era ‘di vedetta’…il tenente Kojak! Ovvero l’attore Telly Savalas in persona, probabilmente in vacanza. Ci parve un cattivo segno e cercammo un’altra spiaggia per sbarcare e cominciare il complicato e lungo cammino spagnolo per rivendere la roba e tornare infine in Italia.”
Narrato oggi è uno degli aneddoti simpatici della storia di Frigidaire, ma ci sono stati anche momenti amarissimi. “La morte di Tamburini nell’aprile del 1986 fu un colpo terribile,” mi dice Vincenzo, con il volto serio. “In primo luogo perché pensavamo che Tamburini si stesse riprendendo dalla dipendenza dall’eroina, mentre era il contrario.” Vincenzo si ferma un attimo, fa un lungo sospiro e continua dicendo che comunque dopo quella morte il gruppo fu più unito di prima, seppure nel pieno della crisi determinata dal taglio dei rimborsi editoriali cui la rivista aveva diritto. “Prevalse la nostra volontà di resistere. Poi nel giugno 1988 arrivò la notizia della morte per overdose anche di Pazienza. Quello è stato per noi il momento più buio, carico di dolore e disperazione. La rivista era ancora viva e piena di fumetti e storie, ma senza più l’allegria dei primi anni, sembrava come intrisa di sentimenti luttuosi.”
“Non avete mai pensato di mollare?” gli chiedo. “Mah, di mollare, no. C’era da difendere la continuità del nostro progetto, anche se certe tragedie non erano certo state messe in conto. Tamburini e Pazienza avevano dieci anni meno di me e di Scozzari, capisci? Erano morti i due più giovani e fu molto duro andare avanti. Fortunatamente nel ’90 c’è stato un rilancio psicologico, con Il Lunedì della Repubblica, un giornale falso/vero di 24 o 32 pagine che anticipava con i suoi finti reportage, cose che sarebbero poi successe davvero: il processo Andreotti, le trame di Licio Gelli, la crisi della prima Repubblica, l’esilio di Craxi ad Hammamet ecc. Perché con la satira libera puoi guardare la realtà com’è, senza i veli delle prove, per approssimazione e intuito. Un po’ come Craxi quando diceva: ‘Vorrei sapere… anche se lo so già.’ Cioè tutti sapevano cose che era impossibile dire apertamente, ma noi operavamo dietro la maschera della satira e potevamo gridare la verità su ogni cosa. La Repubblica—che all’epoca non usciva di lunedì—ci fece causa. La vincemmo, ma alla fine fummo costretti a vendere la testata, che nessuno voleva più distribuire, proprio alla Repubblica, che da allora in poi uscì anche di lunedì.”
Guardo fuori dalla finestra e osservo Giano, il borgo medievale sottostante, lontano in linea d’aria appena un centinaio di metri. In giardino ci sono dei pini, un caco, ciliegi, tigli, querce e un pollaio, oltre alle altalene, ai giochi per i bambini e al già citato teatro. Chiedo come siano arrivati a creare questa surreale Repubblica dell’arte, più simile a un parco giochi che a un museo.
“Come tutte le invenzioni, Frigolandia è nata un po’ per caso e un po’ per necessità—ma molto per caso. Dopo la vendita nel 2003 della mia casa di Roma coperta di ipoteche, avevamo una sede piccolissima ed eravamo fermi. Un amico mi disse che forse c’era la possibilità di proporre un progetto alla Regione Umbria e io, pensando a Pazienza e agli altri, inventai l’idea del MAM, Museo dell’Arte Maivista,” racconta Vincenzo. “Il progetto, sostenuto anche da un testo dell’amico professor Bonito Oliva, prevedeva che la Regione ristrutturasse un castello del dodicesimo secolo, oggi deposito di olive, nel vicino paese di Castel Ritaldi, per istallarci il MAM. Ma poi non se ne fece nulla. A quel punto mi dissero di una ex colonia di balilla ormai abbandonata da anni e che nessuno voleva. Ci è piaciuta e l’abbiamo affittata per 40 anni a nome di Frigolandia, la società creata per il museo nel castello. Per sistemare gli edifici, ridipingerli e arredarli sono venuti negli anni centinaia di volontari, artisti, operai, compagni di ogni regione d’Italia, ma tuttora ci sono problemi con l’amministrazione comunale, ostile sin dal 2007, quando ospitammo una conferenza stampa di Oreste Scalzone [condannato in contumacia per attività sovversiva negli anni di piombo e rientrato in Italia nel 2007] di ritorno dalla Francia. Hanno persino avviato una ingiusta causa di sfratto che poi hanno perso pagando le spese. E non è finita. Invece di ringraziarci per le molte migliaia di persone venute a Giano in visita al nostro museo, continua l’ostilità dei politici locali di destra o di sinistra, impegnati in oscuri progetti speculativi che prevedono tutti la nostra scomparsa.”
È quasi ora di pranzo e Vincenzo chiede a me e al fotografo se vogliamo mangiare insieme. Accettiamo e lo seguo nella grande cucina, dove c’è un lungo tavolo di legno massiccio ispirato alle nozze contadine di Brueghel. Mentre gira con il mestolo il sugo, Vincenzo mi racconta di sua figlia, che in passato ha lavorato con Martin Scorsese e Ridley Scott e adesso vive in Nuova Zelanda, dei suoi due nipoti e delle bellezze di quelle terre lontane. Gli chiedo se non gli sembra che le nuove generazioni siano meno coraggiose della sua. Dice che è sempre molto arduo—e improprio—generalizzare. “Ogni generazione è fatta di tanti segmenti sociali diversi. D’altra parte sulla maggioranza delle generazioni più giovani è passato l’aratro profondo della devastazione culturale e ideale degli ultimi venti anni. Lo si vede bene dall’idea bizzarra di molti: aspettare il proprio personale talent-scout. Se pensi di avere grandi qualità, mettile in atto! Non aspettare che qualcuno ti scopra—è il modo migliore per restare paralizzati. Ci sono delle eccezioni ovviamente e noi ne abbiamo molti esempi: giovani scrittori, vignettisti, illustratori che collaborano con noi per il gusto di comunicare e realizzare i loro sogni.”
Dopo che sono diventato ufficialmente un cittadino di Frigolandia—con tanto di passaporto—finiamo la pasta e beviamo un caffè con le paste parlando di Dio, di galline, di case occupate, del sistema pensionistico italiano, di guerre e d’ambiente. Quando risalgo in macchina per ripartire c’è il sole e fa meno freddo. Presto Frigolandia è alle mie spalle. Mentre il ricordo del sorriso nascosto dai baffi con cui Vincenzo mi ha salutato mi mette di buon umore, qualcosa mi dice che non vedrò mai più questo posto.
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