Se ci nasci, non puoi davvero fuggire dalla provincia italiana

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La provincia italiana è un luogo dell’anima. Che tu te ne sia andato o che tu sia rimasto; che tu conduca una vita totalmente aliena rispetto al posto da cui provieni o che tu abbia ereditato l’attività commerciale dei tuoi; che ogni occasione sul sito di Italo sia buona per tornare o che tu non ci metta piede da anni; che tu la disprezzi con ogni ione del corpo, o che tu la consideri l’unica dimensione adatta a te. Rimane comunque lì, anche se non ci pensi quasi mai.

E questo non tanto perché un po’ di provincialismo c’è ovunque, anche nelle grandi città, quanto perché la provincia, più che un vero e proprio ambito fisico e sociale, è soprattutto un paradigma attraverso cui interagire con la realtà. Un’esagerazione delle percezioni e dell’identificazione di cui è difficile liberarsi, sia per chi rimane che per chi se ne va.

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Spesso, se in provincia non ci sei nato, queste cose non le capisci nemmeno. Se sei di Roma o Milano o Bologna o Napoli questa dimensione di significato nell’insignificanza non la vedrai mai: è tutto troppo circoscritto e senza sbocchi per interessarti.

La principale esagerazione è quella della tua postazione nella nomenklatura sociale. Se sei ricco in provincia, ad esempio, hai un senso più esteso del tuo privilegio. Ti sembra che i leccaculo o le persone invidiose siano ovunque—anche se non ostenti per niente—perché tutti sanno chi sei, o comunque sanno chi sono i tuoi genitori, i tuoi nonni e via dicendo. Ci sei talmente abituato, che quando magari vai in una città più grande, dove nessuno ti conosce, ci rimani quasi male ad aver perso quella patina da satrapo.

Lo stesso vale al contrario. Se sei povero, in provincia sei circondato da una bolla di povertà e anonimato che a volte sembra quasi insondabile. Soprattutto in un certo tipo di provincia, non hai la prospettiva di prendere la metro e in 20 minuti essere nel centro di Milano, come non hai nessun tipo di narrazione sui ragazzi delle periferie che magari diventano rapper. Non sei nella Barona, e non sei il pischello di Torre Maura, se capite quello che voglio dire. Sei in mezzo al niente—che sia la campagna incontaminata, un piccolo borgo medievale o i casermoni di cemento armato a pochi passi da una rotonda—e perfino attorno al disagio non c’è nessuna aura da documentario-verità su La7, ma vuoto pneumatico e anedonia.

Che tu sia ricco, povero o nel mezzo, insomma, nella provincia hai una scala di confronto sociale continuo. Ed è una cosa che ti porti dietro anche se te ne vai: se cambi città, lavoro, fidanzato, se silenzi le notifiche dei gruppi Whatsapp in cui i vecchi amici continuano ad aggiungerti. Magari sono passati anni, ma ogni tanto ti viene da chiederti cosa pensano o penseranno di te i provinciali che ti sei lasciato alle spalle. Sanno che sei cambiato un botto? Che fai quel lavoro figo? Che ora stai con un/a nuovo/a? E quando torni e li incontri (perché è sicuro che succederà) come sarà? Come ti sentirai?

Agli altri dici che ormai sei lontano anni luce, ma la premura o la stizza con cui lo affermi testimoniano che in parte non è così. E magari invidi quelli nati in città, che non hanno luoghi così pressanti da cui distaccarsi, o almeno così pensi, perché non sembrano avere mai nostalgia di niente e pensano solo a cosa fanno o faranno. A te invece capita di avere nostalgia di quella dimensione sociale, anche se un po’ te ne vergogni, anche se quando alla fine torni ti annoi, ti sembra tutto insulso, e stai pure peggio. Magari non è un pensiero così ricorrente, ok, ma ce l’hai. Perché questa storia che la provincia è una sorta di vescica piena di liquido amniotico in cui le cose non cambiano mai è allo stesso tempo asfissiante e rassicurante.

E lo sai benissimo anche se in provincia ci sei rimasto e ci rimarrai. A volte sei così saturo degli stessi meccanismi—degli stessi locali, degli stessi amici, delle stesse strade—che una vacanza ti sembra un cambiamento radicale, ma al tempo stesso sei comunque cullato, anche inconsapevolmente, dalle narrazioni che la tua provincia ha di sé. Tutte le province ne hanno una. Quell’autocelebrazione ingiustificata testimoniata dal prolificare di gruppi Facebook tipo “SEI DI VITERBO SE…”, da video-parodia o dalle leggende sui personaggi locali. Magari quando li vedi ti salgono i brividi di vergogna lungo la schiena, ti sembra tutto così piccolo e insignificante e stupido, ma se lo dici diventi un rompicazzo.

Tutti questi aspetti hanno dei gradienti di concentrazione, che dipendono dalla tipologia di provincia da cui provieni. Per come la vedo, ne esistono almeno tre: provincia profonda, provincia standard e provincia inconsapevole.

La provincia profonda è rappresentata dai comuni e i paesotti che non contano niente, e tutti gli abitanti superata una certa età sanno benissimo quanto siano nati in mezzo al nulla. Non è che la mancanza di cambiamento sia una questione di sfumature: non cambia mai davvero niente. Spesso neanche i bar e i ristoranti. Poi quella standard: le piccole città vere e proprie che fanno provincia. Sono agglomerati che mantengono tutta l’immobilità della provincia profonda, ma la mascherano meglio. Qualcosina cambia, qualcosa si sposta, magari ti capita di non vedere una determinata persona ricorrente per qualche tempo perché la città è abbastanza grande da permetterlo. Infine c’è la provincia inconsapevole: città piccole, ma talmente vicine a quelle grandi da pensare di esserne un po’ assorbite. Tipo Pavia o Monza con Milano.

Più vai a ritroso da provincia inconsapevole a provincia profonda, più le dinamiche di cui sopra si intensificano: più immobilismo, più senso di identificazione, più dinamiche sociali da vassallaggio.

Insomma, la provincia italiana è un po’ come l’agente Smith di Matrix: ti condiziona i pensieri, le aspirazioni, e le percezioni delle distanze sociali. La condanna perenne è che spesso questi condizionamenti ti sembrano più significativi di tutto quello che trovi fuori. Non solo perché ci sei cresciuto in mezzo, ma perché quel contatto intenso con le altre persone a cui la provincia ti educa spesso ti fa apparire la vita sociale metropolitana come un romanzo di Bret Easton Ellis: gente superficiale, che fa cose superficiali, e con priorità senza alcun valore. La dimensione provinciale, l’impossibilità di nascondere a lungo chi sei, è sia rassicurante che lenitivo, a volte.

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