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Il film live-action di ‘Fullmetal Alchemist’ è una pessima idea

Ogni volta che salta fuori la notizia di un adattamento live-action di un anime o manga celeberrimo, provo inevitabilmente sentimenti contrastanti: da un lato un sincero entusiasmo, dall’altro il più oscuro dei terrori.

Questo perché, nella maggior parte dei casi, la complessa scienza degli adattamenti anime/live-action si trasforma in un tragico scempio culturale, che trova parte della sua origine nel fatto che gli anime sono un prodotto di nicchia (nel mondo occidentale) mentre il cinema è il medium più affermato. Questo fatto, di per sé in un certo senso oggettivo, finisce per giustificare l’idea presuntuosa (e disastrosa) che un live-action sia la forma ultima che un prodotto anime deve assumere per essere veramente apprezzabile.

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Ovviamente fare un film su un anime non è impossibile a priori. Esistono esempi di successo comeYattaman e Crows Zero di Takeshi Miike, per dirne un paio; ma si tratta di opere sperimentali e particolari—Il più delle volte, invece, il passaggio ha uno scopo commerciale, che si limita a prendere gli elementi di una serie di successo e a infilarli su un set.

Il tema principale della serie di Fullmetal Alchemist è il cosiddetto “principio dello scambio equivalente”.

La questione si preannuncia particolarmente lampante nel caso di Fullmetal Alchemist, perché il modo in cui questo anime parla dell’identità umana legando il discorso alla dicotomia anima/corpo e alla redenzione può funzionare solo in un mondo fittizio, lontano dal nostro. Con l’inizio delle riprese della trasposizione live-action del manga di Hiromu Arakawa si è presentata l’occasione perfetta per riparlarne.

Si mormorava da tempo di una versione cinematografica in senso canonico dell’opera, che ha venduto la bellezza di 64 milioni di volumi in giro per il mondo e ha poi portato alla creazione di due serie e un film d’animazione a partire dai primi anni del 2000. Da poco tempo, la notizia è stata ufficializzata: le riprese sono infatti iniziate questa settimana a Volterra, in Italia, e continueranno fino ad agosto 2016.

Il tema principale della serie di Fullmetal Alchemist—che è ambientata in un universo distopico steampunk dove la rivoluzione industriale non ha portato alla scienza materialista e tecnologica che conosciamo, ma a una alchemica e mistica—è il cosiddetto “principio dello scambio equivalente“. Nulla si crea e nulla si distrugge secondo le leggi dell’alchimia e con la giusta arte è possibile ottenere qualsiasi sostanza desiderata “sacrificandone” una di valore equipollente.

Il principio dello scambio equivalente apre e chiude l’intera opera in senso circolare.

La storia di Fullmetal Alchemist prende il via proprio da una trasmutazione alchemica, con cui i due protagonisti—i fratelli Edward e Alphonse Elric—tentano (invano) di resuscitare la madre scomparsa, solo per ritrovarsi gravemente mutilati e costretti a girare per il mondo in cerca della leggendaria pietra filosofale, l’unico oggetto in grado di ripristinare una situazione senza richiedere altri sacrifici.

Tralasciando per un attimo le tematiche più facilmente individuabili nella serie—che spaziano dalla critica alla guerra, al valore dell’amicizia—alcune di quelle più profonde e cupe—come il concetto di anima, di identità, di colpa, ossessione e redenzione—sono, a mio avviso, la parte veramente interessante da analizzare, soprattutto se considerate relativamente alla sua ambientazione falso storica e al fatto che parliamo di un anime.

L’idea di un adattamento live-action di Fullmetal Alchemist rischia di essere un compromesso a perdere perché è praticamente impossibile mantenere il valore allegorico di un mondo completamente inventato nel momento in cui lo rendiamo con elementi del reale.

In altre parole, davanti a questa versione, rischiamo di non credere più a quello che la serie ha da dirci.

Uno dei temi principali di Fullmetal Alchemist riguarda l’identità, il cosa rende umana una persona. Ho parlato di come affronta questa domanda Ghost in the Shell (anime molto diverso sia per ambientazione che per approccio filosofico). Quest’ultimo pone l’accento sulla coscienza o, meglio, sulla coscienza umana del sé. Fullmetal Alchemist è ambientato in un mondo steampunk che riprende tutta una serie di aspetti caratteristici dell’Europa della rivoluzione industriale, e per questo utilizza un linguaggio adatto a quel (non)tempo storico; a definire l’uomo è dunque un concetto più romantico e astratto, ovvero l’anima, quella sostanza eterea e inafferrabile che è ospite del nostro corpo, ma che può non svanire del tutto con esso.

Mi riferisco all’anima del co-protagonista, Al—che il fratello Edward lega ad un’armatura per non perdere per sempre—e alle anime di altre persone che diversi personaggi cercano di infondere in pupazzi di carne trasmutati senza successo. Come Ghost in the Shell mette a confronto macchine e uomini, Fullmetal Alchemist ragiona similmente sulla differenza tra uomini e simulacri, ma lo fa in modo nettamente più classico che post-umano; l’ossessione dei fratelli Elric (e di molti altri personaggi) per la trasmutazione umana rimanda a quel mito del Prometeo moderno che è tra i capi saldi della nostra letteratura—Frankenstein—e al dramma morale che qualsiasi interazione con gli elementi fondanti della natura porta inevitabilmente con sé. Ogni volta che l’uomo prova a manomettere, svelare, appropriarsi dei segreti della vita, lo fa a caro prezzo, insegna la serie, ragionando sull’equilibrio delicato tra conoscenza e violazione.

Final Fantasy: The Spirits Within.

L’alchimista non è altro che una metafora della parte di umanità che sacrifichiamo nel peccare di superbia: quando Edward recupera l’anima di Al, il prezzo da pagare è una delle sue braccia—perché nel gioco dei pesi e contrappesi alchemici deve offrire un pezzo di sé per averne un altro indietro.

Questo discorso si presenta a livelli più o meno sottili nel corso della serie, che dispiega davanti al suo pubblico un carnevale di personaggi privati della propria umanità, vuoi nel senso fisico del termine (Alphonse per primo, quando cerca di trasmutare la madre) o spirituale (come il padre di Nina—uno dei primi personaggi con cui i fratelli fanno amicizia—, che sacrifica prima la moglie e poi la figlia per la propria ossessione per la creazione di una chimera parlante). La differenza tra i primi e i secondi è ovviamente legata a un giudizio morale, per cui le mutilazioni dei protagonisti sono il simbolo di un peccato diverso da quello commesso da chi dà in pegno l’amore in cambio della realizzazione illusoria di uno sterile interesse personale.

C’è dunque un discorso di sacralità perduta e di redenzione in Fullmetal Alchemist, una redenzione che passa dal sacrificio materiale; il cambiamento fisico è frutto di una frammentazione e di una conseguente contaminazione: Edward fa delle proprie mutilazioni (e di quelle del fratello) uno degli scopi della propria ricerca, ma, allo stesso tempo, anche la propria arma (Il soprannome del protagonista è alchimista d’acciaio, perché Edward mette le proprie protesi meccaniche al servizio della scienza che pratica, potenziandone gli effetti) e la propria nuova, sofferta, identità—specchio costante della dissacrazione che lo ha mutato.

Fullmetal Alchemist prende in prestito elementi della storia occidentale, ma lo fa senza alcuna pretesa di veridicità.

Ma se il discorso costruito da Ghost in the Shell precorre e resta in grado di informare la realtà che viviamo oggi, i concetti sintetizzati da Fullmetal Alchemist, per quanto affascinanti, sono anche, in qualche modo, vecchi. Il mito del Prometeo moderno, dell’uomo che si scontra con le forze elementari della natura, che deve scontare la colpa dell’aver cercato di dominare i segreti della vita, ha già affrontato la propria crisi nella nostra cultura, e più che di allegorie morali sul rapporto con il creato, oggi sentiamo la necessità di riscrivere interamente il nostro ruolo rispetto alla sacralità dell’esistenza. L’idea di riporre l’anima—qualsiasi significato si voglia attribuire a questo termine—in un corpo meccanico non è più un castigo per noi, ma un traguardo.

Perché, allora, Fullmetal Alchemist funziona così bene, se i concetti che tratta non rappresentano niente di nuovo (anzi)? Perché sono incasellati in un mondo che somiglia al nostro ma che è distante, simbolico e fantastico abbastanza da permettergli di essere ancora valido, così che il suo pubblico possa farsi coinvolgere senza troppi pensieri.

Fullmetal Alchemist, come molti altri anime e manga—pensate a I Cavalieri dello Zodiaco o a Lady Oscar, e persino a diverse opere di Miyazaki—prende in prestito elementi della storia occidentale, ma lo fa senza alcuna pretesa di veridicità. Nessuna di queste opere è un ritratto fedele di un’epoca, ma, piuttosto, una rielaborazione dei suoi elementi atta a creare un mondo che riconosciamo, ma che lasciamo che ci racconti una nuova storia.

Una delle forze principali dell’animazione è proprio il fatto che permette di mettere in scena mondi irreali(stici) senza chiedere allo spettatore lo stesso esercizio di sospensione dell’incredulità che chiedono i film fantastici: sappiamo di partenza di stare guardando qualcosa di “finto” perché sono disegni e possiamo immergerci nel loro racconto accettandone il codice interamente a priori (messa a preventivo una buona sceneggiatura, ovviamente); non ci sono attori uguali a noi a ricordarci che è tutto recitato.

Stiamo guardando un cartone animato, dove è assolutamente normale che i personaggi sparino fulmini dalle mani o abbiano pettinature che sfidano la gravità. Non c’è gesto, azione o sentimento di Edward Elric che possa allontanarci dal credere alla storia che stiamo ascoltando e guardando, e questo consente all’opera (e al mezzo degli anime in generale) di stimolare una riflessione meno vincolata al “credibile” quotidiano o, almeno, all’idea di credibile che invece pretendiamo dal cinema occidentale. Questi espedienti registici usati dagli anime contribuiscono alla narrazione stessa—cosa succede a quest’ultima, quando li inseriamo in un contesto che li legge come estranei o li elimina del tutto?

Volendo scomodare uno dei padri delle teorie della comunicazione, il contenuto di un’opera è legato a doppio filo con il mezzo che la ospita, che diventa parte integrante del messaggio consegnato al pubblico. Per quanto con le sue teorie McLuhan facesse riferimento ai macro mezzi di comunicazione (televisione, cinema, radio, letteratura) e al modo in cui ognuno di essi influenza la costruzione e la resa di un determinato contenuto, nulla ci vieta di provare ad adattarli a sotto-categorie: un film in animazione è diverso da uno con attori in carne e ossa e i compromessi che dovranno essere fatti nella traslitterazione da uno all’altro, rischiano di far crollare l’illusione benefica di un mondo di fantasia che funziona meravigliosamente così com’è, proprio perché è così com’è.

Nel caso di Fullmetal Alchemist l’appropriazione non è culturale ma tra media diversi; è il cinema che fagocita un anime.

Perché dobbiamo per forza insistere con queste trasmutazioni tanto dolorose?

Ci sono, ovviamente, banali ragioni economiche dietro la scelta di adattare una serie animata di successo in un lungometraggio canonico: un prodotto che ha venduto può e deve vendere ancora, aprendosi possibilmente anche a un pubblico che non ha consumato le sue prime versioni. Questa ragione economica è però legata anche a un pregiudizio di formato: troppo spesso nel tradurre anime in live-action c’è un discorso implicito sullo status di un prodotto; un certo anime è finalmente “degno” di una resa falsamente “universale” (quella in live-action) quando la sua fama lo rende oggetto di malinconia e quindi facile prodotto commerciale. Ci è piaciuto un cartone, ci manca, andremo a vederne il film, per quanto possa rivelarsi un disastro.

Il caso di Fullmetal Alchemist—che è girato da un regista giapponese e avrà un cast interamente giapponese—è diverso da quello di Ghost in the Shell, il cui imminente lungometraggio è esempio di quella ossessione che il cinema americano ha per “tradurre” in un formato adatto al pubblico americano un contenuto che deve il suo valore proprio al fatto di non essere americano. Ghost in the Shell—come anche Oldboy, Lasciami Entrare, e via dicendo—funziona perché è frutto di una certa cultura, stile cinematografico, riflessione storica, che non c’entra possibilmente granché con quella americana.

Nel caso di Fullmetal Alchemist, l’appropriazione non è culturale (il film è giapponese, come l’anime e il manga), ma tra media diversi, è il cinema che fagocita un anime, come se, prima o poi, ogni anime che si rispetti dovessi avere anche una versione cinematografica: un coronamento di carriera.

Ma se la storia dalla morale ormai superata dei fratelli Elric funziona proprio perché è un anime distopico, un prodotto dove può succedere praticamente di tutto prima che il pubblico dica “no, a questo non ci credo,” questo film rischia di essere una chimera di se stesso, un simulacro che tenta di tenere intrappolati gli elementi fondamentali dell’opera, senza capire che è il suo corpo originale a darle il maggior valore.

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