Attualità

Funeralopolis cambierà per sempre il modo in cui vedi Milano

1494407721609-FUNERALOPOLIS_2

Molte città si portano dietro un’associazione a metà tra realistico e mitologico con una droga d’elezione, che se si coglie dalle politiche di intervento sociale (mettiamo i distributori di siringhe? affiggiamo le pubblicità progresso nella metro?) è ancor più chiara dalla letteratura, dal cinema e dall’ambiente culturale che producono: e così in Le mille luci di New York e nell’Ellis del Brat Pack ci sono la cocaina e la Belvedere on the rocks; nella Edimburgo ante-pulizia di Trainspotting e nella Roma di Caligari l’eroina.

Milano invece è una città understated, dove di droga si parla poco; soprattutto ultimamente, quando è diventata prassi parlare del capoluogo lombardo nei termini di esaltazione per l’urbanistica e le iniziative culturali, o proponendolo come centro finanziario. Tutte cose positive, certo, ma che gettano ancora più ombra sulle situazioni diverse, o marginali, rispetto alla narrativa dominante.

Videos by VICE

Ed è proprio per questo che ho trovato interessante Funeralopolis. Il film, che è un lungometraggio documentaristico girato nel corso di un anno e mezzo tra il 2015 e il 2016 dal giovane regista Alessandro Redaelli e prodotto da K48, segue la quotidianità di due amici e la loro storia di dipendenza dall’eroina. Vash, Felce e il loro giro di conoscenti si muovono tra Bresso, il comune dell’hinterland milanese dove vivono, e alcuni luoghi simbolo di Milano—i locali dove vanno a tenere concerti di horrorcore rap o vendere ketamina, la piazza di spaccio di Rogoredo, il Cimitero Monumentale in cui fanno irruzione di notte—e lo spettatore che si muove con loro vede una città di cui riconosce i luoghi, che però appaiono come risemantizzati, svuotati del senso abituale e riempiti di uno nuovo.

Il film è in alcune sale (trovi tutte le proiezioni qui e in fondo al post). Ho contattato Alessandro Redaelli per parlare di Milano, eroina e stereotipi.

VICE: Ciao Alessandro, quando ti è venuta l’idea di fare Funeralopolis?
Alessandro Redaelli: Volevo fare un lungometraggio, e mi dicevo: sono povero e non ho nessuno che mi possa appoggiare, cosa faccio? Un documentario d’osservazione era l’unica opzione. In quel periodo Felce mi aveva chiesto di girare un videoclip per lui, mentre Vash—che conoscevo da quando avevamo 14-15 anni—tornava da Roma dopo sei-sette anni che non ci vedevamo. L’ho ritrovato un po’ così, pazzerello, e abbiamo cominciato a sentirci di frequente perché lui mi mandava i suoi pezzi nuovi per trovare quello giusto per girare un videoclip. Lui e Felce sono tra i pochissimi che fanno horrorcore a Milano.

Un giorno Vash mi ha chiesto di andare a riprendere un loro concerto, solo che in quel periodo io ero preso bene con Wiseman e il cinema dell’osservazione, Pietro Marcello, Rosi. Quindi ho rilanciato: “Facciamo una cosa diversa, invece, vi seguo per non so quanto. Esco con voi, appena ho un momento libero vi raggiungo con la telecamera e giriamo.” Non sapevo cosa sarebbe uscito.

E alla fine è uscito un film.
Dopo circa sei mesi avevo accumulato decine e decine di ore di riprese, una cosa spropositata, e ne ho fatto un montaggio di cinque-sei ore… Potevo pure farci una serie, ma il cinema ha un altro tipo di forza. A questo punto sono entrati in squadra lo sceneggiatore Ruggero Melis e il producer Daniele Fagone, amici e compagni alle Civiche con cui condivido la passione per una certa estetica. Abbiamo continuato a girare e montare contemporaneamente, e alla fine abbiamo montato, montato, montato per più di un anno. Ovviamente però non avevamo soldi per color correction, audio mix, grafiche, promozione etc: ed è stato allora che siamo andati a bussare alla porta della [casa di produzione milanese] K48, dove hanno creduto nel documentario.

Prima dell’intervista mi dicevi che Funeralopolis non vuole essere solo un film sull’eroina.
Sì, non è nato come un film sull’eroina, lo è diventato con il tempo e con i percorsi di vita che hanno scelto loro—i protagonisti hanno cominciato a fare uso di eroina praticamente quando abbiamo cominciato a girare. Secondo me Funeralopolis è soprattutto un film su due amici nella periferia milanese che fanno un viaggio insieme e poi prendono strade differenti. Finché stanno insieme si compensano e si tengono un po’ a bada a vicenda, ma quando si allontanano perdono l’equilibrio, esagerano. Certo, l’eroina gioca un ruolo importante, ma volevo semplicemente buttare lo spettatore in mezzo a quella realtà.

Ecco, a questo proposito: molto spesso ai documentari che parlano di situazioni complesse o marginali si cerca di trovare lo scopo sociale, politico. Tu hai mai pensato che il tuo documentario possa avere una funzione sociale?
Secondo me il cinema e gli altri media che veicolano racconti hanno sempre uno scopo sociale; la differenza tra le cose belle e le cose brutte è che quelle brutte lo dichiarano spudoratamente. Quindi io non prendo una posizione, non mi interessa mettere un cartello e dire che l’eroina fa male, perché se uno pensa che l’eroina fa male lo pensa già da prima, indipendentemente dal documentario. Se ti dico già cosa pensare, non ha più senso fare un film.

Senza rifarsi per forza allo stereotipo dell’eroinomane inaffidabile, volevo capire un po’ come è stato praticamente fare un documentario su persone che immagino non “collaborative” come ci si aspetta da un attore.
Diciamo che mi sono un po’ parato dalla frustrazione grazie all’organizzazione che avevamo stabilito. Quando ero a casa con una giornata libera li chiamavo, “Dove siete?”, li raggiungevo e stavo fino a fine giornata. Loro sono sempre stati molto collaborativi, non so perché…

Eh appunto, perché?
Perché gli piace il progetto, penso. Sono molto più intelligenti e autoironici di quanto molti penserebbero, e in un certo senso anche loro volevano raccontarsi. L’autoironia è fondamentale, e anche in sede di montaggio abbiamo cercato di tirarla fuori il più possibile. Poi, se il documentario fosse uscito come volevano loro due sarebbe probabilmente venuto diverso, molto più caricato—ma quando gli ho mandato il risultato sono stati molto contenti. Vash mi ha detto che si era emozionato perché aveva visto cose che nemmeno si ricordava: in un periodo come quello è spesso difficile ricollegare.

Diverso sicuramente è stato per gli altri personaggi, che erano più inconsapevoli della mia presenza. Per esempio c’è una scena molto bella in cui Vash e io eravamo a casa, Vash apre la porta e c’è uno dei due [alla porta] che continua a fissare la telecamera, diffidente, perché non sapeva che ci sarei stato. Ma sai cosa? La cosa più divertente è che nessuno mi ha mai detto nulla, io spiegavo loro cosa stavo facendo e questo era quanto.

È una delle contraddizioni, immagino, di fare un documentario d’osservazione: tu dici “fai come se non ci fossi,” ma poi la verità è che ci sei.
Sul come fare ho dovuto ragionarci un po’. Uno come Wiseman girava da lontano, con i teleobiettivi, molto spesso senza farsi vedere… però lo sappiamo: una camera, anche lontana, influisce sulla realtà. Quindi ho pensato va be’, io mi piazzo in mezzo a loro con il 17 mm addosso e li faccio abituare pian piano. Infatti nelle prime scene che abbiamo girato erano un po’ “attori”, caricavano il loro modo di fare. Col tempo invece—considera che in tutto abbiamo girato un anno e mezzo—hanno iniziato a non farci più caso. So che la macchina da presa influisce sulla realtà, ma spero di aver tradotto la realtà più vicina possibile al reale.

Prima dicevamo che questo è anche un documentario sulla vita di provincia, allora mi chiedevo: in che modo essere nati a Bresso, nell’hinterland milanese, influenza i personaggi—se li influenza?
A parte Vash e Felce, tutti gli altri personaggi vivono a Milano, e grosse differenze tra loro non ci sono: perché loro vivono la città in modo diverso rispetto a noi. Cioè, non gli interessa dove stanno, gli interessa fare determinate robe indipendentemente dal luogo. Se vuoi, un “giudizio” sulla città lo esprime in qualche modo Vash nel suo pezzo “Funeralopolis”, da cui ho preso anche il titolo del film perché il contenuto della canzone e quello del film un po’ si rimandavano.

C’è una scena che avresti voluto inserire, ma che hai dovuto lasciar fuori per esigenze narrative?
Mi viene in mente una bella scena che avevamo inserito prima del finale, girata intorno a Natale con Vash e Felce che giravano per una Bresso notturna ma piena di luci natalizie, insieme a un loro amico che, per non so che motivo e nonostante il freddo, era in accappatoio. Si confrontavano sui loro problemi con la giustizia e raccontavano, con un po’ di malinconia, del loro passato tra la scoperta delle droghe e i primi freestyle con gli amici. Purtroppo spezzava il ritmo… Sicuramente però se arriverà in home video sarà tra gli extra!

Una scena che descrive anche bene i due personaggi e il rapporto che c’è tra loro…
Sì, Felce è più filosofico, ed è laureato in architettura; Vash ha finito di studiare alle medie e ha deciso che la cultura l’avrebbe trovata in altri luoghi.

Perché hai girato in bianco e nero?
In quel periodo mi aveva colpito molto un video di presentazione del libro di Roger Ballen Outland girato da Ben Jay Crossman. A lui riconduco anche il bianco e nero, che però mi è servito anche a uniformare concettualmente i vari momenti del film. Volevo che la scena in cui Vash vomita nel cestino avesse la stessa valenza di lui che si bacia con la fidanzata, e col bianco e nero hai meno elementi di contorno che ti permettono di creare una scala gerarchica.

Nel documentario hai cercato di essere il più invisibile possibile, quindi penso che dovremmo darti un “volto”. Quando hai cominciato a interessarti al cinema?
Ho cominciato a fare video quando avevo nove-dieci anni, con quelle fotocamere che registravano al massimo 20 secondi; poi ho fatto il professionale di Cinema a Quarto Oggiaro e il corso di Multimedia alle Civiche a Milano—a 15 anni ho fatto il mio primo lungo, molto brutto [ride], sull’apocalisse zombie. Il primo film su cui mi sembra di aver fatto un lavoro più “adulto” è stato invece Tortoise, che si avvicina già un po’ a Funeralopolis perché racconta la giornata di un ragazzo di periferia tra noia e poco altro.

Dopo aver vissuto così tanto tempo fianco a fianco, come sono oggi i tuoi rapporti con Vash e Felce?
Li sento una volta al mese, per sapere come stanno e assicurarmi che siano vivi. Scherzo. Però mi sa che ci incontriamo proprio dopo questa intervista, perché vogliono sapere cosa mi hai chiesto.

Le prossime proiezioni di Funeralopolis saranno: al Cinema Beltrade a Milano, mercoledì 8 maggio 2019.

Rimani aggiornato sulle proiezioni sulla pagina Facebook ufficiale di Funeralopolis.

Segui Elena su Instagram.