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Pat Crowther. Immagine estratta dalla guida alla Mammoth Cave del National Park Service, via Internet Archive.
Tecnologia

La programmatrice che si è calata in una caverna colossale, cambiando la storia della speleologia e dei videogiochi

La grotta più grande al mondo si trova in Kentucky e il primo videogioco di avventura si intitola 'Colossal Cave Adventure'. Una persona li accomuna: Pat Crowther.

Questo è un estratto dal libro Connessione — Storia femminile di Internet.

La grotta più lunga al mondo si trova nel Kentucky centrale. I suoi passaggi in pietra calcarea si estendono sottoterra per seicentocinquanta chilometri di percorsi tortuosi e intricati quanto le radici delle antiche foreste di noce americano che li sovrastano. Sotto, gli speleologi si aggirano in abissi senza fondo, passano accanto ad affioramenti di pietra arancione e scoprono profondi fiumi sotterranei ghiacciati. Tra il mondo illuminato dalla luce del sole e le profondità sotterranee, una nebbia bianca aleggia ad altezza delle caviglie, come alito di fantasmi.

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Le prime persone ad aver mappato la Mammoth Cave furono schiavi impiegati come guide nelle escursioni turistiche. Fu una di queste prime guide, Stephen Bishop, a dare il nome ad alcune parti della grotta – il fiume Styx, la stanza delle palle di neve, il viale dei pipistrelli – e a scoprire il pesce bianco senza occhi che nuotava nelle sue acque profonde. Quando Bishop fu venduto, insieme al sistema di grotte, a un medico di Louisville, gli fu ordinato di disegnare una mappa a memoria. Come sono spesso le mappe di grotte, il disegno sembrava un “piatto di spaghetti gettato a terra” ma presentava i sedici chilometri di passaggi che Bishop aveva scoperto e rimase la mappa più completa della Mammoth Cave per più di cinquant’anni.

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La mappa della Mammoth Cave disegnata da Stephen Bishop. Immagine tratta dal libro 'Journey to the bottomless pit: the story of Stephen Bishop & Mammoth Cave', via Internet Archive

Dimostrare la teoria dei collegamenti di Bishop divenne l’obiettivo della Cave Research Foundation, un gruppo di amanti della speleologia improvvisati che passarono quasi vent’anni a collegare le varie grotte nei dintorni della Mammoth Cave in un singolo sistema.

Nel 1972, la Cave Research Foundation aveva esplorato quasi ogni rivolo del Flint Ridge fino al punto di arrivo, a volte percorrendo tunnel strettissimi strisciando sulla pancia per dieci ore. Il collegamento finale, come lo chiamavano, era vicino.

Gli speleologi credevano che il Flint Ridge si incontrasse con la Mammoth Cave oltre una strozzatura di massi in arenaria nel punto di esplorazione Q-87, uno sperone remoto a chilometri dalla superficie, ma muovere quei massi con i tubi di metallo era un lavoro sfiancante. Una spedizione provò un percorso alternativo, attraverso un crepaccio verticale chiamato “The Tight Spot”. I capricci della speleologia hanno una vena di nichilismo: il Tight Spot è una fessura buia così sottile che soltanto una persona osò entrarci.

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Era un’alta ed esile programmatrice informatica che pesava cinquantadue chili e si chiamava Patricia Crowther.

Pat s’incuneò nel Tight Spot e uscì dall’altro capo su una riva di fango. Nel freddo bagliore della lampada a carburo, individuò il biglietto da visita di un precedente visitatore: incise sul muro c’erano le iniziali “P.H.”. Tornata in superficie, il gruppo tenne la scoperta segreta. Tutti nella zona conoscevano la leggenda del vecchio Pete Hanson, che aveva esplorato la Mammoth Cave prima della Guerra civile americana. Laggiù c’erano le sue le iniziali, e questo poteva significare soltanto una cosa: Flint Ridge e la Mammoth erano collegate in un singolo sistema di grotte che si estendeva per cinquecentocinquanta chilometri. Questa scoperta straordinaria sarebbe divenuta l’Everest della speleologia.

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Il gruppo di speleologi della Cave Research Foundation che scoprirono il collegamento tra Flint Ridge e la Mammoth Cave, nel 1972. In basso a destra c'è Pat Crowther. Immagine via: National Park Service / Internet Archive

Pat tornò ad affrontare il passaggio dieci giorni dopo. “Pat, sarai tu a guidarci” le dissero gli altri. Poco oltre il Tight Spot, guadarono l’acqua fangosa che arrivava loro fino al petto, a un certo punto non rimasero che una trentina di centimetri d’aria tra il fiume sotterraneo e il soffitto gocciolante della grotta. Tutti zuppi e ricoperti di fango come fosse “glassa al cioccolato”, faticavano a tenere all’asciutto le lampade. Attorno a loro zampettavano ovunque gamberi di fiume ciechi. Quando il passaggio si aprì, rivelò una grande sala, dove scorsero la fine di un corrimano: una pista per turisti nel cuore della Mammoth Cave. Il collegamento era completato. Un attimo prima si trovavano nel punto più lontano in cui si fosse avventurato qualunque speleologo nella storia; ora, tra le lacrime e cadendo uno sull’altro nell’acqua, si trovavano soltanto a qualche passo da un bagno pubblico.

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Tornando alla base sul pianale del pick up di un ranger, alzarono lo sguardo alle stelle che luccicavano nel cielo d’estate. Sdraiati “sul retro del camioncino aperto, con le cime degli alberi che sfilavano sopra le loro teste per poi ripiombare nell’oscurità” contemplarono in silenzio la loro impresa. Il lungo tragitto ne amplificò la portata: avevano davvero percorso quei dieci chilometri sottoterra? Il passaggio finale, attraverso il Tight Spot e oltre quel che sarebbe divenuto noto come il “fiume perduto di Hanson”, collegava una linea non segnata nella mappa del 1839 disegnata a mano da Stephen Bishop. Dopo aver mangiato hamburger e bevuto champagne all’alba, si addormentarono.

“È una sensazione incredibile,” scrisse Patricia in un diario del viaggio “far parte della prima spedizione che è entrata nella Mammoth Cave da Flint Ridge. Come dare alla luce un figlio. Devi continuare a ricordare a te stessa che è successo davvero, che questa nuova creatura che hai messo al mondo ieri non c’era. Anche tutto il resto sembra nuovo. Quando ci siamo svegliati, giovedì, mi sono messa ad ascoltare un disco di Gordon Lightfoot. La musica era così bella, mi veniva da piangere”.

La nuova creatura che Patricia sentiva di aver messo al mondo era sempre stata lì, nell’oscurità del tempo geologico. Quel giorno non aveva dato alla luce la grotta, ma la mappa – non l’oggetto, ma la sua descrizione. Infilando se stessa nel Tight Spot e portando la luce della sua lampada nell’oscurità, aveva spostato un luogo fisico nel piano cartesiano dei simboli. O almeno così dev’essere come lo percepì lei, da cartografa del gruppo.

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Un'illustrazione dell'Echo River. Immagine via Internet Archive

Tornata a casa in Massachusetts, Pat e il marito Will aprirono un “laboratorio di mappe” in cui risalirono a tutti i dati cartografici di ciascuna spedizione della Cave Research Foundation. Essendo entrambi programmatori, aggiunsero una notevole raffinatezza tecnica alla loro attività di cartografia. Come descritto da Pat, la coppia inseriva i dati grezzi delle esplorazioni trovati in “libricini pieni di fango” in un terminale telescrivente che avevano in salotto, collegato a un computer PDP-1 mainframe sul posto di lavoro di Will. Da questi dati, generavano “comandi di tracciatura su enormi rulli di nastro di carta” usando un programma che aveva scritto Will – Pat aveva contribuito con una subroutine per aggiungere numeri e lettere alla mappa finale – che “trasferivano e tracciavano attraverso un plotter drum Cal-comp recuperato e collegato a un Honeywell 316 che sarebbe stato destinato a diventare un IMP di ARPANET”.

Le mappe dei Crowther erano tracciati di linee semplificati, ma rappresentavano i primi tentativi di computerizzare le grotte, un salto nella tecnica reso possibile dall’hardware al quale avevano accesso: un PDP-1, un mainframe e un Honeywell 316, un minicomputer a 16 bit, ben oltre il livello allora disponibile agli utenti. Will Crowther lavorava per la Bolt, Beranek and Newman (BBN), un’azienda del Massachusetts specializzata nella ricerca avanzata. Nel 1969, la BBN fu presa in appalto dal governo statunitense per aiutarlo a costruire ARPANET, la rete militare e accademica di commutazione di pacchetti che generò il nostro Internet odierno. Qualche anno dopo averlo impiegato per tracciare mappe di grotte, il minicomputer Honeywell 316 fu convertito e perfezionato per divenire un Interface Message Processor, o IMP – quel che oggi chiamiamo router. Questi router formavano una sottorete tra computer più piccoli all’interno di ARPANET, passavano dati che trasferivano tra nodi primari, una componente vitale di Internet ora come allora.

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Will era uno dei programmatori più bravi della BBN, e i suoi codici rigorosi ed essenziali erano espressione della sua pignoleria. Da sempre amante della montagna, aveva insegnato a Patricia a scalare le pareti verticali delle Shawangunk Mountains nello stato di New York, e si diceva che quando era assorto a pensare se ne stava appeso per le dita allo stipite della porta del suo ufficio. Will era anche uno speleologo amatoriale, e la coppia trascorreva le vacanze sottoterra. “Mi viene freddo quando non è con me” scrisse in un diario di un’esplorazione fatta insieme. “Ci sono molte correnti quaggiù; è il respiro della grotta.”

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Will non aveva partecipato all’ultima spedizione che aveva individuato il collegamento sotterraneo della Mammoth Cave. Era stato al fianco di Patricia nelle prime esplorazioni, spingendosi oltre i suoi limiti. Ma l’ultima spedizione era all’inizio di settembre, proprio quando le figlie Sandy e Laura – rispettivamente di otto e sei anni – dovevano tornare a scuola. Uno dei Crowther doveva rimanere a casa, occuparsi di comprare alle bimbe i libri e i grembiuli, portarle dal dentista e prepararle per l’inizio della scuola. Will sapeva quanto quella spedizione fosse importante per Patricia. Era stata lei, dopotutto, a trovare la vena, e moriva dalla voglia di vedere che cosa c’era oltre. Le disse di andare. Si sarebbe occupato lui delle bimbe.

Quando Pat tornò a casa, profondamente commossa dall’esperienza, Will era lì ad aspettarla. Rimasero svegli fino a tardi, mano nella mano, a parlare di quel collegamento sotterraneo. Quando Will si addormentò, Pat andò al terminale telescrivente in salotto, e inserì, cercando di non fare rumore, i rilievi dell’esplorazione fatta in Kentucky. Mise in funzione un programma coordinato e i dati uscirono nelle sue mani in forma di un lungo nastro di carta. Il mattino dopo, Pat e Will portarono il nastro in ufficio e osservarono il computer BBN tracciare il collegamento che la donna aveva fatto, sottoterra, tra due luoghi ampi e solitari. “Ora posso andare a dormire” scrisse.

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Rendere il percorso visibile è l’obiettivo centrale della speleologia. La Cave Research Foundation aveva una politica di gruppo: nessuna esplorazione senza rilievi. Una mappa è il solo modo per vedere una grotta nella sua interezza, ed elaborare mappe è l’equivalente speleologico di raggiungere le cime di una montagna. È anche un meccanismo di sopravvivenza. Per rimanere al sicuro, gli speleologi fanno rilievi nel procedere, “lavorando in modo razionale e sistematico per situare passaggi noti”. Non stupisce che l’hobby attragga i programmatori informatici. Il mondo dei codici è un paese popolato da pignoli. Come i programmatori, gli speleologi possono lavorare in gruppo, ma affrontano sempre le loro sfide da soli.

Non molto tempo dopo l’esplorazione che condusse alla scoperta del collegamento sotterraneo, i rapporti tra Patricia e Will si guastarono. Divorziarono nel 1976, dopo una separazione che lasciò Will “a pezzi per diversi motivi”. Esplorare in compagnia degli amici comuni della piccola famiglia della Cave Research Foundation senza Patricia “era diventato strano”. Da solo e circondato dalle loro mappe, tra cui un ampio rilievo della sezione Bedquilt della Mammoth Cave che avevano fatto insieme nell’estate del 1974, si consolava con lunghe partite di Dungeons & Dragons e lunghe sessioni di codifiche notturne. Quando Sandy e Laura andavano a trovare il padre, di solito lo trovavano assorto al lavoro su una lunga striscia di codice FORTRAN dalla struttura elegante. Raccontò loro che stava creando un gioco informatico, e che quando lo avrebbe finito ci avrebbero potuto giocare insieme.

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Lo scrittore Richard Powers una volta scrisse che il “software è la vittoria finale della descrizione rispetto all’oggetto”. La specificità scrupolosa con cui il software descrive la realtà si avvicina, e a volte va persino a toccare, un ordine più profondo. Questo è forse il motivo per cui Will Crowther sentì l’esigenza di elaborare un’ultima mappa. Non più dagli appunti pieni di fango della moglie, ma piuttosto dai suoi ricordi. Tradotta in settecento righe di FORTRAN, quell’ultima sua mappa divenne Colossal Cave Adventure, uno dei primi videogame da computer, fedelmente ispirato dalle sezioni della Mammoth che aveva esplorato con Patricia e rilevato insieme a lei, su un computer che avrebbe costituito la struttura portante della nascita di Internet.

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Schermata della versione originale di Will Crowther di 'Colossal Cave Adventure'. Immagine via: Wikimedia Commons

Colossal Cave Adventure – ora più conosciuto semplicemente con il nome Adventure – non ha l’aspetto del videogioco in senso moderno. Non ci sono immagini o animazioni, nessun joystick o controller. Blocchi di testo descrivono sezioni di una grotta in seconda persona, in questo modo: Ti trovi in una splendida camera alta dieci metri. Le pareti sono fiumi congelati di pietra arancione. Un canyon scomodo e un buon passaggio escono da est e ovest della camera. Un allegro uccellino è seduto e canta.

Per interagire con la grotta, il giocatore deve scrivere chiari comandi imperativi, come vai a ovest o prendi l’uccellino, che danno origine a nuovi passaggi descrittivi. Gli enigmi di Adventure sono un’infinita mescolanza di un inventario magico: per passare davanti al serpente attorcigliato nell’“antro del re della montagna” si deve liberare l’uccellino dalla gabbia, ma non si può prendere l’uccellino se si è in possesso del bastone nero, perché l’uccellino ha paura del bastone, ma il ponte di cristallo non apparirà senza che si agiti il bastone nero, e nel frattempo ci si trova un labirinto di passaggi tortuosi, tutti diversi, o peggio, tutti uguali.

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Questo ricordava ai colleghi di Will le partite di Dungeons & Dragons che a volte giocavano dopo il lavoro. In D&D, un gioco senza alcun obiettivo da vincere, un divino “Dungeons Master” descrive alcune scene nei particolari, spingendo i giocatori a decidere quali azioni intraprendere. Ma Will scrisse il gioco per le figlie. Dopo il divorzio, Sandy e Laura aspettavano con impazienza di giocare al computer ogni volta che andavano a trovare il padre.

Secondo un ricercatore della Cave Research Foundation, “uno speleologo che partecipò a una spedizione con i Crowther nell’estate del 1975 racconta che gli bastò un’occhiata ad Adventure per trovarlo all’istante un esercizio catartico, un tentativo da parte di Will di rendere omaggio a un’esperienza perduta”.

Finito di programmarlo, Will salvò una versione compilata del gioco su un computer BBN e partì per una vacanza di un mese. Avrebbe potuto rimanere lì, senza essere visto né poi ricordato da nessuno, se le figlie non ne fossero state a conoscenza, se il suo computer non fosse stato collegato alla nuova rete di computer che la sua azienda aveva contribuito a costruire.

Quando Will finì la sua vacanza, Adventure era stato scoperto attraverso ARPANET.

Se Patricia collegava grotte, Will collegava nodi, e Adventure, una mappa mentale di lunghe spedizioni speleologiche fatte insieme, viaggiò ovunque si formarono quei legami.

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Adventure fu un fenomeno. Il gioco non perdonava, proprio come la vera speleologia. Era una follia orientarsi – una “discesa agli Inferi” secondo una scrittrice che lo provò – e un gioco che dava dipendenza. Nei laboratori di informatica la produttività si arrestava ogni volta che su un terminale approdava Adventure. Un appassionato del gioco a Stanford, Don Woods, modificò ulteriormente il codice aggiungendo elementi fantasy – un vulcano sotterraneo, una macchina che dispensava batterie – alle descrizioni austere di Crowther. Il viaggio di Adventure al centro della terra oggi viene considerato un testo fondativo della cultura informatica. Centinaia di giocatori si cimentarono nel gioco, poi migliaia, e ciascuno scrisse a mano le proprie mappe del mondo sotterraneo descritto da Will.

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Una fotografia della Mammoth Cave, pubblicata nella guida del geologo Horace Carver Hovey del 1909. Immagine via: Internet Archive

Dev’essere stato strano per Pat. Quando venne a conoscenza di Adventure, durante un incontro della Cave Research Foundation a Boston tenutosi tra il 1976 e il 1977, era diventata Patricia Wilcox, perché si era sposata con il capo della spedizione del 1972. Il gioco di Will si dimostrò una piacevole curiosità per gli speleologi esperti del gruppo, e anzi per chiunque conoscesse bene la Mammoth Cave. A Boston, i membri della fondazione passarono quasi tutto l’incontro a giocare ad Adventure. Dal momento che giocavano usando la versione più popolare di Don Woods, che aveva cambiato alcune parti, Patricia non riconobbe subito la grotta che veniva descritta. Nel 2002 disse a un ricercatore che era “completamente diversa dalla vera grotta”.

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Ma non era così: gli speleologi della Mammoth Cave che provarono Adventure scoprirono di non aver bisogno di mappe. Era così preciso che potevano orientarsi a memoria. Con il diffondersi del gioco, chi andava in pellegrinaggio alla grotta vera poteva percorrere i passaggi tortuosi grazie alla conoscenza della mappa virtuale.

Vi sto raccontando la storia della Mammoth Cave, di Stephen Bishop, di Patricia Crowther e del marito Will, che con il cuore infranto commemora le loro avventure in un codice, per ricordarvi che ogni oggetto tecnologico, che si tratti di una mappa o di un videogioco, è anche un manufatto umano. La sua archeologia si rivela sempre antropologia.

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Dopo la laurea al MIT, Patricia Crowther era stata una programmatrice FORTRAN presso l’Haystack Radio Observatory. Come molte donne all’epoca attive in ambito tecnico, lasciò l’industria informatica per crescere le figlie – e per dedicarsi alle sue esplorazioni, naturalmente. Quando tornò al lavoro alla fine degli anni Settanta, era tutto cambiato. Tornò a scuola, si iscrisse a tutti i corsi di primo livello di informatica che aveva da offrire la Indiana University in Pennsylvania, accettando alla fine un impiego come istruttrice. Nelle sue classi, spesso seguite da centinaia di studenti, ricorda la presenza di molte donne, ma sarebbe stata l’ultima generazione a fare ingresso nel campo in buon numero. Nella generazione dopo Grace Hopper e le sue contemporanee, la professionalizzazione dell’“ingegneria dei software” segnò un’inversione di rotta nel genere che accedeva all’ambito di studi. Nel 1984, negli Stati Uniti cominciò a crollare il numero di donne che seguiva corsi di informatica, e ha continuato a diminuire fino ad oggi, un crollo ineguagliato in qualsiasi altro campo professionale.

Con il successo crescente del gioco dell’ex marito di Patricia, furono gli uomini a raccogliersi attorno a terminali in rete per giocare fino a tarda notte. Furono gli uomini a scarabocchiare mappe di grotte su bloc-notes al bagliore elettrico dello schermo. Furono gli uomini a emergere con le vertigini alla luce del giorno da ogni cunicolo. E nonostante tutte le imprese compiute da Patricia, nei molti racconti sulla storia di Adventure la donna non rimase che una figura sullo sfondo. Pur avendo eseguito i rilievi e tracciato la mappa del mondo sotterraneo che Will rese popolare con il suo gioco, e pur essendo stata lei a compiere fisicamente il salto nell’ignoto che pochi avrebbero preso in considerazione, la sua presenza è una sagoma spettrale di quel che avrebbe potuto essere, rimasta nascosta in piena luce. Lo stesso si potrebbe dire delle molte donne che operarono all’inizio dell’era dei network.

È giusto considerare Adventure come l’esperienza inaugurale collettiva del nostro secolo in rete. È una storia che ci racconta con quale intimità la gente influenzi i software, e quanto grande può essere l’impatto. Le grotte sono sempre state mondi virtuali, i primi luoghi in cui gli esseri umani hanno provato l’incorporeità ontologica che ora tanto associamo al proiettarci sullo schermo. Alla luce tremula del fuoco o al bagliore di un monitor CRT, vediamo oltre il reale. I simboli si applicano al granito grezzo, alla tela, al codice: tutto illumina l’oscurità.

C’è una lampada nella grotta. Sai che cosa devi fare?

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Questo articolo è un estratto ridotto del capitolo “La caverna più lunga”, tratto dal libro Connessione — Storia femminile di Internet, che racconta le figure femminili spesso dimenticate o tagliate fuori dalla versione della storia dell’informatica e di internet che conosciamo. Il libro è scritto da Claire L. Evans e pubblicato in Italia da Luiss University Press.