vino kosher significato
L'autrice mentre beve del vino kosher in cantina. Foto di Chiara Manes
Cibo

Ho chiesto a un rabbino e a un vignaiolo tutte le regole per fare il vino kasher

Cos'è il vino kasher (o kosher) e perché è così complicato per le aziende vinicole produrlo? Lo abbiamo chiesto a un rabbino e a un'azienda italiana.
Alice Caccamo
Rome, IT

Kasher significa puro, e puro vuol dire che non può entrare in contatto con cose e persone non ebree. Se la vasca prima conteneva l’uva di un vino non kasher, questa deve essere riempita e svuotata ogni 24 ore per almeno 3 volte.

Kasher (o kosher) in ebraico significa puro, giusto, idoneo. Per la cultura ebraica quando si parla di cibo kosher si parla di alimenti idonei al consumo dei fedeli, almeno secondo le leggi dell’alimentazione ebraica (kasherut) impresse sulla Torah.

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Molte materie prime che si consumano nella cucina italiana e occidentale non sono considerate kasher; sono infatti vietati fra gli altri: crostacei, maiale, coniglio, rettili e insetti. In più anche molte combinazioni alimentari sono espressamente bandite: la più celebre, forse, la combinazione di carne più derivati animali—vedi il formaggio—, che non possono essere “fabbricati” e consumati insieme (“non mangerai il capretto nel latte di sua madre”).

E come il cibo anche le bevande devono essere kasher, incluso il vino, che è estremamente sacro per la cultura ebraica, e consumato in tutte le celebrazioni religiose. E per avere del vino kasher, la sua produzione deve seguire una produzione piena di regole imprescindibili.

Il vino kasher può essere prodotto solo da chi ha uno spirito gentile, fedele, questo perché si sta creando una cosa sacra

Ho avuto la fortuna di scoprire qualcosa in più sul vino kasher grazie a Gabriele e Andrea Pandolfo, rispettivamente padre e figlio, proprietari di un’azienda vitivinicola nel Lazio: Cantina Sant’Andrea, che produce vino nel cuore della Doc del Circeo e del Moscato di Terracina. È un’azienda di vino tradizionale, ma che da circa venti anni riesce a portare avanti parallelamente anche una produzione kasher.

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A sinistra Gabriele Pandolfo, accanto il rabbino Mordehai Sebbah. Foto dell'autrice

Proprio qui ho avuto l’opportunità di conoscere il rabbino capo Mordehai Sebbah, responsabile per tutto il mondo della produzione kasher di vino in rappresentanza del rabbinato centrale di Israele. Era in cantina proprio per controllare la produzione del vino.

Alla Cantina Sant’Andrea si è aggiunto in seguito anche Seguire le Botti, agriturismo con ristorante che fa cucina del territorio, un uliveto e un allevamento biologico. Producono 16 etichette di vino e le stesse 16 sono anche kasher.

“Toccare il vino” ha un senso molto più ampio di quello che avrei immaginato: significa che qualsiasi azione che muove il prodotto è unicamente concessa a persone di religione ebraica e adatte a fare questo lavoro

Nonostante la grandezza dell’azienda, non è facile sostenere una produzione parallela di vino kasher. La prima cosa che è importante sapere è che il vino per gli ebrei è un elemento sacro: tutte le manifestazioni religiose ebraiche si svolgono in presenza di un bicchiere di vino, da bere all’inizio e alla fine. Questa sacralità rende ogni passaggio produttivo carico di significato, e ovviamente di regole da seguire. 

Per poter dichiarare una cantina kasher, innanzitutto bisogna ricevere le visite di un rabbino sul posto, il cui lavoro è valutare ogni aspetto, dalle persone che ci lavorano, passando per la struttura, fino alla possibilità di usare molta acqua. Sul perché si necessiti di molta acqua mi risponde Gabriele Pandolfo, mentre sono a tavola in giardino con il rabbino Mordehai Sebbah, il cantiniere Amram Armond e Andrea Pandolfo.

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Il cantiniere Amram Armond. Foto dell'autrice

“Cosa s’intende quando dici che una cantina può fare vino kasher solo se ha grandi disponibilità d’acqua?”. Gabriele mi risponde che “Kasher significa puro, e puro vuol dire che non può entrare in contatto con cose e persone non ebree. La vasca dove viene messa l’uva, per esempio, deve essere nuova o resa nuova. Se prima conteneva l’uva di un vino non kasher, questa deve essere riempita e svuotata ogni 24 ore per almeno 3 volte.” Non ci devono essere quindi semi, bucce, impurità di ogni tipo che possano contaminare il loro vino e la tanta acqua serve proprio a questo, a pulire.

“Prima facevamo così: pulivamo ogni volta con tantissima acqua” mi dice Gabriele, “poi il rabbino veniva una settimana prima e facevamo tutti i passaggi per rendere pure le vasche. Solo che per me iniziava a diventare complicato e dispendioso. Senza contare lo spreco d’acqua. Così ho pensato di lasciare direttamente una parte dell’azienda dedicata alla produzione kasher con i loro serbatoi, le loro macchine e pompe. In questo modo non devo cambiare ogni volta macchinari o usare litri su litri di acqua” continua Gabriele. I tempi di riposo e invecchiamento del vino sono gli stessi tra vino tradizionali. Tutti i bianchi hanno solo passaggi in acciaio, i rossi hanno invece una vinificazione molto tradizionale con processo di affinamento in botte. I rossi più giovani fruttati-freschi fanno 3-4 giorni di macerazione; i rossi da invecchiamento, più tannici, 2 o 3 settimane.

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Foto di Chiara Manes

Il vino kasher, inoltre, deve essere sempre esclusivamente manipolato da personale di religione ebraica. Durante la vendemmia vengono ad occuparsene sempre in due, per potersi controllare a vicenda e per controllare il vino, che non può mai essere lasciato solo, per non incorrere nel rischio che qualcuno considerato impuro lo tocchi. E attenzione che “Toccare il vino” ha un senso molto più ampio di quello che avrei immaginato: significa che qualsiasi azione che muove il prodotto è unicamente ed esclusivamente concessa a persone di religione ebraica e adatte a fare questo lavoro. Quindi vale anche solo accendere o spegnere una pompa.

L’unica cosa che può essere fatta da chiunque è la fase iniziale, ovvero la raccolta delle uve, perché in quel momento si tratta solo di frutta. Quando poi si arriva davanti alla vasca resa kasher e l’uva inizia a cascare dentro la vasca, in quell’esatto momento si avvia il processo di vinificazione; è l’inizio di un procedimento sacro. “Da lì noi non possiamo più toccarla” conclude Gabriele.

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Arrivati a questo punto, ogni passaggio deve essere sigillato con un sistema che si chiama Simanim. Mi spiega il rabbino—a cui rivolgo domande in inglese e che mi risponde in francese—, che quando si travasa il vino nella vasca, il cantiniere non se ne va finché non sigilla con la sua mano e la sua firma che quel vino è stato toccato solo da lui. Questo perché se il rabbino viene a controllare e trova una vasca senza sigillo, non può avere la certezza che sia puro.

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I sigilli - Simanim

Il sigillo è quindi una garanzia, la prova che ogni manipolazione è avvenuta seguendo quello che dice la Torah. Questo vale per tutti i passaggi, finché il vino non entra in bottiglia, questo implica: trasporto, filtraggio e il travasarlo devono essere fatti solo da personale ebraico ed esperto. Una volta imbottigliato può essere poi preso e spostato da persone non di religione ebraica. 

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Una cosa che durante questa conversazione ho trovato interessante è che anche la predisposizione umana di chi fa il vino è qui tenuta in forte considerazione: il vino kasher può essere prodotto solo da chi ha uno spirito gentile, fedele, questo perché si sta creando una cosa sacra. "Qui ci conosciamo da 20 anni e c’è un profondo rispetto” spiega Gabriele, “l’atmosfera deve essere favorevole e deve esserci un ambiente sano.”

Tutte queste regole hanno ovviamente un risvolto pratico importante: “Ad esempio anche se c’è un incidente e casca magari del vino, la prima cosa che ti verrebbe da fare è chiudere il rubinetto, invece non puoi perché non puoi toccarlo.”

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Il rabbino Mordehai Sebbah insieme Andrea Pandolfo.

Sul finire della chiacchierata scopro che il rabbino Mordehai Sebbah è un personaggio estremamente illustre nella comunità ebraica; ha infatti la piena fiducia da parte dei rabbinati più importanti del mondo: Israele, New York, Parigi. Questo permette al vino prodotto nella cantina dove sono adesso di avere sbocchi anche sul mercato mondiale: chi vuole vendere negli USA, infatti, ha bisogno che firmi il vino Israele o un rappresentante americano.

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Va specificato che il rabbino non è un operatore vinicolo, ma controlla l’operato, la qualità del vino prodotto, e che il tutto venga fatto con uno spirito adatto. Gabriele mi spiega che il rabbino lavora con tutte le cantine della Francia e dell’Italia, e che una persona importante come lui, con la sua sola presenza, rappresenta in quel momento l’istituzione più alta. “In un anno normale viaggio tanto quanto una persona viaggia in una vita intera”. Mi dice il rabbino Sebbah. Si sposta in più paesi: dalla Thailandia all’Argentina e spesso senza ripassare da casa. E in tutto questo mi conferma che lui il vino non lo beve mai. Se non durante le manifestazioni religiose o i festeggiamenti, come nel fine settimana per lo shabbat, ad esempio. 

Il nome di un vino kasher non può ovviamente riportare il riferimento specifico di un’altra religione.

Chiedo al rabbino Sebbah a cosa sia dovuta la sacralità e l’importanza del vino. Mi risponde che nella Torah non c’è una sola verità o una sola risposta. Il vino ha tante spiegazioni: Noè che appena arrivato ha piantato subito la vigna e ha bevuto il primo vino; il vino che rappresenta la libertà facendoti uscire le parole che da sobrio non diresti mai. Si dice anche che Adamo sia stato tentato dal vino, ovvero che il frutto originario non fosse la mela bensì l’uva. Ci sono quindi numerose interpretazioni.

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Dopo aver riempito il rabbino di domande, ci alziamo e visitiamo l’azienda. Vedo i sigilli, i macchinari divisi per vino normale e vino kasher e tutto il lavoro dietro a una produzione così grande e serrata. Passiamo poi nel negozio della cantina, assaggio il vino dell’azienda e il succo d’uva che di solito danno ai bambini. Il cantiniere Amram Armond apre un grande pacco di pane ebraico (Matzah) rigorosamente senza lievito, e tra uno scaffale e l’altro mi passa questi grandi fogli poco più spessi del pane carasau, fatti di acqua e farina. 

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Arrivati davanti lo scaffale del vino kasher, noto che sull’etichetta il nome della cantina è diverso: non più “Cantina Sant’Andrea” ma “Cantina Gabriele”, questo perché nella religione ebraica non esistono i santi, come invece vengono intesi e celebrati nel cristianesimo, e il nome di un vino kasher non può ovviamente riportare il riferimento specifico di un’altra religione.

Challah

Il pane Matzah ci apre lo stomaco, giusto in tempo per il pranzo. Arriva il momento di dividerci, il rabbino capo e il cantiniere ci salutano e noi ci dirigiamo nel ristorante dell’azienda. Qui mangiamo piatti della tradizione fatti con tutti ingredienti del Lazio, che mi fanno volare.

Chiedo ultima informazione sul costo dei vini kasher: al consumatore può costare dai 6 ai 15 euro, in base alle etichette. Per tutto questo lavoro, aggiuntivo, pensavo molto di più.

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