Salute

Una persona che amo si è ammalata e non posso vederla: cosa faccio con tutto questo dolore?

E, nel peggiore dei casi, come posso elaborare il lutto se non l’ho vissuto?
Vincenzo Ligresti
Milan, IT
QUARANTENA_CASA_1440
Illustrazione di MATTEO DANG MINH.

Durante questa quarantena abbiamo un sacco di domande su cosa sta capitando al nostro modo di rapportarci con noi stessi, col mondo e con gli altri. Per questo abbiamo pensato a un appuntamento periodico, una specie di angolo in cui raccogliere i nostri pensieri, metterli sotto forma di domanda e lasciare che sia un esperto a rispondere. Questa è la seconda puntata. Se avete dei temi da sottoporci per i prossimi episodi, scriveteci in DM su Instagram.

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Domanda: Mentre sono rimasta bloccata in solitudine in quarantena, ho scoperto che un mio familiare si è ammalato. L’ho scoperto poco a poco, raccattando informazioni frammentate, edulcorate, che mi venivano riferite in maniera sbrigativa al telefono. Ho passato queste ultime settimane sospesa, alternando momenti di crescente consapevolezza ad altrettanti di completo distacco. Come se quello che stava succedendo non fosse reale, perché tanto non potevo vederlo, anche se mi riguardava da molto vicino.

In me è rimasto costante un perenne senso di impotenza. Culminato nel momento in cui ho chiesto mi venisse inviata una foto della bara da chi avrei preferito abbracciare fortissimo. Credo che in questo periodo ci siano molti casi simili al mio, scossi dagli stessi dubbi. Quindi vorrei chiedere: se un mio caro sta male e non posso vederlo, come posso vivere col senso di impotenza che provo? Come posso rendermi utile, al contempo senza essere invadente? E, nel peggiore dei casi, come posso elaborare il lutto se non l’ho vissuto?

Risposta di Marilena Iasevoli, psicoterapeuta specializzata in problematiche relazionali: La distanza fisica che tutti stiamo sperimentando è vissuta come un ostacolo, ma è anche qualcosa che dovrebbe farci riflettere. Nella nostra società, l’idea di dover essere sempre al massimo delle nostre possibilità è ancora troppo forte, sfiancante alle volte: accettare i propri limiti fisici e mentali, invece, è qualcosa di liberatorio. Ti rende quello che sei: umano, quindi alle volte incostante, contraddittorio tanto con te stesso quanto nel rapporto con gli altri.

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In sostanza: il senso di impotenza che provi mentre pensi che dovresti essere d’aiuto altrove, è naturale. Ma non dovresti viverlo come una colpa o cercare di rigettarlo. L’apprendimento emotivo è più automatico attraverso l’esperienza diretta, e in questo caso è venuta per la maggior parte a mancare. Quindi è comprensibile che i tuoi pensieri oscillino da “oddio sono inutile, che posso fare” a “vabe', meglio non pensarci,” e viceversa. È una reazione, un possibile sistema di difesa, e dipende molto anche dalle informazioni e gli strumenti che hai in possesso in quel momento.

Pertanto, mettendo in conto che ogni persona è diversa e le dinamiche familiari sono infinite, è fondamentale essere il più chiari possibile su quale tipo di comunicazione vogliamo impostare. Io che sono distante, di cosa ho bisogno? Di sapere in che condizioni è il malato? Ho bisogno (se è possibile) di sentirlo? Di chiamare il medico che lo sta seguendo? Propormi e dire “se hai/avete bisogno chiamami/temi?” Dall’altra parte, non ci si deve far sovrastare dalla voglia di proteggere chi è distante. È difficile veicolare cattive notizie, ma necessario, ed è doveroso farlo nella maniera più delicata possibile.

La condivisione è fondamentale, perché sofferenze e difficoltà possono trasformarsi in un momento di unione, in certi casi di riavvicinamento, ma anche in future distanze incolmabili se ci si chiude in se stessi. Dire “sto provando questo,” accogliere cosa prova l’altro, soffrire per o con chi sta male sono gesti potentissimi. Ovviamente non ci sono regole fisse: una chiamata al giorno per alcuni è sufficiente, dipende dalle necessità condivise.

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Nel caso in cui sopraggiunga il lutto, c'è la questione delle cinque fasi, secondo il modello di Kübler Ross. Te le sintetizzo in brevissimo: negazione, in cui rigetti l’evidenza dei fatti; rabbia, contro se stessi, gli altri, il coronavirus, la situazione contingente; la negoziazione, in cui cerchi di darti delle risposte razionali; depressione, dove ci si arrende emotivamente e razionalmente; e infine l’accettazione, dove si accetta la realtà. Ovviamente le fasi non sono così statiche (e le prime possono essere sperimentate senza che la persona venga definitivamente a mancare), ma danno un po’ il quadro di ciò che avviene nel complesso.

Ora: non ci sono studi sul lutto a distanza durante le pandemie, perché la psicologia non è mai stata così importante come adesso, quindi magari si inizieranno a raccogliere dati una volta che tutto questo sarà finito. Ma è plausibile, in base alle esperienze di lutti a distanza che hanno sperimentato i miei pazienti, dire che in questa situazione l’elaborazione potrebbe avvenire in due maniere antitetiche.

Nel primo caso, si potrebbe provare tutto più velocemente ma in realtà in maniera meno elaborata. Avverrà una sorta di falsa accettazione, perché non avendo vissuto appieno la situazione, si crederà di averla superata—per poi avere una ricaduta, per esempio, quando si tornerà nei luoghi condivisi con la persona che non c’è più.

Nel secondo, tutto è più rallentato perché ci si rende conto che superare il lutto “da remoto” non è in questo caso fattibile. Rimaniamo bloccati per più tempo nella fase di negazione o depressione, rimandando così il completamento del processo di archiviazione del dolore a quando ci sarà permesso partecipare a un rito funebre, abbracciare i cari con cui avresti voluto vivere diversamente la situazione. Finché non sperimenteremo, insomma, un evento fattuale che ci faccia rendere davvero conto di ciò che è accaduto, un tassello da tenere in tasca, e giocarsi quando si sarà pronti ad andare avanti.

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In ogni caso, e questo vale per ogni cosa, è utile riuscire a catalizzare dal principio il proprio dolore, capirne l'importanza. Il dolore sembra qualcosa di statico, ci induce a credere che siamo fermi lì, bloccati in una sensazione orribile, ma in realtà è un processo: un movimento verso, verso il nuovo, la persona che sarai—che sarà diversa da quella che era prima, e ancora diversa da quella che verrà dopo.

Nel frattempo, due piccoli consigli. Innanzitutto non vergognarti di parlare sinceramente della morte: è parte della vita, e viverla appieno ne è parte. Poi, mentre continui ad essere bloccata in casa, crea per l'appunto simboli e riti se ti sono di conforto. Ti va di scrivere una lettera alla persona che è andata via? Fallo. Di mandarle un vocale? Fallo. Di pubblicare una foto con lei e una lunga didascalia commemorativa su Instagram? Fallo. Di accendere una candela e bere un bicchiere in suo onore? Fallo. Piangi pure. Piangere è un momento di crescita.

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