Gangster, rave e giubbotti antiproiettile: la storia del miglior club di Londra


DJ Skitz (a sinistra) e Rodney P mentre suonano al Fabric all’inizio degli anni Duemila. (Tutte le foto per gentile concessione del Fabric)

Un carnaio. In un certo senso non c’è definizione peggiore, per un locale, di una che evochi all’istante matricole sbronze, buttafuori che non riescono a tenere le mani a posto e faticosi slalom tra le pozze di vomito.

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Per questo motivo è ironico il fatto che il miglior locale di Londra si trovi proprio in un palazzo che un tempo ospitava un mattatoio.

Chiunque conosca anche solo vagamente la scena dei club inglesi—o anche solo la musica dance in generale—avrà già sentito parlare del Fabric, il labirintico ex mattatoio diventato la Mecca della musica dance. È il club dei club, un paradiso in cui lasciarti andare tra dubplate e drop, più che un locale da speed dating che serve alcolici e ti perquisisce all’entrata.


Keith Reilly (l’ultimo a destra), con gli altri fondatori e PR del Fabric

Questa settimana il locale festeggia il suo quindicesimo anniversario, ma dubito che tutti i patiti della drum ’n’ bass o gli smascellatori delle otto del mattino si rendano conto di quanto del suo successo sia legato alla storia, alla personalità e al carattere dell’uomo che sto intervistando oggi: il co-fondatore Keith Reilly.

Per raccontare la storia di questo personaggio bisogna ovviamente partire dal nome. I Reilly sono una delle famiglie più note nel mondo del crimine organizzato britannico: più conosciuta di loro c’è solo la famiglia degli Adams, nel nord di Londra—con cui per gran parte degli anni Ottanta si sono scontrati su e giù per Caledonian Road. Quando lo zio di Keith è stato arrestato, all’età di 65 anni, aveva con sé più di cinque chili di cocaina e, stando alle affermazioni dell’agente che gli ha messo le manette, “abbastanza armi automatiche da far la guerra ai Talebani.”

Ma Keith insiste: nessuno dei suoi parenti più stretti è mai stato coinvolto in questo genere di attività. Suo padre aveva altri 14 fratelli e il numero di rapine a mano armata e di estorsioni che si potevano effettuare era limitato, perciò Keith è cresciuto nel mondo più o meno legale dei trasporti e della grande distribuzione. “È un aspetto importante,” mi dice, “perché avevo un sacco di magazzini vuoti a mia disposizione.”

Quindi Keith ha fatto quello che avrebbe fatto qualsiasi giovane ossessionato da David Bowie e dai Velvet Underground se ne avesse avuto la possibilità: ha iniziato a organizzare feste in quei magazzini.

“Quelle serate erano assolutamente folli, e garage. Non come la si intende in Inghilterra, ma nello spirito originale della musica garage… non c’erano regole! Mettevamo su qualsiasi cosa, da James Brown, a Fela Kuti, a Chaka Khan, agli Stones… Tutto illegale, ovvio, ma eravamo sul finire degli anni Settanta, prima ancora che nascesse la scena rave; anche se fossero riusciti a prenderci, la polizia non avrebbe saputo cosa fare.”

Ed è stato proprio lo spirito anarchico delle prime feste, alimentato dalla nascita dell’acid house, a ispirare Reilly a chiudere, nel 1992, la sua azienda di duplicazione di CD e vinili per aprire un locale. “È stata una reazione naturale a tutta la robaccia che c’era in giro a quei tempi,” mi dice. “La scena dance era degenerata, era diventata happy house o handbag house, o come cazzo la chiamavano loro. Era diventato tutto uno spacciare come imperdibili degli eventi mediocri: si pensava solo a mettere quanti più DJ possibile sui volantini e quante più fighe possibile al bancone… In pratica, una merda.”

Così Keith ha venduto la casa di famiglia e ha investito tutto quello che aveva per aprire il locale in cui lui per primo sarebbe voluto andare. Ci sono voluti sette anni, e innumerevoli false partenze, perché alla fine il Fabric diventasse realtà. “A quei tempi Farringdon era una zona industriale: vecchia, brutta ma molto centrale—in pratica, il posto perfetto,” mi racconta. “Lo spazio in sé era irriconoscibile: ci sono voluti due anni di lavori per trasformarlo in un locale, ma organizzando feste avevo sviluppato un certo occhio… mi bastava entrare per capire se il posto andava bene.”

Ma saper trovare il posto perfetto per un locale non ne garantisce il successo. “Nel settore, pensavano tutti che fossimo pazzi,” mi racconta Keith. “C’era un grosso club del West End, che si chiamava Home, che doveva aprire un mese prima di noi. Mi ricordo che una volta venne a trovarmi un PR, che ora è un mio buon amico, e mi disse: 

“Ti rendi conto che l’Home aprirà un mese prima di voi?”
“Già.”
“E ti rendi conto che come DJ hanno Paul Oakenfold e Danny Rampling, vero?”
“Sì.”
“Be’, e tu chi hai?”
“Terry Francis e Craig Richards.”
“Chi?”
“Dei miei amici.” 


Carl Cox (sinistra) e Craig Richards al Fabric

“Appena l’ho detto mi sono reso conto che dovevo essergli sembrato un bambino, ma sapevo di avere ragione. Vedi, a quei tempi quelli come Craig non erano in grado di organizzare eventi decenti—c’erano solo le solite serate di musica house scadente, e chiunque volesse qualcosa di più sofisticato rimaneva fuori. Quindi, quando abbiamo inaugurato il Fabric, la nostra unica regola è stata che non saremmo mai scesi a compromessi in fatto di musica—e non l’abbiamo mai fatto.” 

Come previsto, l’Home ha chiuso i battenti due anni dopo, mentre a distanza di 15 anni Craig Richards e Terry Francis fanno ancora i DJ al Fabric.


Goldie al Fabric

Una cosa che è stata ben chiara sin dalla serata d’apertura è che il Fabric stava rispondendo a una domanda realmente esistente nella scena londinese. 

“Le prime serate erano affollatissime,” mi ha raccontato Cameron Leslie, co-fondatore del Fabric e storico braccio destro di Reilly. “La fila per entrare faceva il giro dell’edificio. E in tutto ciò, noi non sapevamo ancora come funzionassero gli allarmi, i registratori di cassa e un sacco di altre cose. Prima dell’apertura non c’era nessuno che si occupasse del guardaroba—che è una cosa molto importante, perché controlla il flusso di persone che entrano ed escono dal locale—così alla fine ho chiamato mio padre, l’unica persona di mia conoscenza con un minimo di controllo. Per i primi tre mesi è stato lui a occuparsene, e l’ha fatto con la disciplina di un generale.” 

“L’unica cosa che sapevamo far funzionare era l’impianto,” ha aggiunto Reilly. 

E infatti, ciò che distingue il Fabric, oltre alla sua offerta, è l’impianto. “Nella maggior parte dei locali, l’impianto è l’ultima cosa a cui si pensa—per cui di solito fa schifo,” mi ha detto Reilly. “Il Fabric invece è costruito tutto intorno al suo impianto… ed è in continuo miglioramento. I nostri ragazzi ci stanno lavorando anche in questo momento, per migliorarlo ulteriormente. È un’altra cosa su cui non accettiamo compromessi.”

Come saprà chiunque ci abbia ballato almeno una volta nella sua vita, la caratteristica migliore dell’impianto del Fabric è che, in una sala—oltre all’impianto standard—ci sono 400 trasduttori per i bassi piazzati sotto il pavimento. Ti senti proprio i bassi sotto i piedi. Questo sistema trasforma tutti i presenti nella sala in piccole casse di risonanza umane. La tua fronte vibra a tempo, e durante le migliori serate drum’n’bass l’atmosfera è indescrivibile.

“Sì,” ha riso Reilly, “l’unico problema è che, all’inizio, ai nostri rave trovavi un sacco di ragazze che avevano preso troppe pasticche e che finivano a masturbarsi sul pavimento tutte sorridenti. E quando succedeva pensavo, ‘Cazzo, abbiamo costruito il vibratore più grande del mondo.’”

Con l’arrivo del successo, il Fabric ha dovuto affrontare nuovi problemi. Per gli spacciatori, il locale era un mercato da milioni di sterline al mese. non deve sorprendere che abbiano cercato di appropriarsene. Reilly ha iniziato a ricevere vere e proprie minacce, spesso dirette contro la sua famiglia. Venivano dal genere di persone da cui nessuno vorrebbe mai ricevere minacce.

Così, ha dovuto fare una scelta—chiamare i suoi zii e iniziare una guerra tra bande, o restare sulle sue posizioni e fronteggiare i gangster da solo. “Be’, se corri con i lupi finisci per diventare un lupo anche tu,” mi ha spiegato. “E non pensavo che sarei stato in grado di correre abbastanza veloce. Inoltre, quel mondo sporco non faceva per me. Ho detto molto chiaramente che sarei andato dalla polizia, che è una cosa che di solito non si fa quando si ha a che fare con questo genere di persone. Ne sono uscito bene, anche se per tutto il primo anno in cui il Fabric è stato aperto ho dovuto indossare un giubbotto antiproiettile e per via di questa situazione il mio matrimonio è finito—mia moglie non ha preso esattamente bene quelle telefonate anonime e ha deciso di prende i nostri figli, fare i bagagli e andarsene di casa.”

Quando gli ho fatto l’inevitabile domanda su quella famosa serata, a Keith si sono illuminati gli occhi. “Avere John Peel come DJ è stato speciale,” mi ha detto. “All’inizio non voleva suonare da noi, aveva avuto delle brutte esperienze con altri locali. Ma alla fine della serata ha messo “Teenage Kicks” e la gente prima ha iniziato a cantare, poi l’ha preso di peso e l’ha portato in giro per il locale. Era in lacrime, e così noi: lui era una specie di divinità. Da bambino, ogni sera mi addormentavo ascoltando la sua musica.”

Discorrendo con Keith Reilly e con i suoi collaboratori—molti dei quali fanno parte del gruppo originario che ha aperto il Fabric 15 anni fa—si riesce a catturare ancora quello spirito di esplorazione musicale che ha contraddistinto il lavoro di John Peel. Reilly ne parla con grande enfasi: “Per quanto riguarda la musica dance, i generi e le mode vanno e vengono; noi continuiamo semplicemente a fare quello che abbiamo sempre fatto. La nostra regola d’oro è non cercare mai di individuare e seguire le mode, non cercare mai di provare a capire in anticipo cosa avrà successo e non far suonare mai un artista in cui non crediamo. Quello è un gioco sporco, e non finisce mai bene.”

“Io sono ossessivo: se mi piace una canzone non voglio solo sentirla, ma voglio far sì che tutti provino quello che mi fa provare. Penso che l’unica cosa che so fare sia trovare cose bellissime e farle vedere alla gente, tutto lì.”


Mampi Swift

Parlare in questi termini di quello che di base non è che un grosso edificio pieno di gente, musica e alcol può sembrare esagerato, ma l’entusiasmo di Reilly è contagioso e la qualità della programmazione del Fabric è qualcosa di unico nella scena londinese. L’attenzione per i dettagli e il rifiuto di seguire le mode è palese in tutto ciò che fa, compreso il fatto che, nel 2014, riescano a tenere in piedi un’etichetta discografica di successo basata soltanto sui CD (ve li ricordate?), venduti nel celebre formato di una scatola di sigari dipinta a mano.

Il Fabric ha aperto come risposta alla scena club della fine degli anni Novanta, dominata da nomi come Judge Jules, Lisa Lash e Seb Fontaine. È ancora aperto 15 anni dopo, un’isola in un mare fatto di Skrillex, Guetta e Avicii. E speriamo che possa rimanerlo a lungo, un’ex macelleria contro le macellerie musicali odierne.