Mar Mediterraneo – aprile 2011. Oltre 100 migranti tunisini imbarcati dal porto di Zarzis attraversano lo stretto di Sicilia in direzione Lampedusa.
Contrasto è il punto di riferimento per il fotogiornalismo in Italia. Da 30 anni rappresenta alcuni dei migliori fotografi e fotoreporter italiani ed esteri, oltre a diverse agenzie internazionali come la Magnum. Quella che state leggendo è la rubrica in collaborazione tra Contrasto e VICE Italia, in cui intervisteremo alcuni dei nostri fotogiornalisti italiani preferiti per farci raccontare le storie e le scelte dietro il loro lavoro . In questa puntata parliamo con Giulio Piscitelli (1981), fotografo napoletano che da anni si occupa di flussi migratori nel Mediterraneo.
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La prima volta che ho parlato con Giulio Piscitelli non c’era ancora stato alcun 13 novembre. Allora era appena tornato da Lesbo e si stava preparando per la sua tappa successiva, Calais, come parte del progetto a lungo termine che lo ha portato a documentare le migrazioni verso l’Europa. Con questo stesso progetto, From There to Here, nel 2012 ha vinto la borsa di studio della Magnum Foundation Emergency Fund. Per lui fotografare i migranti è “un modo per conoscere la realtà,” ed è proprio dopo gli attacchi di Parigi, in un momento in cui molti si sono affrettati a puntare il dito contro i profughi, che questo suo intento diventa ancora più significativo.
“Sicuramente in questa particolare e difficile situazione è ancora più importante descrivere le ripercussioni pratiche su migranti e rifugiati,” mi ha detto quando l’ho ricontattato qualche giorno fa. “E questo non solo ai confini, ma anche nelle comunità già presenti da anni in Europa, per capire come i nostri paesi decideranno di rispondere al cambiamento della società.” In questi anni infatti Giulio non si è occupato solo delle rotte migratorie via mare o via terra , ma anche dei centri di identificazione e delle realtà delle seconde generazioni. Inoltre ha realizzato reportage in Siria, Egitto, Afghanistan e Kosovo, senza mai perdere di vista la realtà della sua città, Napoli.
“Penso che la vera risposta al terrorismo si dia attraverso il dialogo interculturale e l’inclusione nel dibattito pubblico e politico,” ha aggiunto. “Le bombe non sconfiggeranno i terroristi, ma rinforzeranno il loro appiglio propagandistico sulle persone.”
Qui sotto è riportata la prima conversazione che abbiamo avuto, quando l’ho chiamato per parlare di migrazione, del potere delle immagini e del ruolo del fotogiornalista nel riportare l’attualità.
VICE: Come sei diventato fotografo?
Giulio Piscitelli: È successo per caso. Inizialmente ero più interessato alla grafica e alla pubblicità, e come writer fotografavo i miei pezzi. Ma era una cosa un po’ inconscia, finché nel 2008, finiti gli studi in sociologia, iniziai a seguire un amico appassionato di analogica che scattava per strada, e sempre per caso mi ritrovai a sfogliare un catalogo del World Press Photo.
Rimasi affascinato dai reportage, e dato che mi serviva un lavoro chiesi a un’agenzia di poter seguire l’attualità a Napoli, dalla politica alla crisi dei rifiuti. Col tempo ebbi qualche collaborazione con agenzie più grandi, per eventi come il terremoto dell’Aquila, e da lì ho cercato una strada più mia, anche legata all’elaborazione di un progetto fotografico non incentrato sulla news.
Quindi preferisci lavorare a progetti più aperti e di lungo periodo?
Diciamo che negli ultimi anni sto portando avanti questo lavoro sull’immigrazione, ma rimango comunque molto legato alle notizie di attualità e mi sono occupato anche di servizi sul breve periodo, come la guerra in Siria o la crisi in Egitto nel post Morsi. Ecco, il mio progetto sull’immigrazione è stato anche una scuola fotografica, e lo è tuttora.
Deserto del Sahara, confine tra Egitto e Libia – maggio 2014. Profughi eritrei in viaggio attraverso il deserto dopo essere stati salvati da una brigata locale.
In questo tuo progetto, From There to Here, hai seguito i vari contesti dell’immigrazione: il deserto del Sahara, Melilla, il viaggio dei migranti via mare o via terra, fino a Lampedusa e i CIE. Qual è stato il primo passo?
Mi sono avvicinato al tema dell’immigrazione fin da subito, perché scattando in strada nella mia città mi ritrovavo a ragionare su quello che avevo intorno. Per lavoro coprii i pogrom contro la comunità rom di Ponticelli e l’evacuazione della fabbrica Rognetta a Rosarno all’epoca degli scontri tra comunità migrante dei lavoratori stagionali e autoctoni calabresi. In quel momento non ragionavo ancora su un progetto sulle migrazioni: erano due anni che fotografavo e non guardavo ancora alla narrazione.
Nella presentazione di From There to Here spieghi però che tutto rimanda alla necessità di creare un corpus documentaristico del fenomeno migratorio, per descrivere la realtà e offrire un supporto alla memoria collettiva. Quando hai iniziato a riflettere sulla possibilità di creare una cosa del genere?
Nel 2011 mi sono spostato da Lampedusa in uno dei grossi campi profughi che si era creato alla frontiera tunisina per seguire l’arrivo di migliaia di persone in fuga dalla guerra in Libia. Grazie ad amici con cui ero partito ebbi anche la possibilità di raccontare gli sbarchi clandestini verso l’Italia, e tornato qui cominciai a ragionare sulla possibilità effettiva di un lavoro descrittivo di un fenomeno che stava per esplodere ulteriormente.
Mar Mediterraneo, a circa 200 km dalla costa italiana – giugno 2015. Durante un’operazione di salvataggio congiunta.
Dico ulteriormente perché il fenomeno dell’immigrazione è stato più volte trattato anche nel ventennio passato, coi lavori importantissimi come Go No Go di Ad van Denderen a fine anni Ottanta. Studiando, e cercando di pianificare—perché la base di un progetto è appunto la pianificazione—andai a cercare cosa c’era dietro l’attualità.
Per raccontare gli sbarchi non hai fotografato solo il prima e il dopo, ma anche il durante, e nel 2011 hai fatto il viaggio coi migranti dal porto tunisino di Zarzis verso le coste italiane.
Non mi fido molto dei media—quando si parlava dei contrabbandieri non mi fidavo, quindi quando mi è stata data la possibilità di parlare con uno smuggler sono stato molto curioso. Era un modo di conoscere direttamente quella realtà, vederla sotto un altro punto di vista, per capire. Io ho capito che quelli che mi hanno imbarcato sono sì criminali, ma criminali che sono frutto di una realtà specifica e rispondono a una necessità specifica: la necessità di migliaia di persone di viaggiare, dato che i governi non glielo permettono in maniera legale. Ecco, per arrivare a un ragionamento del genere ho fatto un’esperienza.
Tripoli, Libia – maggio 2014. Fauser, profuga somala, mostra la cicatrice di un colpo sparato dai trafficanti libici nel deserto del Sahara.
Quindi per te fotografare risponde soprattutto alla necessità di capire.
Per me la fotografia è in primis una scusa per poter andare in un posto: è un mezzo che mi permette di conoscere le cose personalmente, di essere lì dove accadono, di non farmele spiegare da altri.Non avrebbe senso andare a fare foto solo per raccontare una tragedia.
È per questo che parte delle tue foto dalla Siria del 2012 si concentrano non tanto sui combattimenti quanto sul contorno, dagli attivisti dei media center ai medici volontari? A guardare l’informazione che si fa oggi sulla Siria sembra si sia decisamente perso di vista il contesto.
In quel periodo era molto importante parlare non solo del fronte ma della realtà degli attivisti e dei medici. Per me era ovvio, perché ero lì ed era una delle prime cose che era necessario fare: c’erano pochissime immagini di quel tipo, e quello che andava oltre la notizia era in realtà la notizia stessa. Così, dato che non ero mai stato in una zona di guerra, prima di fiondarmi sul fronte mi concentrai sui civili.
Quando sono tornato ad Aleppo, qualche mese dopo, la situazione era molto cambiata: gli attivisti cominciavano ad avere minore importanza rispetto ai gruppi armati, dato anche l’inasprimento del conflitto. Prima c’era ancora la possibilità di trovare storie capaci di trasmettere il contorno dei bombardamenti, mentre ora è difficile andare oltre questo primo muro in cui la situazione è così critica ed è così difficile accedervi.
Nel corso degli anni ti sei ritrovato a fotografare diverse zone e diversi tipi di conflitto—Siria, Egitto, Ucraina—e di conseguenza anche scene di morti e feriti. Qual è il tuo approccio in situazioni del genere?
È una cosa che ho acquisito parlando con fotografi più bravi e importanti di me, che mi hanno suggerito di evitare la pornografia: è importante raccontare una cosa, ma è altrettanto importante non violare la vita delle persone, e in questo caso anche le morti. Per questo mi è capitato anche di decidere di non mettere in giro foto che avevo scattato. Penso che un passaggio importante sia trovare un compromesso tra la necessità di documentare quella situazione e il restituire dignità al soggetto che si sta raccontando. Non è facile.
Horgos, Serbia – settembre 2015. La polizia in tenuta antisommossa blocca i profughi in protesta sul lato serbo della frontiera. Nella foto, un padre siriano chiede a un poliziotto ungherese di lasciar passare la figlia.
Parlando della necessità di documentare, credi che il fotogiornalismo abbia (ancora) la capacità di influenzare la realtà? Per esempio dopo la sua diffusione della foto di Aylan Kurdi a settembre si è discusso molto del potere di una singola foto—anche se poi, nella pratica, questo potere non ha cambiato molto.
La foto di Aylan ha sicuramente avuto un impatto sulla popolazione. Il problema passa su un altro piano nel momento in cui si tratta di politica. È molto importante che la popolazione venga toccata, ma mi domando quanti Aylan ci vorranno perché vengano prese decisioni diverse in materia di migrazione. In generale direi che ci sono ancora dei lavori fotografici che possono avere un impatto, però forse quello sulle scelte politiche è minore rispetto a prima.
Secondo te i “limiti” odierni di questo impatto sono anche una questione di proliferazione delle immagini e del tipo di fruizione che ne fa il pubblico?
La velocità di fruizione dell’informazione influisce certamente: oggi le notizie vengono consumate in maniera bulimica. Bisogna anche dire che una notizia è importante a seconda dei media che la passano. Se il Time decide che è importantissimo parlare di immigrazione in questo momento, allora lo sarà. Se però non è nelle corde, rimarrà sempre un problema non da prima pagina. Lo è stato anche in passato, per la guerra in Vietnam—quelle foto sono state un pugno in faccia quando sono state pubblicate da Life, dal Time.
Presheva, Serbia – luglio 2015. Siriani durante le procedure di identificazione e schedatura nella città di Presheva, il primo punto di passaggio dalla Macedonia.
E dal punto di vista di chi produce queste immagini, dei fotogiornalisti, che responsabilità ci sono? Avere più immagini è meglio?
Io, in quanto fotogiornalista, sono incluso in questa baraonda internazionale. Penso che chiunque faccia il giornalista e abbia interesse a documentare questa situazione debba farlo, possibilmente con un minimo di etica. Non credo ci sia un limite di fotografi che possono fotografare una determinata tematica, nel senso che il fotogiornalismo vive sulla cresta dell’onda della notizia. Poi sta alla singola persona, una volta finita la notizia, decidere se andare oltre o fermarsi lì. Non mi sento comunque di criticare un collega che magari decide di fotografare gli sbarchi e poi passare a un’altra tematica. Perché è il suo lavoro. Io ho sentito la necessità umana di andare un po’ oltre, ma questo non significa che il mio lavoro abbia più valore di quello di un altro.
Lesbo, Grecia – ottobre 2015. Profughi in attesa di lasciare l’isola per continuare il loro viaggio.
Quali sono le tue prossime tappe?
Ho intenzione di proseguire il progetto sull’immigrazione, perciò a breve tornerò nei Balcani. E poi c’è il mio interesse per il Medio Oriente: vorrei andare nei campi profughi siriani al confine con il Libano. O magari tornare in Afghanistan, per fotografarlo in questa fase attuale; prima o poi vorrei andare anche in Palestina. Avevo in programma di trasferirmi in Egitto, ma purtroppo dopo il colpo di stato ho avuto delle difficoltà e ad oggi non credo ci siano le circostanze per lavorare come giornalista.
In generale ci dev’essere un qualcosa che mi porta sul posto e mi ci fa appassionare, mi fa decidere di approfondirlo e poi magari cominciare a ragionare su un progetto come è capitato con l’immigrazione. Insomma, come spesso succede seguirò il caso e ciò che la realtà circostante mi proporrà, e forse così deciderò di fermarmi da qualche parte.
Per vedere altre foto di Giulio, vai sul suo portfolio sul sito di Contrasto.
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