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Cosa succederebbe se tutti i cervelli in fuga tornassero in Italia?

Cosa succederebbe se i giovani che vivono all'estero dovessero tornare, e quelli in procinto di partire decidessero di restare per cercare fortuna in Italia? L'abbiamo chiesto a un esperto.
italiani estero
Grafica di SCUSA.

Se dovessimo fare una classifica dei temi sociali più discussi da giovani e commentatori negli ultimi anni, quello della fuga dei cervelli si guadagnerebbe sicuramente i primi posti. D'altra parte basta pensare alla cerchia allargata delle vostre amicizie per accorgervi che i conoscenti laureati e residenti all'estero non sono pochi, e che spesso se la stanno passando molto meglio di voi––almeno a giudicare dal loro profilo Facebook.

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Per "fuga dei cervelli", o brain drain, l'Enciclopedia Britannica definisce "l'abbandono di un paese a favore di un altro da parte di professionisti o persone con un alto livello di istruzione, generalmente in seguito all'offerta di condizioni migliori di paga o di vita." Scegliere l'estero, infatti, per molti vuol dire seguire ambizioni professionali in posti nei quali i propri studi possono trovare finalmente gratifiche adeguate, o quantomeno sufficienti per giustificare la lontananza da casa anche dal punto di vista economico: secondo il rapporto annuale dell'ISTAT, il reddito medio dei laureati che decidono di lavorare all'estero sarebbe decisamente più elevato, con uno stipendio annuo che arriverebbe a 700/800 euro circa in più rispetto a quello medio italiano.

Non può stupire, quindi, se questa tendenza non accenna a fermarsi: sempre secondo l'ISTAT, il trend della fuga dei cervelli sarebbe quasi raddoppiato rispetto allo studio del 2011: "Tremila dottori di ricerca del 2008 e 2010 (il 12,9 percento) vivono abitualmente all'estero" spiega l'istituto, con un dato "superiore di quasi sei punti a quello della precedente indagine (7 percento dei dottori di ricerca delle coorti 2004 e 2006)" e con valori nettamente sottostimati, visto che si prendono generalmente in esame soltanto gli italiani che si iscrivono al Registro dei Residenti all'Estero––cosa che non tutti fanno. Solo a Londra, stando a un dossier del centro studi IDOS, attualmente risiederebbero circa 250mila italiani, l'equivalente di una città come Verona. Se fosse italiana, la capitale inglese sarebbe la 13esima città del Paese per numero di abitanti.

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Guardare questi dati da lontano, insomma, è come veder comporsi sotto i propri occhi un affresco dal quale si staglia chiaramente la sagoma della parola "D-E-C-L-I-N-O". Eppure ogni volta che si parla dell'argomento "fuga dei cervelli" il dibattito assume immediatamente dinamiche ben precise, e vede tendenzialmente contrapporsi gli scettici e/o realisti, favorevoli a un'esperienza lontano da "un paese nel quale non è più possibile stare con orgoglio", e quelli che implorano i ragazzi di non abbandonare la patria e aiutarla a crescere perché abbiamo bisogno delle nostri menti migliori.

A questa contrapposizione, di solito, fanno da corredo retoriche che hanno dato vita a una copiosa letteratura. Così se per un verso basta cercare su Internet "fuga dei cervelli" per leggere MILIONI di testimonianze di vite esuli raccolte in libri, video e interviste sul come "ce l'hanno fatta", dall'altra non si contano le storie di "resistenza" in Italia e volenterose "operazioni rientro".

Proviamo però, per un attimo, a seguire solo uno dei due filoni, e a lavorare su uno scenario ipotetico. Cosa succederebbe, per esempio, se le invocazioni a restare in Italia, o a tornare dalle fughe, fossero davvero attese? Cosa accadrebbe se i giovani che vivono fuori dovessero tornare, e quelli in procinto di partire restare per cercare fortuna in Italia?

Per capire quali potrebbero essere gli scenari, e qual è la situazione attuale, ho sentito Alessandro Rosina, professore di Demografia e Statistica sociale dell'Università Cattolica di Milano, coordinatore del "Rapporto giovani" dell'Istituto G. Toniolo e autore di libri come Il paese che non cresce. Gli alibi di un paese immobile e Non è un paese per giovani.

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Italiani (e non) a Londra. Foto di Justinas Vosylius.

VICE: Il numero dei giovani laureati che sceglie di andare a vivere all'estero continua a crescere. Davvero il flusso in uscita è così inarrestabile?
Alessandro Rosina: Il fenomeno è effettivamente in continua crescita, e ha avuto un aumento ancora più rilevante negli ultimi anni con l'inasprirsi della crisi e l'aumento della disoccupazione giovanile. L'altro dato interessante, però, è che quasi il 50 percento degli under 30 intervistati da una ricerca delRapporto Giovani afferma di valutare con interesse la possibilità di andare all'estero per studio o per lavoro. Il che è un dato molto consistente, se paragonato ad altri che hanno il grosso limite di basarsi sul numero residenti e delle richieste di residenza di italiani all'estero.

Tenendo conto anche di questo aspetto, comunque, le ricerche ci danno un dato piuttosto inesorabile: se un paese crea pochi spazi per le nuove generazioni, si restringono le opportunità e a quel punto per un giovane non restano che due opzioni––rimanere in Italia e rivedere al ribasso le proprie ambizioni, oppure andare all'estero.

Quali sono le cause principali di questo flusso?
Di certo non si può non registrare l'atavica assenza di politiche attive nel mercato del lavoro per aiutare i più giovani, la carenza di investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione, settori nei quali il nuovo capitale umano, appena formato, può essere maggiormente valorizzato. O ancora la mancanza di supporto all'autonomia, che aiuterebbe i giovani a diventare più indipendenti nel mercato del lavoro.

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Ma più in generale, è sbagliato insistere sulla retorica della fuga: i millennial sono anche i nativi digitali per definizione, quindi quando si confrontano con le opportunità con l'estero non fanno come le generazioni passate. La loro finestra è il mondo, accedono a internet e si confrontano coi loro coetani e le opportunità globali. Il flusso in uscita, quindi, è piuttosto consistente anche negli altri paesi.

Ci sono comunque delle tipicità italiane rispetto agli altri paesi?
La disponibilità a spostarsi per fare esperienza internazionale è trasversale. In Italia, però, abbiamo due peculiarità: la prima è che le opportunità si stanno restringendo a ritmi ancora più veloci, e che quindi il gap tra le opportunità offerte in Italia e quelle dell'estero si è allargato. La seconda è la riduzione del flusso di entrata: il tema vero infatti non è tanto quello della fuga, ma quello della circolazione.

Cioè gli italiani vanno all'estero, ma dall'estero in pochi vengono a studiare o lavorare in Italia?
Esatto. Anche i giovani francesi o tedeschi se ne vanno all'estero, solo che a fronte del numero di quelli che escono, ce ne sono altrettanti che tornano o che vengono attratti da fuori. Qui in Italia no, quindi il bilancio tra uscite ed entrate negli altri paesi è positivo, mentre il nostro diventa negativo. Il saldo economico generale così peggiora ulteriormente, perché essendo sempre più i giovani––e tra questi, i laureati––che se ne vanno, formiamo capitale umano che poi perdiamo e regaliamo ad altri contesti concorrenti. Alla fine diventa una circolazione inceppata.

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Secondo lei è possibile trattenere tutti? Se penso al dibattito classico sul tema, c'è sempre chi implora il ritorno in patria, o invita i giovani a non partire per cercare di "ricostruire il Paese." Ma cosa succederebbe se un giorno tutti questi ragazzi dicessero "È vero: viva l'Italia, sticazzi Brick Lane" e tornassero in massa?
Questa è dura da contabilizzare, perché è difficile sapere cosa sarebbe successo se quel giovane che è andato all'estero, e che magari ha trovato un lavoro ben remunerato, sarebbe rimasto in Italia. Ipoteticamente, se fosse rimasto da disoccupato, sarebbe stato semplicemente un costo.

In generale, comunque, noi non dovremmo assolutamente obbligare i giovani a rimanere. È contro qualsiasi processo naturale: i giovani devono poter viaggiare liberamente, fare esperienza, confrontarsi con realtà diverse. I più grandi alleati per produrre un miglioramento del sistema non sono i giovani che rimangono, lo sono ancora di più quelli che tornano. Però devono tornare sapendo che l'Italia attualmente non garantisce loro le condizioni adeguate per dare il meglio, e che è uno sforzo aggiuntivo che consentirà al paese di crescere ulterioremente e sarà necessario per rompere questa spirale negativa nella quale siamo finiti.

Funziona così: se adesso ci sono poche opportunità per i giovani, consequenzialmente i giovani finiranno con l'essere sottoutilizzati e andare a lavorare altrove, il paese farà quindi fatica a cambiare dal punto di vista culturale e anagrafico, le possibilità per i nuovi giovani si restringeranno ancora di più, a quel punto si andrà ulteriormente verso il declino, e così via. Questa spirale si può rompere solo grazie a una generazione che produce cambiamento. Ossia: c'è bisogno di giovani che diventano il carburante essenziale all'interno del sistema, perché la macchina torni a camminare.

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Quindi qualcuno dovrà sacrificarsi per attivare un circolo virtuoso?
Ciascuno si deve attivare per creare qualche spazio in più. Se ci si riesce, lo spazio progressivamente si allargherà e chi arriverà dopo si troverà uno spazio più grande al quale aggiungere ulteriore spazio. Se noi guardiamo alla storia, ci sono generazioni che hanno subito il cambiamento e altre che lo hanno generato e sono diventate protagoniste di questi processi. Non esiste una generazione partita sapendo di avere successo: ci sono generazioni che hanno provato, e altre che non c'hanno provato, e tra quelle che c'hanno provato c'è chi c'è riuscito e chi no.

Alla fine però parliamo sempre di un paese con una disoccupazione giovanile che secondo l'OCSE sarebbe a "livelli inquietanti", un mercato del lavoro non scalabile, un indice demografico desolante, una questione meridionale irrisolta. Cioè, se io lavorassi all'estero, e volessi invertire questa tendenza sacrificandomi e tornando in Italia, come farei ad attivare questo meccanismo virtuoso se quasi sicuramente non troverò il mio spazio?
I giovani non devono pensare che qualcuno creerà loro lo spazio, devono farlo da soli anche in un contesto che può essere inizialmente limitante. Finora l'abbiamo dimostrato poco: io penso che i millennial abbiano tutte le caratteristiche per diventare una generazione decisiva, che può lasciare la propria impronta nella storia del mondo. Certamente si trovano in una posizione di maggiore difficoltà rispetto a quello che potevano pensare, ed è tanto più vero in un paese come il nostro.

Se fallirà, la generazione dei millennial italiani non potrà dare la colpa a nessuno, per quante difficoltà possano esserci. È un aspetto puramente demografico: le nuove generazioni prima o poi devono per forza prendere il testimone da quelle precedenti. È vero che quelli prima di te possono avertelo dato in ritardo, e quindi––nella competizione con agli altri paesi––rischi di partire più tardi e in condizioni peggiori. Però è lì che se hai valore riesci a dimostrare di poter recuperare. L'unico modo è provarci.

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Questo post fa parte di Macro, la nostra serie su economia, lavoro e finanza personale in collaborazione con Hello bank!