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Internet ha cambiato il modo in cui vediamo la guerra

In occasione di una nuova mostra sulla fotografia di guerra alla Tate Modern, ho parlato con Simon Baker, il curatore, di come internet ha cambiato il nostro modo di raccontare, osservare e ricordare la guerra.

La capacità di osservare e di chiedersi cosa vuol dire davvero ricordare qualcosa non è stata esattamente al centro delle commemorazioni dello scoppio della prima guerra mondiale di quest'anno. Alla Tate Modern hanno pensato di ristabilire un po' d'ordine con la mostra  ​Conflict, Time, Photography.

Le fotografie saranno suddivise in base alla loro distanza temporale dalla fine del conflitto che documentano. Così facendo, il tema centrale della mostra diventa il libero fluire del tempo. Tra i fotografi che partecipano al progetto ci sono Don McCullin, Roger Fenton, Shomei Tomatsu, Simon Norfolk, Chloe Dewe Mathews, Kikuji Kawada, e molti altri. Per saperne di più ho parlato con Simon Baker, curatore fotografico della Tate Modern.

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VICE: Com'è nata la mostra? È stata pensata per il centenario della prima guerra mondiale?
Simon Baker: In realtà no. Che il centenario della Grande Guerra cadesse proprio quest'anno è stata una coincidenza, perché in origine non pensavamo di fare una mostra al riguardo. Ci sembrava solo un buon momento. L'idea ci è venuta pensando alle similitudini tra Mattatoio n.5 [il romanzo di Kurt Vonnegut] e le difficoltà connesse al ricordare.​​

All'inizio ci siamo posti questa domanda: come mai 15-25 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale circolavano molte foto di quel conflitto? Mentre tentavamo di rispondere a questa domanda ci siamo accorti che oggi ci sono in giro un sacco di belle foto della prima Guerra Mondiale.

Così abbiamo cercato di mettere insieme tutte queste prospettive e pensare a cosa succederebbe se accostassimo fra loro foto scattate nello stesso periodo ma che sono diverse per i soggetti e per i conflitti che mostrano.

© Don McCullin

Tra le foto esposte nella mostra c'è anche il famoso scatto di Don McCullin che ritrae un marine americano traumatizzato. Come si differenziano queste opere dai canoni della fotografia di guerra tradizionale?
Volevamo che questa mostra si staccasse dal fotogiornalismo. La gente sa bene cos'è il giornalismo di guerra e noi volevamo che questa mostra fosse qualcosa di diverso. Volevamo che raccontasse le possibili alternative al giornalismo di guerra: gli effetti della guerra sul lungo periodo, il modo in cui cambia le persone. Ma mostra anche come alcuni artisti e fotografi interpretano il soggetto nel tempo, e si fanno domande su come le persone ricordano e riflettono sugli eventi.

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C'è un bel documentario in cui Don spiega perché quella foto oggi non potrebbe più essere scattata. Secondo lui, è diventata così importante solo col tempo, perché quando l'ha scattata era solo una delle tante fotografie di guerra dell'epoca. Adesso sarebbe impossibile scattare una foto di questo genere, perché l'esercito americano non permetterebbe mai che venisse pubblicata la foto di un soldato traumatizzato.

Trovi che, nel campo della fotografia, la distinzione tra giornalisti e artisti sia troppo netta? Per esempio, è difficile inserire McCullin in una di queste categorie...
Nella mostra ci sono tre foto di Don. All'inizio, c'è quella del marine traumatizzato. Poi c'è il suo primo incarico all'estero, 16 anni dopo, quando è dovuto andare a Berlino negli anni Sessanta. Sembra che la guerra sia ancora in corso, anche se sono passati ben 16 anni da quando è finita. E, alla fine della mostra, c'è un'altra sua opera. È una fotografia della Somme, scattata nel 2000, che è molto poetica e rievoca molti ricordi. Nei lavori di Don si riassume un po' tutta la mostra, perché sono tre modi diversi di pensare la guerra.

Inoltre gli scatti su Berlino sono molto importanti perché mostrano come un conflitto non finisca quando viene firmata la pace, ma continui a influenzare le persone per un sacco di tempo. Molte delle opere in mostra ritraggono paesaggi e abitanti di posti in cui è successo qualcosa che ha ancora un'influenza su di loro, che siano le radiazioni a Hiroshima e Nagasaki o la divisione di una città o la devastazione totale del paesaggio. Queste sono le conseguenze a lungo termine della guerra, quello che questa mostra vuole raccontare.

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2003. © Simon Norfolk

La mostra cade non solo in occasione del centenario della prima guerra mondiale, ma anche nell'anno in cui le truppe britanniche che si stanno ritirando dall'Afghanistan. A questo avevi pensato?
Alcune delle prime fotografie in mostra sono quelle di Roger Fenton della guerra in Crimea, negli anni Cinquanta dell'Ottocento. E adesso, all'improvviso, la Crimea è tornata al centro dell'attenzione. Alla fine della mostra c'è una serie di foto di Stephen Shore scattate in Ucraina, oggi teatro di un conflitto. Queste cose seguono andamenti circolari. Le fotografie di Simon Norfolk scattate in Afghanistan risalgono al 2001, ma in realtà ritraggono le tracce di conflitti precedenti. Questa circolarità si può ritrovare anche in una singola opera.

© Chloe Dewe Mathews

Molte fotografie sono astratte e possono essere osservate senza sapere che hanno un legame con la guerra. Penso, ad esempio, alle foto di Chlow Dewe Mathews, scattate sui luoghi dove i disertori della prima guerra mondiale venivano fucilati all'alba. Nonostante sembrino paesaggi, si riesce a immaginare le scene di cui sono stati teatro.
È interessante il fatto che col passare del tempo ci sono sempre meno cose banali da fotografare. Kikuji Kawada, autore di The Map (1965), uno dei libri fotografici giapponesi più famosi del ventesimo secolo, è andato a Hiroshima insieme al fotografo e documentarista Ken Domon. Mentre Domon si guardava in giro per trovare soggetti da fotografare, Kawada ha notato alcune macchie sul soffitto di una cantina nell'ipocentro, ossia il punto in cui la bomba ha toccato il suolo. Ha iniziato ad avere degli incubi in cui queste macchie si diffondevano, e le ha fotografate più volte.

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Man mano che gli anni passano, le fotografie di Hiroshima e Nagasaki diventano molto più dure e cariche di rabbia e di significato. In 11:02 Nagasaki di Shomei Tomatsu ci sono foto che ritraggono delle cicatrici cheloidi, delle bottiglie sciolte, delle ossa fuse in un elmetto e il celebre orologio che si è fermato alle 11:02, il momento in cui è esplosa la bomba. Gli effetti delle radiazioni durano così tanto che ancora negli anni Settanta un documentarista poteva andare a Nagasaki e trovarsi di fronte a persone che ogni giorno dovevano vivere facendo i conti con le conseguenze della bomba.

Questa è la chiave della mostra. Il concetto di guerra, il concetto di fine della guerra e poi l'interminabile eco delle conseguenze. Gran parte delle persone crede che la fotografia si basi sul momento, ma in realtà i fotografi sono spesso impegnati in ricerche e progetti a lungo termine che poi diventeranno libri fotografici, non in servizi di cinque pagine per le riviste.

Hai parlato della carica di rabbia nelle opere su Hiroshima e Nagasaki. Molte persone collegano la rabbia alla di guerra. Quanta rabbia c'è in questa mostra?
Non vogliamo far passare il messaggio che non bisogna esprimere un giudizio sugli eventi, ma facciamo un passo indietro e presentiamo il punto di vista dell'artista. Quando un artista ha una visione molto forte della realtà, noi la presentiamo in termini più appropriati.

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Siamo partiti da Kurt Vonnegut e Mattatoio n.5, un libro feroce ma al tempo stesso divertente in cui la rabbia è rappresentata in modo molto interessante. La caratteristica più importante di quel libro è il fatto che Vonnegut non riuscisse a scriverlo. Gli sono voluti 24 anni, e ha dichiarato di aver scritto 5000 pagine e di averle gettate via. L'introduzione è molto interessante, perché parla dei suoi tentativi—spesso inutili—di tornare indietro e ricordare, e penso che la rabbia, come quella espressa da Vonnegut, nasca in realtà da un sentimento di dolorosa consapevolezza.

Luc Delahaye, Bombardamenti americani su bersagli talebani. 2001.

Cosa ne pensi delle commemorazioni della prima guerra mondiale di quest'anno?
Come molte cose del genere, penso dia un'idea dello stato attuale della memoria collettiva e di come funziona. Ci sono state molte commemorazioni di storie individuali, attraverso la genealogia e il racconto di cosa è successo a determinate persone che combattevano per il proprio paese. Questo tipo di commemorazioni, che ha molto a che fare con internet, con la rapidità nella condivisione delle informazioni e con il modo in cui la gente fa ricerca oggi, non è tanto vicino al vero ricordo, quanto più a una sorta di ricerca infinita di dettagli e informazioni.

Noi pensiamo che la fotografia agisca in modo diverso, che sia più aperta e possa trattare i soggetti in modo più emotivo e più riflessivo. Volevamo analizzare come funziona la memoria: in che modo ricordiamo? Secondo Vonnegut, le persone non dovrebbero mai guardarsi indietro. La prima cosa che si nota, all'ingresso della mostra, è la sua frase, "Le persone non dovrebbero mai guardarsi indietro." Dice che se lo si fa si rischia di rimanere paralizzati, "come una statua di sale," ma in realtà il suo libro è un capolavoro. È tutt'altro che paralizzato; è molto innovativo e all'avanguardia.

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Io credo che quell'approccio sperimentale e artistico sia presente nella tua mostra, perché guarda la guerra da prospettive molto diverse.
Cerchiamo di mostrare immagini diverse dello stesso tipo di posti. Molte fra le prime fotografie della prima guerra mondiale sono foto turistiche dei campi di battaglia, un modo molto strano di mostrare la guerra. Quando pensiamo alla seconda guerra mondiale, pensiamo soprattutto a Hiroshima e Nagasaki, e poi a Berlino. Nella mostra ci sono pochissime fotografie di cadaveri o di soldati. Invece ci sono molte fotografie che mostrano gli effetti della guerra sulle popolazioni civili e sui paesaggi.

Avete fatto questa scelta perché pensate che abbiamo già visto un sacco di cadaveri?
Più che altro perché ci interessava esporre artisti e fotografi che hanno una visione a lungo termine e fotografano riflettendo. Avremmo potuto fare una mostra di giornalismo fotografico, con tutti i conflitti raccontati attraverso immagini più esplicite, e sarebbe stata altrettanto interessante. Ma non è questo che ci interessava. Ci interessava cosa significa ricordare, e se sia possibile farlo con le fotografie.

Grazie Simon. 

Segui Oscar Rickett su Twitter: ​@oscarrickettnow