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Con l'attacco di Tunisi, la stampa italiana si è superata un'altra volta

In Italia, l'informazione su una vicenda delicata come l'attacco al museo di Bardo di Tunisi si è trasformata in un'occasione per diffondere la psicosi. E tornare a parlare di intervento militare in Libia, ovviamente.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Nel momento in cui scrivo, le agenzie di stampa internazionali stanno battendo la notizia che l'Isis ha rivendicato l'attentato al museo del Bardo di Tunisi, in cui sono state uccise almeno 20 persone, inclusi alcuni turisti italiani (quattro, secondo le ultime stime).

Mentre si aspettano ulteriori conferme sulla veridicità di questa rivendicazione, che va in controtendenza rispetto alle dichiarazioni ufficiali del governo tunisino e proviene da una fonte come il SITE, già da ieri la stampa italiana aveva individuato i responsabili—e non certo per meriti giornalistici, o particolari capacità investigative.

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Piuttosto, la "scoperta" italiana va inserita nel florido sottogenere giornalistico di cui ho parlato la settimana scorsa, ossia il rilancio di notizie non verificate e sensazionalistiche sull'Isis. Sebbene la vicenda dell'assalto al museo abbia ancora molti punti oscuri e non chiariti, sulla stampa italiana la cautela che imporrebbe un avvenimento del genere è immediatamente diventata un dettaglio secondario da accantonare nella rincorsa al titolo più truce e catastrofico possibile.

La riprova la si è avuta a poche ore dall'attacco, quando la matrice era già stata decisa senza che vi fosse il minimo riscontro, per poi essere data per assodata sulle prime pagine di stamattina. Se all'estero i titoli erano questi, in Italia la cosa ha coinvolto davvero tutti, a partire da pubblicazioni come Il Fatto Quotidiano ("Isis, strage a Tunisi. Primo sangue italiano") e La Stampa ("Tunisi, i primi italiani uccisi dall'Isis"), per arrivare a quelle più sguaiate come Il Tempo ("Ora Isis uccide gli italiani").

Screenshot dell'homepage di

Libero di ieri pomeriggio.

Sempre ieri pomeriggio—mentre circolava un'intervista a Sandra Milo e apparivano voci su "piste sarde" e su un membro del commando "che parlava italiano"—anche il "ministro degli esteri" dell'Unione Europea Federica Mogherini aveva parlato apertamente di Isis. Solo in serata il comunicato è stato modificato riferendosi a un non meglio specificato "gruppo di terroristi."

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Ed è proprio sulla questione della rivendicazione dell'assalto, tuttora da verificare, che si è fatta un'enorme confusione. Tra le ipotesi avanzate da giornalisti e analisti, si evidenziava come l'attacco potesse essere una "rappresaglia di qualche fazione jihadista locale per le 'ratissage', vale a dire le operazioni di rastrellamento che l'esercito compie regolarmente nelle aree fuori dalle città per tenere sotto controllo gli estremisti."

Sul Corriere della Sera e persino sul Giornale—in controtendenza con il tono dei titoli in prima pagina—si è cercato di capire a quale organizzazione potessero appartenere gli attentatori, facendo i nomi del gruppo jihadista Ansar al-sharia e quello di Okba Ibn Nafaa, una " fazione legata ad Al Qaeda nella terra del Maghreb e che ha firmato molti attacchi partendo dai suoi rifugi sul Jebel Chambi, area di Kasserine, nell'ovest della Tunisia."

Per quanto riguarda l'Isis, ieri le congratulazioni via Twitter di alcuni sostenitori dello Stato Islamico hanno trovato un enorme risalto sulla stampa italiana, che a blitz ancora in corso non ci ha pensato due volte a stabilire un collegamento diretto. I tweet, tuttavia, non equivalevano né ad un'assunzione di responsabilità, né—come scrive il ricercatore Lorenzo Declich su Limes—significano che "all'attentato corrisponda l'inizio di una serie di operazioni preparate a tavolino che prendano di mira in particolare la Tunisia," un paese dove oggettivamente esiste il problema del "terrorismo di ritorno" e che rimane particolarmente vulnerabile ad attacchi di questo tipo per ragioni politiche ed economiche.

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Tunisia supplies the largest number of foreign fighters to join IS's ranks, w/ some are now said to have returned: — Güney Yıldız (@guneyyildiz)March 19, 2015

Il saltare a conclusioni affrettate, cavalcando in maniera spudorata l'onda dell'emotività, ha comunque comportato effetti più o meno nefasti. Il primo è la rimozione della complessità dello scenario tunisino, che viene così schiacciato tra le due opposte narrazioni di "faro della Rivoluzione" o "ricettacolo di jihadisti e terroristi dell'Isis" pronti ad attaccarci sul suolo.

Il secondo, appunto, riguarda direttamente lo scenario italiano. Oltre all'incompetenza e alla psicosi, l'utilizzo di certi titoli e certe argomentazioni avrebbe anche un obiettivo ben preciso: quello di creare un clima mediatico favorevole al "rinnovato protagonismo" dell'Italia sul Mediterraneo—ossia ad un intervento militare in Libia.

La prima pagine del Giornale di oggi.

Dopo il fermento di metà febbraio, quando una guerra in Libia sembrava praticamente già in piedi, la vicenda era stata declassata a "Intervistare Gianluca Buonanno che si fa i selfie in Libia." Qualche giorno fa, tuttavia, Matteo Renzi era tornato sull'argomento, dicendo esplicitamente che la priorità della comunità internazionale è quella di "intervenire in Libia prima che le milizie dell'Isis occupino in modo sistematico non solo piccoli e sporadici luoghi ma una parte del Paese."

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L'articolo più incredibile—o esplicativo: dipende da come lo si guarda—sulla vicenda dell'attacco al museo Bardo non viene da personaggi del calibro di Magdi Allam, ma dalla direttrice dell' Huffington Post . In un editoriale che assomiglia più a una velina del Ministero della Guerra, Lucia Annunziata descrive "l'accelerazione di un intervento in Libia" come "una conclusione intuitiva, un passo logico inevitabile."

L'unico modo di aiutare i tunisini, continua l'articolo, è "proprio quello di 'stabilizzare' la Libia, arrivare cioè a un intervento che permetta di fermare il caos di quel paese, evitando che si allarghi il potere dell'Isis anche in questa parte della costa mediterranea." La conclusione è netta: "l'Italia è alla vigilia di un nuovo, gravoso, impegno. E a questo punto, se ci si arriva, ne varrà la pena."

In realtà, nessuno capisce perché dovrebbe "valer la pena" imbarcarsi in una guerra che con ogni probabilità avrebbe degli esiti catastrofici.

Ma è facile che queste considerazioni vengano sovrastate dal rumore sempre più crescente dei tamburi di guerra, e sommerso dal rumore di fondo delle notizie trasmesse senza verifica. Del resto, quando si è in uno stato di guerra non si può perdere tempo con l'amena pratica del giornalismo.

Segui Leonardo su Twitter: @captblicero