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A8N6: Il sesto annuale di narrativa

Il poeta

"Si ripeteva che avrebbe scritto, ma non lo faceva. Lavorava in maniera irregolare, alternando impeti creativi a lunghi e irrequieti periodi di inattività."

Illustrazioni di Sammy Harkham
Traduzione di Alice Rossi

Il poeta e sua moglie erano giovani, e si erano appena sposati.

Avevano un appartamento vicino a un alimentari e all’ufficio postale. Il poeta si spostava quasi sempre a piedi. Il primo piano del loro edificio era di legno, tinteggiato in marrone, mentre il secondo era in finto stucco. Affittare un appartamento al secondo piano costava 100 dollari al mese in più. Era meno rumoroso, quello il motivo.

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Così aveva detto la signora dell’agenzia immobiliare, Sopra di voi non c’è nessuno.

Avevano preso quello al primo piano. Non avevano molti soldi, all’epoca.

Il poeta era una penna promettente. Secondo alcuni poeti affermati, nei suoi lavori c’era del potenziale. Aveva partecipato a un concorso, e pur non avendo vinto premi era stato incluso dai giudici in una lista di nomi da tenere sott’occhio. Uno dei suoi componimenti era anche stato pubblicato in una rivista letteraria, e il direttore di un’altra rivista aveva letto sei delle sue nuove poesie, e pur non avendole accettate, in fondo alla lettera di rifiuto aveva scritto: ritenta. La moglie del poeta aveva un buon impiego, in un bell’ufficio che pagava l’assicurazione a tutta la famiglia. Anche il poeta aveva un lavoro, oltre a quello di poeta. Faceva il commesso in un negozio di prodotti all’ingrosso, sistemava gli scaffali. Era un’attività umile e ripetitiva, che pagava poco e non offriva altri extra all’infuori di un piccolo sconto sulla cancelleria.

Quando nacque il bambino, il poeta rimase a casa a badargli. L’asilo nido, avevano scoperto, richiedeva troppo denaro. Molto più di quello che il poeta guadagnava tra il negozio e le poesie. La scelta era stata semplice.

Crescere il bambino non era per niente facile. Il poeta raccontava agli amici che si trattava del lavoro più difficile che avesse mai fatto, ma anche il migliore, migliore di ogni altro. Rispondeva sempre così. A chiunque gli chiedesse come andava, il poeta consegnava quelle parole preconfezionate. Non aveva nemmeno bisogno di pensarci.

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Ma come tante delle cose che ripeteva, ogni volta quella frase suonava un po’ meno vera. Il poeta aveva un’amica con un bambino piccolo, anche lei genitore a tempo pieno. Viveva lontano, ma quando avevano tempo si scrivevano e a volte parlavano al telefono. Anche se non si vedevano da anni, il poeta la sentiva vicina. Con lei gli veniva più facile essere onesto, specialmente quando le loro conversazioni si facevano più lunghe. Il figlio dell’amica era più grande del suo di un paio d’anni, perciò il poeta ascoltava sempre con attenzione le storie che gli raccontava. Quella donna veniva dal suo futuro, riferendogli informazioni dettagliate dalla vita di lì. Perciò, quando lei gli chiese come andasse, lui non rispose con le solite parole. Non l’avrebbe mai fatto. La risposta del poeta, quando arrivò, fu esitante, confusa. È strano come funzioni il tempo ora, le disse. Il bambino influenza qualsiasi cosa. Persino il mio senso del tempo, sai. A volte le giornate volano in un istante, ma da un altro punto di vista, forse più ampio, tutto sembra durare di più. Ha un senso quello che dico? No, sapeva che non ne aveva. Si faceva quella domanda solo quando era ben consapevole che la risposta sarebbe stata negativa. Mi spiace, disse, non riesco a spiegarmi.

Qualche giorno dopo, o forse anche settimane—chi poteva dirlo, ormai—il poeta si ritrovò nuovamente a parlare con l’amica. Era l’ora del riposino del piccolo. Il figlio di lei era alla scuola materna. Ho pensato alle mie parole dell’altra volta, iniziò il poeta. Mi ricordo, rispose lei. A volte, riprese il poeta, non so cosa faccio dei giorni o delle settimane. Non so dirti cosa ho fatto ieri. E se racconto a mia moglie un aneddoto a proposito del bambino, mi sforzo, cerco di ricordarmi il giorno, ma a volte non ci riesco, dico di averlo dimenticato e mi scuso. Non importa il quando, aggiungo. Perché riflettendoci su, disse il poeta all’amica, sembra sia passato un tempo lunghissimo. Fece una pausa ripensando a ciò che aveva detto. Non so se ora mi sono spiegato.

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Ma l’amica del poeta aveva capito. C’è una mia amica, disse, che una volta ha catturato perfettamente ciò che stai cercando di dire. Mi aveva chiesto come stesse andando a casa, proprio come ho fatto con te. E come te, avevo balbettato qualcosa senza pensarci. Annuendo, lei aveva risposto, I giorni sono lunghi, ma i mesi sono corti.

Il poeta rifletté per qualche secondo su quell’affermazione, come quando si prova una camicia: bisogna guardarsi allo specchio, magari girarsi un po’. Poi decise che gli piaceva. Le parole dell’amica della sua amica erano vere. Perfette. Se le ripeté, ascoltandone il suono. È proprio così, le disse. I giorni sono lunghi. E i mesi brevissimi. Era sempre impressionato dalla capacità di alcune persone di condensare concetti del genere senza perdere di complessità. C’era della bellezza, dentro. Gli epigrammi—gli sembrava fosse quello il termine giusto, anche se spesso lo confondeva con le epigrafi—erano come sculture. Voleva girarci intorno, ammirandole da ogni possibile angolazione.

Il bambino era una meraviglia. Alla nascita, le braccia erano la cosa più fastidiosa, perfettamente capaci di colpirgli la testa come di graffiargli la guancia. Era come se le sue mani fossero messe in funzione da una mente altrui. Una volta, il poeta lo teneva su di sé. Stava appoggiato al muro col figlio sulle spalle, quando questo prese quasi alla cieca a toccare un interruttore. Qualche settimana dopo il piccolo puntò il dito contro lo stesso interruttore e lo azionò. Adorava le piccole cose, come osservare uno scarabeo procedere lentamente sulla zanzariera o tenere in mano il suo biberon senza lasciarselo sfuggire. Il poeta era sbalordito dalla sua volontà, quella determinazione a muoversi e, col tempo, a tirarsi su per intere rampe di scale mentre lui lo seguiva, per proteggerlo in caso di scivoloni.

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Gli veniva facile perdersi nei capricci del bambino. Camminavano insieme a gattoni e giocavano. Il piccolo si spostava tra le sedie per poi chinare la testa e sbirciare tra le gambe, in cerca del poeta. Questi lo salutava e chiamava il suo nome, e quando faceva per avvicinarsi, il bambino riprendeva a camminare, e intanto rideva. Aveva la risata di un genio del male.

Al poeta piaceva osservare le cose da terra, cose come la parte inferiore dei tavoli o le lunghe ombre che dalla strada ondulavano sul soffitto. Dal pavimento, sosteneva, persino una porta sembra fantastica.

Si ripeteva che avrebbe scritto, ma non lo faceva. Lavorava in maniera irregolare, alternando impeti creativi a lunghi e irrequieti periodi di inattività. In uno di quegli impeti aveva scritto una lunga poesia su Dubai. Non c’era mai stato, ma una notte alla TV aveva guardato per un po’ un documentario ed era rimasto affascinato da quel posto. A catturare la sua attenzione erano state soprattutto le centinaia di isole artificiali che, viste dall’alto, sembravano una mappa del mondo. In un centro commerciale, la gente sciava su piste al chiuso e un negozio vendeva Ferrari. Non magliette, portachiavi e giocattoli, aveva detto il poeta alla moglie. Le macchine, quelle vere. Nella sua immaginazione Dubai era un gigantesco box, di quelli per bambini. I ricchi stavano plasmando interi parchi divertimenti dalla sabbia. Il poeta cercava equivalenti, ma gli venivano in mente solo i film sul futuro in cui uomini e donne sono governati da robot. Ecco cosa sembrava Dubai: un posto per robot. Il profilo della città era in continua evoluzione, frastagliato, futuristico. La maggior parte degli edifici era ancora in costruzione, con gru in movimento e operai al lavoro giorno e notte. Nelle ore di buio, lampade a vapori di mercurio illuminavano i cantieri—le fredde luci bianche di un altro giorno artificiale.

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La poesia era lunga, ma non aveva avuto difficoltà a scriverla, né c’erano state grosse revisioni. È come se una navetta spaziale fosse atterrata sulla mia scrivania, spiegava agli amici. Aveva sottoposto il testo finale alla moglie e a pochi altri, persone che gli volevano bene e della cui opinione si fidava. Sapete, diceva loro, Kafka ha scritto America senza mai esserci stato. Non mi paragonerei mai a lui, ma mi piace l’idea di scrivere di un qualche posto senza averlo visto.

I lettori avevano apprezzato la poesia, o almeno avevano dato a intendere fosse così, ma erano passate settimane, e poi mesi, senza che il poeta scrivesse qualcosa di nuovo. Presto i versi su Dubai gli sembrarono vecchi, il prodotto di un altro sé. In più, nessuno sembrava interessato a pubblicare quella stupida cosa. Era troppo lunga, aveva scoperto, perché la maggior parte delle riviste la prendesse anche solo in considerazione.

Il poeta si disse che avrebbe iniziato a scrivere recensioni per rimanere quantomeno aggiornato, ma anche in quel caso i suoi rimasero solo propositi. Riuscì tuttavia ad attirare l’attenzione di un redattore con la proposta di un saggio su una vecchia rivista di satira, una pubblicazione uscita per la prima volta nel 1957 e destinata, come molta altra satira, a chiudere dopo soli 11 numeri, nel 1958. La pubblicazione era rimasta a lungo dimenticata, ma presto ci sarebbe stata una ristampa in un elegante cofanetto a due volumi. Il poeta voleva recensirlo, o almeno usarlo come piattaforma per esprimere un concetto che gli occupava la mente, anche se non in maniera continuativa, da un periodo di tempo che aveva valutato intorno ai dieci anni. Non sapeva granché della rivista, ma considerava la satira uno dei pochi, pochissimi argomenti che conosceva meglio di chiunque, o quasi. Gli piaceva quando la satira si spacciava per qualcos’altro. Per lui, The Report from Iron Mountain era il non plus ultra, proprio per il modo in cui fingeva di essere un rapporto segreto stilato da un gruppo di studio semigovernativo, e tutto questo senza il bisogno di gomitate e occhiolini.

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Il saggio del poeta, così come lui lo immaginava, avrebbe suggerito che ciò che chiamiamo satira non è affatto satira, ma semplice umorismo consegnato a un pubblico pronto a ridere. The Onion, The Daily Show with John Stewart e The Colbert Report, per quanto divertenti possano essere prodotti del genere, attirano un destinatario che sa esattamente cosa avrà. Senza considerare che il pubblico è raramente, se mai lo è, oggetto dell’umorismo. Quello si eccita fin troppo facilmente per altri bersagli—politici, celebrità, atleti professionisti e via così. E la vecchia rivista di satira non era diversa. Semmai, aveva fatto da modello a cosa sarebbe arrivato poi. Il proto-Onion, la chiamava il poeta. Gli scrittori e gli artisti della vecchia rivista cercavano di colpire in maniera beffarda la cultura pop—film, libri, programmi TV, persino altre riviste—senza però toccare i consumatori di tutta quella spazzatura, coloro che erano realmente responsabili della sua popolarità. In altre parole, tutti noi.

La vera satira era cosa rara. La vera satira turba e infastidisce. Provoca disagio. La satira non è un unguento, una mezzora di sollievo da un mondo folle e confuso. La satira vera e propria non diverte né lenisce lo stress. Dovrebbe piuttosto disturbare e suscitare interrogativi, spacciandosi—ed è questa la cosa più difficile, pensava il poeta—per umorismo.

Una volta, un professore del poeta aveva paragonato la satira all’essere trafitti da una spada così affilata e abilmente maneggiata da non rendersi neppure conto di essere stati tagliati in due. Più il poeta pensava alla satira, meno questa sembrava un tipo di commedia, quanto piuttosto una strategia d’attacco di retorica—sferzante, precisa, spietata, persino violenta. Quel linguaggio brutale, il parlare in termini di bersaglio e attacco—gergo militare, né più né meno—non era casuale. Un accademico ha descritto come i generali degli eserciti di un tempo destinassero i combattenti con abilità di retorica alle prime file, in modo che lanciassero insulti e imprecazioni più elaborati mentre procedevano all’attacco.

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L’idea del poeta era questa, insomma. Il redattore gli assegnò una generosa scadenza e un bel po’ di spazio in cui sviluppare la sua idea—4000 parole. Nessuno gli aveva mai chiesto di scrivere tanto. Si mise a leggere vecchi numeri della rivista di satira. Quando trovava il tempo e l’energia, procedeva spedito. Ma a volte il tempo scorreva, e passavano intere settimane senza che leggesse una riga. I piani e le speranze che aveva in mente superavano il tempo a sua disposizione, o forse semplicemente la sua energia—non che importasse scegliere tra le due. Finì di leggere i numeri della rivista, ma a quel punto la scadenza fissata per la consegna si avvicinava, e di scritto non c’era praticamente nulla. Contattò il redattore e si scusò, chiedendogli più tempo. Il redattore acconsentì. Voleva un lavoro fatto bene, non frettolosamente.

Il poeta si mise a leggere interviste ai fondatori della rivista. Riuscì anche a individuare una serie di articoli di critica alla pubblicazione. Anche in quel caso procedette lentamente, quando aveva tempo. Cercò altre pubblicazioni dei fondatori, in modo da poter inserire la rivista nel contesto delle loro diverse opere. Non si poteva dire che non fosse meticoloso. Lavorava al progetto come si trattasse della sua tesi di laurea, riempiendo i margini dei fogli di frecce e annotazioni con la sua grafia irregolare. Si faceva domande e sottolineava passi che, se esplorati a dovere, avrebbero aperto nuove vie alla sua indagine. Prese pagine e pagine di appunti.

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La moglie fece il possibile perché il poeta si dedicasse al suo saggio. Era contenta che avesse ripreso a scrivere, avere qualcosa a cui lavorare lo rendeva così felice. Nei suoi giorni liberi, la donna portava fuori il bambino a fare commissioni e altre cose perché il poeta potesse avere un po’ di tranquillità.

Qualche mese più tardi, il poeta completò lo studio di tutto il materiale secondario. Avrebbe potuto raccoglierne altro, lo sapeva, ma si costrinse a terminare la ricerca. A quel punto, la sua memoria delle fonti primarie—i numeri della rivista—si era ormai dissolta, obbligandolo a tornare agli appunti e a trascriverli al computer. Era un lavoro noioso e ripetitivo, ma non privo di ricompense. Gli capitava di imbattersi in considerazioni particolarmente sottili, e in quelle occasioni si compiaceva della perspicacia con cui aveva proceduto quando ancora il progetto non era che agli inizi. Alcuni appunti erano abbastanza sostanziosi da permettergli di rielaborarli in vere e proprie frasi o, in qualche caso, addirittura in un paragrafo—porzioni di testo che immaginava avrebbe inserito direttamente nel lavoro finale. Ultimata anche questa parte, il poeta aveva raccolto 42 pagine di appunti in interlinea doppia. In un certo senso, il suo saggio era già lì, in quelle annotazioni. Era tutto molto confuso, ma sembrava che le cose iniziassero a prendere forma.

Ma anche la seconda scadenza si stava avvicinando, e il poeta si ritrovò a chiedere al redattore un altro po’ di tempo. Chiese scusa per la sua lentezza. Sto facendo dei progressi, disse. Voglio finirlo, per lei. Il redattore fu come al solito disponibile, ma anche deciso. Aveva bisogno del saggio entro due mesi. Il poeta lo ringraziò e si scusò ancora, aggiungendo che non lo avrebbe deluso.

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Il tempo assegnatogli sembrava sufficiente, ma anche quei due mesi passarono rapidamente e senza particolari progressi. Un giorno, la moglie chiese al poeta come stesse procedendo il suo saggio. Il poeta era seduto alla scrivania, e lei gli stava dietro, di lato. Dopo aver lasciato per qualche istante la mano sulla spalla di lui, la lasciò cadere sulla sedia. Cercò di essere gentile, di non mettergli fretta. Non voleva che si sentisse sotto pressione.

Il poeta le disse che aveva bisogno di più tempo. Non ne ho abbastanza. Esci per due ore qui, poi per un’ora e mezza là. Cosa dovrei farci con questo poco tempo?

Ma non posso tenere il bambino in giro tutto il giorno. Deve riposare.

So anche io che deve riposare, rispose il poeta. Grazie comunque.

La moglie fece per uscire dalla stanza, ma arrivata alla porta si girò nuovamente verso di lui. Sto fuori finché il piccolo se la sente. Ma prima o poi dovremo tornare a casa, ok?

Non parlo del sonnellino, riprese il poeta. Cavolo.

La donna rimase in silenzio. Lo avrebbe lasciato dire, era l’unica cosa da fare. Farlo parlare finché non si fosse stufato. O quello, o andarsene. Non che facesse la differenza.

Lo vedi qual è il problema, no?

No, non lo vedeva, ma rimase in silenzio.

Non so mai quando avrò un po’ di tempo libero, continuò il poeta. È per questo che è così difficile andare avanti. Forse domani avrò un’ora. Forse no. Forse il prossimo fine settimana. O forse no. Come posso lavorare in queste condizioni?

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La moglie ascoltava senza intervenire.

La risposta è che non posso, fece lui. Non posso lavorare così. Non è questo il modo di lavorare.

Forse c’era un altro modo in cui il poeta avrebbe potuto disporre di più di tempo tra i sonnellini del figlio, suggerì la moglie, almeno quando lei non fosse stata al lavoro. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui. Voleva uscirne bene. E voleva che il marito riuscisse a scrivere quel saggio. Era importante. Così gli disse, Voglio trovare un modo. Voglio che funzioni.

Non importa, rispose lui. Non funzionerà. Non c’è niente che funzionerà. Anche quando uscite, perdo così tanto tempo ad aiutarvi a farlo che per l’ora in cui lasciate l’appartamento sono esausto, e non posso combinare granché. Quello che diceva non era vero. Aveva la tendenza all’esagerazione melodrammatica, soprattutto quando cercava di essere persuasivo. In realtà non era più impegnato del dovuto. Si sentiva stanco, sì, ma in un modo o nell’altro all’epoca era sempre così.

Alla fine, il poeta non riuscì a consegnare il suo saggio. Non riuscì nemmeno a iniziarlo. Era questa la triste verità. Dopo tutti quei mesi—non voleva mettersi a contare quanti fossero di preciso—non aveva scritto neppure una parola. Con tutto il tempo concessogli dalla moglie, il suo sostegno, la sua pazienza, il suo perdonargli ogni malumore o lagna, insieme alla comprensione del redattore, il poeta non aveva concluso niente. Aveva trascorso troppo tempo a leggere e prendere appunti, per non parlare della procedura di organizzazione del materiale. Era assurdo. Forse era semplicemente rimasto fermo fin dall’inizio. Avrebbe dovuto farsi delle domande. Aveva bisogno degli appunti? Era necessario ricopiarli al computer? Aveva perso tanto, troppo tempo. Magari si era stufato. O, magari, l’idea era diventata vecchia, fino a rassomigliare, nella sua testa, a qualcosa di cui aveva già scritto.

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A volte l’idea gli tornava alla mente, bruciante. Un piccolo fuoco che si spegneva poco dopo. Riusciva ad avvertirlo. Pensò di fare un ultimo tentativo, ma dopo aver radunato tutti i suoi libri e gli appunti e impilatili sul tavolo della cucina, decise che quello scritto non faceva parte di lui. Non c’era e basta.

Scrisse al redattore per comunicargli la cattiva notizia, e qualche giorno dopo ricevette risposta. Mi spiace. Perché non manda comunque quello che ha scritto? Forse possiamo cavarci qualcosa…

Il poeta si concentrò sui puntini di sospensione con cui si chiudeva la frase. Cercava di interpretarne il significato, di capire come avrebbe potuto reagire, cosa avrebbe risposto il redattore e così via. Pensò che avrebbe potuto dirgli la verità, o qualcosa che le si avvicinasse. Invece gli scrisse che il suo materiale era inadeguato, troppo brutto perché potesse mostrarglielo. È così approssimativo, così approssimativo. Sono desolato, ma preferirei abbandonare il progetto e non averci più a che fare.

Passò qualche giorno, e il redattore rispose. D’accordo, disse. Mi stia bene.

Il poeta pensò che avrebbe potuto scrivere cose più brevi, come epigrammi, o distici, ma neanche quello funzionò. Un solo verso non bastava mai. Iniziò una nuova poesia. In mente aveva solo qualche verso, ma sembravano promettenti. Trascorse diversi giorni pensando alle parole, ripetendole tra sé e sé, ascoltandone il suono. Voleva dar loro la possibilità di svilupparsi, crescere, diventare qualcosa, ma quando sembrò che non ne sarebbe uscito nulla aprì un nuovo documento sul computer e mise per iscritto quelle parole. L’uomo era stanco, scrisse. Troppo stanco persino per dormire. Tutto lì—niente di completo, ma era tutto quello che aveva. Nelle due settimane successive tornò più volte a osservare quelle parole, modificandole leggermente, prima un verso poi l’altro, spezzandole in blocchi ancora più piccoli per poi rimetterle nuovamente insieme, nello stesso modo in cui erano all’inizio. Le sistemava, aggiungeva particolari, ma finiva sempre per cancellare i suoi sforzi fino a tornare ai due versi originali. Ogni aggiunta aveva breve vita. Lavorando alla poesia, pensava a se stesso. Una volta, fissando quelle nove parole, gli vennero in mente i piombini da pesca. Li immaginò agganciati a una linea sottile e collegati al suo volto, sotto gli occhi e agli angoli della bocca. I pesi gli tiravano la pelle, modificando i tratti del viso. Era così che si sentiva, pensò. Non sapeva come meglio esprimere quella sensazione. Ma più leggeva la poesia e rielaborava quei versi, più trovava l’impresa un’autentica autocommiserazione. Tutti sono stanchi, pensava. Tutti sono sempre stanchi. Alla fine lasciò perdere la poesia. Era una stupidaggine, si disse.

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Per la prima volta da quando era un ragazzo, il poeta iniziò a tenere un diario, un posto in cui annotare spunti per versi, discorsi carpiti di sfuggita e pensieri occasionali. Dopo aver riempito qualche pagina con frasi che a una seconda lettura apparivano deboli e contorte, se non miserabili, il poeta abbandonò il diario, lasciando che venisse sepolto da pile di altri fogli.

Meno scriveva, più libri comprava. Si procurò nuove raccolte di poesie, corpose opere di critica letteraria e poetica, uno studio della produzione in versi di Melvillle e una biografia di Mallarmé.

Appena aveva tra le mani un nuovo libro ne leggeva qualche pagina, come per testarlo e avere un assaggio dell’atmosfera, ma solo raramente trovava l’energia di proseguire. Comprava i libri che gli sarebbe piaciuto leggere così come libri di autori che voleva sostenere.

Stava costruendo una biblioteca per la persona che gli sarebbe piaciuto essere. O così diceva a se stesso.

Una volta si imbatté in un vago riferimento a una monografia fuori catalogo secondo cui lo stile di Emily Dickinson, i suoi versi telegrafici e i trattini spessi, erano il prodotto della sua cecità. I trattini erano calcati, sosteneva l’autore, perché potesse ritrovarsi sulla pagina, avvertendo con la punta delle dita il solco. Era una tesi intrigante, se non impossibile da provare, e il poeta impiegò intere settimane nel tentativo di procurarsi una copia di quel testo. Una volta che la ricevette, abbandonò il pacchetto ancora sigillato sulla scrivania. Un giorno, si diceva, leggerò quella cosa sulla cecità di Emily Dickinson.

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Non ci volle molto perché iniziasse a mal sopportare la moglie. Non che lei lo meritasse, anzi. Si faceva in quattro per la famiglia, e la famiglia le doveva tutto. L’appartamento, il cibo. Le loro vite e la loro stabilità. Raccoglieva latte per il bambino e lo portava a casa, diversi biberon al giorno. Il poeta non poteva sostituirla. Niente di quello che poteva fare avrebbe pagato abbastanza per una famiglia di tre persone. Credetegli, si era informato.

Ma le ore cominciarono a scorrergli addosso e a trasformarlo in uomo tagliente. E a confonderlo. Una notte si rigirò nel sonno per afferrare il braccio della moglie, convinto che il piccolo fosse a letto con loro e che ciò che stringeva fosse il suo piccolo braccio. Il bambino non aveva mai dormito con loro. In quel sonno confuso, il piccolo gli sembrava lì, col rischio di finire schiacciato. Gli sembrava tutto così reale.

Prese a confortare il figlio, che in realtà era la moglie, dando dei colpetti sul braccio e ripetendo, Ok, è tutto ok adesso. Ora papà ti mette a letto, va bene?

Sussurrava quelle parole alla moglie. Amore, disse cercando di svegliarla. Amore.

Cosa succede? chiese lei.

Non dovremmo rimettere il bimbo nella culla?

La moglie rimase in silenzio a pensare. Poi disse, Il bambino non è qui. Torna a dormire.

Il poeta mormorò una scusa e si girò sulla schiena, cercando di comprendere il suo errore e darsi una spiegazione.

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Nelle notti successive, il poeta fece lo stesso sogno.

Al mattino il piccolo si svegliava alle sette, la stessa ora in cui la moglie iniziava a prepararsi. Per le successive 11 o 12 ore, il poeta si prendeva cura di lui. Cercava di riempire le loro giornate con le parole. Gli piaceva spiegare al bambino cosa stava facendo e cosa succedeva, proprio come avrebbe fatto una voce narrante. Bisogna cambiare il pannolino, no? Oppure, Ora papà deve preparare il pranzo. Cose del genere. Ma spesso, nel parlare, faceva degli errori. Errori stupidi. Confondeva i verbi, e a volte si sforzava di trovare una parola per poi usare quella sbagliata. Una volta aveva chiesto alla moglie se avesse visto il caffè del bambino. Il latte, disse poi, intendevo il latte.

La donna guardò dentro al frigo e, dopo qualche secondo, trovò il latte in fondo al ripiano. Era dietro al succo di frutta, disse. Si nascondeva. Passò il biberon al poeta, che lo consegnò direttamente al bambino, pronto ed eccitato fin da quando l’aveva visto uscire dal frigorifero. Gli si era avvicinato chiamandolo, Lah, lah, lah, la sua parola—immaginavano—per dire latte.

Il poeta e la moglie lo osservarono bere. Tutto d’un sorso, eh, disse la moglie del poeta. Guardalo.

Era impressionante, il poeta doveva ammetterlo. Immagino non dovremmo fargli patire così la fame.

Potremmo dargli più caffè, fece la moglie. Come alternativa, sai.

Il poeta sorrise. Sapere che sua moglie aveva colto il senso delle sue parole lo confortava. Ognuno conosceva bene il nonsenso dell’altro. Eppure, il poeta non riusciva a cancellare dalla testa il pensiero di quegli errori, né poteva perdonarsi per averne commessi. Era imbarazzante. La sua conoscenza della grammatica si stava sfaldando. Si sentiva quasi ritardato. Sollevava il bambino in aria e diceva, Mettiamoci nel tavolo, quando ciò che intendeva, ovviamente, era Mettiamoci nel seggiolone. Gli capitava spesso. Diceva frasi sul genere Papà mangia fragola, come fosse un cavernicolo da film di serie B.

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Fu allora, quando le cose si fecero più difficili—nel periodo in cui il bambino era particolarmente capriccioso, si rifiutava di mangiare, pasticciava col cibo che solitamente divorava e piangeva senza ragione apparente—che il poeta iniziò a pensare, Questo non è giusto. Non è giusto che abbia rinunciato così. Non è giusto che debba fare queste cose. Non riesco nemmeno a finire un libro, pensava. Uno stupido libro. Era curioso di sapere quando sarebbe stato ripagato. Niente di più. Era davvero curioso di sapere quando sarebbe arrivato il suo turno.

Non che riuscisse a immaginare un altro modo di tirare avanti. Non aveva nessun piano, niente di ragionevole.

Alla fine della giornata, prima del ritorno della moglie, si trovava spesso a giacere sul pavimento, con gli occhi chiusi e il bambino sul petto che cercava di scavalcarlo. Se ci riusciva lo lasciava andare, e non perché non gli importasse, ma perché in quel modo, con gli occhi chiusi, avrebbe potuto prendere per sé qualche istante di pausa. E ogni volta, dopo, doveva dire a se stesso, ordinarselo, Alzati. Va’ a riprendere tuo figlio. Era allo stesso tempo sergente e soldato indolente.

Di tanto in tanto la moglie tornava e li trovava sul pavimento. Di tanto in tanto, al suo arrivo, il poeta riusciva a spiccicare soltanto qualche Ciao, come stai, com’è andata. Quando lei si avvicinava per un bacio, lui le porgeva la guancia.

La situazione degradò a un punto tale che il poeta era costretto a ricordare a se stesso di essere paziente con la moglie. Se l’era annotato su un biglietto che aveva messo sul comodino accanto al letto, in modo da leggerlo ogni mattina e ogni sera.

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Il poeta aveva paura. Paura che un giorno sarebbe arrivato qualcuno a portargli via il bambino. Qualche autorità, qualcuno del comune, o del governo, chiunque intervenisse in queste cose. A volte il poeta temeva che sarebbero stati i suoi genitori a portare via il piccolo.

Cosa puoi fare per questo bambino, avrebbe potuto chiedergli il padre, col tuo lavoro di poeta? Come puoi prenderti cura di lui? È di mio nipote che stiamo parlando.

Il poeta riusciva a sentire la conversazione nella sua mente, col nastro che girava e si riavvolgeva su se stesso per poi ripartire. Conosceva bene il modo in cui il padre pronunciava ‘poeta’, come se la parola stessa  avesse un cattivo sapore.

Non riusciva a capire cosa avesse sbagliatoo fatto in maniera non corretta—per farsi togliere la custodia del figlio, ma era certo ci fosse qualcosa. C’era sempre qualcosa.

Una sera, dopo che il bambino si era addormentato, il poeta se ne stava a letto fermo, osservando il soffitto, il ventilatore. Teneva le braccia sopra la testa, e si ritrovò a pensare, non per la prima volta, Non voglio muovermi. Voglio rimanere così per sempre. Il ventilatore oscillò e fece qualche rumore, lento e inefficace.

La moglie stava per lasciare la stanza, quando lui la chiamò. Amore?

Era già alla porta. Si girò, per metà avvolta nell’ombra.

Sto facendo la cosa giusta al momento giusto? le chiese. In generale, intendo.

Che sciocco. Certo, certo. Va tutto bene, rispose.

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Eppure, il poeta non riusciva ad accettare che tutto andasse realmente bene. Dopo un po’ di tempo chiese nuovamente alla moglie, Cosa c’è di sbagliato? C’è qualcosa di sbagliato? Era certo ci fosse qualcosa di sbagliato. C’era sempre qualcosa di sbagliato. Nonostante le sue rassicurazioni, era certo che sotto ci fosse qualcosa. Le lamentele, le differenze, i desideri irrealizzabili su come dovessero andare le cose, c’era tutto. Semplicemente, non era mai stato detto ad alta voce.

In quel periodo il poeta aveva notato un uomo che si aggirava intorno all’edificio, un uomo di colore sulla mezza età che indossava camicie hawaiane, aveva degli occhiali da lettura e al collo portava una targhetta identificativa. Lo vedeva bussare alle porte nel bel mezzo della giornata. A volte il poeta usciva col bambino e lo trovava nell’atto di mostrare il suo documento a chi gli aveva aperto la porta. Cercava di passare inosservato. Il poeta lo sentì dire, Ma se per lei non va bene, posso fare un salto più tardi.

La sua voce era gentile. Suadente, cortese. Ma addestrare una persona a parlare in quel modo non era impossibile.

Il poeta pensava fosse uno di qualche ufficio in stile servizi sociali che indagava su dei casi, controllava i bambini. Si portava dietro una cartelletta e al polso aveva una serie di braccialetti dell’amicizia, anche una dozzina. Spesso lo vedeva in piedi di fronte a qualche porta, a osservarla e ascoltare. Non c’era nessuno o non rispondevano? I rumori arrivavano dall’interno? Quello era il brusio di una TV? Il poeta non aveva molti altri indizi, ma cos’altro gli sarebbe servito?

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I momenti più felici per lui erano i fine settimana, quando erano tutti insieme. Crescere il figlio era un lavoro per due persone con poco altro di cui occuparsi se non del bambino. Quando stava da solo con il piccolo, l’appartamento era abbandonato a se stesso, a sprofondare gradualmente nel disordine e nel caos. Quello che era pulito diventava sporco, finché tutto non divenne sporco. Se invece erano a casa entrambi, riuscivano a tenere testa alle pulizie, al bucato e ai piatti.

Facevano anche cose insieme, come famiglia. Andavano in giro. Niente di che, ma era comunque qualcosa. Quando al poeta servirono scarpe nuove andarono al centro commerciale. Per lui comprare scarpe nuove era una scocciatura, ma il suo vecchio paio—come lo aveva descritto la moglie—era un po’ sgarbato. In corrispondenza degli alluci c’erano dei buchi, grandi abbastanza da vederci attraverso. In alcuni punti, la suola era consumata. Ma al poeta non interessava dello stato delle sue scarpe. Sapeva che avevano un aspetto sgarbato, nessuno lo avrebbe negato. Semplicemente, non voleva spendere soldi quando non era strettamente necessario. Era sempre restio a spendere, soprattutto se si trattava di cose per lui. Gli sembrava il minimo, visto che non guadagnava niente. Cercava di risparmiare, spegnendo le luci quando nessuno ne aveva bisogno e adottando altri comportamenti del genere. Aveva preso a compilare i coupon che offrivano rimborsi, un compito che svolgeva con devozione pressoché religiosa. Il denaro che otteneva in cambio era irrisorio, e spesso si sentiva ridicolo nel trascinarsi fino alla banca con assegni da un dollaro e poco più. Ma non importava, i soldi erano pur sempre soldi. A volte dietro di lui c’erano altri in attesa, uomini in completi grigi, donne in abiti da lavoro e scarpe sportive. In quelle occasioni provava un enorme imbarazzo—era lì a far aspettare persone occupate solo per poter depositare somme tra i 4 dollari e 50 e i 6 dollari e 85 o, una volta, 75 centesimi.

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Con le scarpe, però, la moglie aveva insistito. Le scarpe non sono un lusso, gli disse.

Il poeta rimase per un po’ di fronte all’espositore del negozio a valutare le opzioni, in cerca di qualcosa che potesse indossare. Ogni scarpa era irradiata di luce, illuminata come una stella del cinema da un faretto. Mentre il poeta passava in rassegna i modelli, la moglie badava al bambino. Lo portava qua e là per il negozio mostrandogli le scarpe, parlandogli dolcemente e spiegandogli cosa stesse facendo papà. Il piccolo iniziava ad agitarsi. Il poeta sentì, ma non si girò per controllare. In quel momento era un problema della moglie, non suo.

Trovato un modello che sembrava potesse fare al caso suo, il poeta chiamò un commesso e gli chiese di provarne un paio, numero 45. Nel frattempo, le grida del bambino si erano fatte sempre più alte e sofferenti. Le alternative, con lui, erano due: o stava bene, oppure sembrava deciso a prestare testimonianza della fine del mondo. Erano dall’altro capo del negozio, ma il poeta li sentiva piuttosto distintamente. Il bambino gemeva e strillava, mentre la moglie cercava di calmarlo. Era come se ovunque andassero portassero con sé un orecchio del poeta. Per quanto si allontanassero, continuava a sentirli. Spostò lo sguardo verso di loro. Vide il figlio, con volto arrossato e prodotto in una smorfia, intento a dimenarsi tra le braccia della madre che faticava a tenerlo in braccio. Sta diventando troppo pesante per lei, rifletté il poeta. Fece per avvicinarsi, ma poi pensò, Va tutto bene, andrà tutto bene. Si mise a sedere in attesa delle sue scarpe.

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Da lì, continuò a osservare la merce in esposizione. Che avesse tralasciato qualcosa? Iniziò a esaminare una mensola per volta, finché la sua attenzione non cadde su un paio di scarpe eleganti—stivaletti eleganti, per la precisione—in pelle rossa, bianca e blu. Erano lì a scopo promozionale, o perché qualcuno le comprasse? E se sì, chi? Il poeta non sapeva rispondere. Gli piaceva stare seduto lì. Gli piaceva la sensazione di non avere nulla da fare. Gli piaceva persino l’idea di avere un commesso al suo servizio. A chi non piacerebbe, sinceramente? Si tolse le scarpe e le nascose sotto la sedia, rovesciandole così da non mostrare i buchi. Si aggiustò i calzini e rimase in attesa.

La moglie si avvicinò e gli si sedette accanto sospirando. Il bambino si allungava oltre i braccioli della sedia per raggiungere il poeta. Pa-pà, diceva. Pa-pà.

Vieni qui, gli rispose il poeta per poi sollevarlo sulle spalle. Che zuccone che sei. Nel tempo in cui la moglie e il bambino erano rimasti dall’altra parte del negozio, aveva come dimenticato quanto fosse pesante. Erano passati soltanto pochi minuti, ma in un certo senso il peso che avvertiva tra le braccia gli appariva nuovo, lo percepiva.

Il commesso emerse dal magazzino, con sette o otto scatole sistemate in due pile. La moglie riprese in braccio il bambino annunciando che sarebbero rimasti nei dintorni. Lasciò il poeta con un bacio sulla guancia e la raccomandazione di scegliere un bel paio di scarpe.

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Si era preso la libertà, spiegò il commesso, di scegliere qualche altro modello che era certo gli sarebbe piaciuto. Parlava delle scarpe, quelle che aveva scelto, come se si riferisse a sigari di qualità o a un’annata di vino particolarmente buona.

Ci sarà una grossa promozione, spiegò al poeta. Qualcuno gliel’aveva accennato?

Il poeta scosse la testa. Avrebbero dovuto? Dietro, alle sue spalle, gli sembrò che il figlio stesse piangendo.

Non abbiamo molta merce in saldo, continuò il commesso, ma quella che c’è è molto buona.

Il poeta annuì ed esaminò tutte le scatole che il commesso gli aveva sistemato intorno. Dalla prima il commesso estrasse una scarpa elegante, nero luccicante. Sistemò rapidamente le stringhe, e tenendola tra le due mani la definì un modello molto raffinato. La porse al poeta perché la ammirasse. Design classico, disse. Perfetto per l’ufficio.

Il poeta se la rigirò tra le mani. C’era qualcosa di strano in quella scarpa, ai suoi occhi. Come si trattasse di un manufatto esposto a una mostra su una tribù di cui aveva letto soltanto sui libri di scuola.

È molto bella, commentò.

Il commesso gli comunicò il prezzo scontato e quello originale.

In questo momento non ho bisogno di una calzatura elegante, purtroppo. Restituì la scarpa al commesso, aggiungendo, Mi spiace.

Posso chiederle che lavoro fa?

Ora? replicò il poeta. Il suo tono era interrogativo, come se il commesso si stesse informando sulla sua prolifica carriera. Ora sono a casa, rispose. Mi prendo cura di mio figlio. Fece un rapido gesto per indicare alle sue spalle, verso il posto in cui aveva sentito piangere il bambino per l’ultima volta.

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Oh, è un ottimo lavoro, disse il commesso. Sistemò la scarpa nella confezione e mise da parte tutte le altre scatole che aveva portato.

Disse che non c’erano problemi.

Sono scarpe molto belle, ribadì il poeta.

Il commesso aggiunse che avrebbe potuto tenerle a mente per acquisti futuri, poi prese a cercare la scarpa scelta dal poeta. Questi la provò, e dopo aver riflettuto per qualche istante e osservato l’effetto del proprio piede riflesso in uno specchio, si decise per un paio di scarpe sportive. Erano marroni, con un tocco di verde lime che normalmente sarebbe stato sufficiente a farlo scappare.

Prendo queste, grazie.

Il commesso gli chiese se preferiva pagare quello stesso giorno, e il poeta gli porse una carta. Carta di credito, aggiunse.

Quel gesto innescò nel commesso un’intricata coreografia che andò a coinvolgere il registratore di cassa, la carta di credito del poeta, una penna e un piccolo adesivo che appose sul lato della scatola. Sembrava un macchina. Nessun movimento fuori posto, nessuno spreco di energia.

C’è la possibilità che anche queste rientrino tra quelle in saldo?

Il commesso si fermò, la sua trance interrotta. Ci pensò per un secondo. No, sono spiacente, fece un attimo prima di rimettersi al lavoro.

In macchina, sulla strada verso casa, il poeta raccontò alla moglie della sua conversazione col commesso. Scusa, hai visto quante scarpe mi ha portato?

Sono sicura che insegnino a tutti i dipendenti a fare in quel modo, ribatté.

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Lo so, ma mi sentivo così in imbarazzo.

Vedendoti avrà pensato fossi uno che lavora in un ufficio. Non è un insulto, lo sai.

Il poeta aggiunse che aveva provato… Non sapeva bene cosa, in realtà. Si mise a cercare la parola giusta. Ho provato una vergogna profonda. Non avrei voluto, ma te lo giuro, è stato così.

La moglie gli rispose che andava tutto bene. Stava solo cercando di vendere delle scarpe, disse. Probabilmente fa così con tutti i clienti.

Dietro, il bambino piangeva. Via, diceva. Via.

Non lo sopporta proprio il sedile posteriore, fece la moglie.

Via, via, continuava il piccolo.

Il poeta si girò, rivolgendosi al piccolo. Mamma e papà non possono farti uscire ora, capito? Andiamo subito a casa, eh. Così ti facciamo uscire. Va bene?

Via, rispose il figlio.

Il poeta riprese posizione. Bene, concluse.

Il sabato e la domenica mattina, mentre il bambino dormiva, il poeta e la moglie facevano la doccia insieme, parlando e baciandosi e abbracciandosi sotto il getto d’acqua. A volte, nella doccia, facevano piani per il giorno successivo. Ma in generale parlavano del più e del meno. Vorrei che ci fosse del cibo nuovo, qualcosa che non ho mai mangiato, disse un giorno la moglie. Il suo commento arrivava dal nulla. Le era venuto in mente così, aggiunse. Il poeta adorava quelle sue insensatezze, considerazioni poco più consistenti dell’aria, immediate. Per lui erano tutto. C’era qualcosa in quel modo di fare che lo rassicurava, lo metteva a suo agio. E ci sarebbe stato per tutta la vita, lo sapeva.

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Non ti capita mai di voler provare un cibo nuovo? gli chiese la moglie.

Il poeta era incerto. Non sono un tipo da voglie del genere. Non per il cibo, almeno.

Sotto la doccia, in quei discorsi senza uno scopo preciso, il poeta poteva quasi avere l’impressione di farcela, ma in realtà si stava solo rilassando. A un certo punto, rilassarsi sembrava sbagliato, un tempo rosicchiato a tutte le cose che avrebbe dovuto fare.

Fu durante una di quelle docce che la moglie chiese al poeta a cosa stesse pensando, e lui le rispose, A niente, davvero niente. È imbarazzante.

No, va bene, disse lei.

Stava pensando, continuò lui, a come un tempo fosse un presunto poeta promettente e quanto significasse quel fatto, anche se allora si diceva che era ridicolo, inutile. Ma aveva deciso di andare avanti a scrivere, nonostante tutto.

Scusami, si giustificò. È un momento un po’ così, immagino.

Un tempo, disse la moglie ripetendo le parole di lui. Ne parli come se fosse roba di secoli fa, come se stessi parlando di storia antica.

Dico sul serio, fece il poeta. Dai, sii realistica, per quanto a lungo uno può rimanere, tra virgolette, promettente? Quand’è che la promessa diventa qualcosa di non mantenuto?

La moglie del poeta inclinò la testa sotto il getto e sciacquò lo shampoo dai capelli, poi li raccolse indietro per strizzarli, e infine aprì gli occhi. Ti preoccupi troppo, rispose. Si avvicinò al poeta per un abbraccio e lo strinse così forte da farlo boccheggiare.

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E comunque, sei tu la promessa. Non puoi non mantenerla.

Il poeta disse che sì, poteva essere così, ma non era sicuro. Sembra un po’ banale, no? Che dici?

La donna scrollò le spalle. Il banale o meno non le importava. Di tanto in tanto il poeta si chiedeva se la sua educazione, tutti i libri, i corsi, i seminari e le presentazioni gli avessero insegnato qualcosa al di là del saper individuare minime tracce di banalità, anche pochissime e dannose particelle su un milione. Poi si chiese che senso avesse, in fondo, essere sensibile a ciò che era solo minimamente banale.

Spesso gli amici venuti in visita per vedere il bambino chiedevano al poeta e la moglie quando sarebbero passati al secondo figlio. Questo bimbo ha bisogno di un fratello, no? O di una sorellina, qualcuno a cui star dietro.

Nella maggior parte dei casi il loro tono era scherzoso, e il poeta ci passava sopra con una risata.

Non erano pronti. Non sapeva quando lo sarebbero stati o se lo sarebbero stati, prima o poi. Ce la facevano a stento già in quelle condizioni.

La moglie diceva agli amici, Ditemi dove metterlo, allora!

Non avevano abbastanza spazio o soldi. Non avevano abbastanza di niente. Né lui né lei potevano immaginare di avere un altro figlio.

Erano sotto la doccia quando, una mattina di un mese e mezzo dopo, la donna disse al marito che pensava di essere incinta.

Lo pensi, chiese, o ne sei sicura?

Sono abbastanza sicura.

Il poeta non sapeva cosa dire. Chinò il capo e chiuse gli occhi per qualche secondo, lasciando che il getto d’acqua colpisse la sua nuca. Congratulazioni a noi, disse. Ora che facciamo?

Cosa intendi dire?

Voglio dire, ma non continuò. Non sapeva cosa intendeva dire. Ma non era forse ovvio, quello che avrebbero dovuto fare? Per lui sì, anche se non c’era modo di girarci intorno. Cosa avrebbe dovuto fare lui, crescere due bambini mentre la moglie era al lavoro? Non era forse stata lei a dire, di recente, che non avrebbero potuto? Il poeta sentiva che non era giusto. Era tornato a quel punto, all’ingiustizia di ogni cosa, che concepiva come estrema ingiustizia nei suoi confronti.

Cosa hai intenzione di fare? chiese il poeta.

Lei alzò le spalle, dicendo, So che non è quello che volevamo.

Ma, pensò lui.

Ma qualsiasi cosa accadrà, riprese lei, decideremo insieme come affrontarla, giusto?

Certo, fece il poeta. La abbracciò e sentì la sua schiena, liscia e pulita. Certo, ripeté.

Quel fine settimana il poeta trovò un momento—non uno buono, non ce n’erano—per comunicare alla moglie che ci aveva pensato e si era chiesto se forse non dovessero mettere fine alla gravidanza, o almeno discutere tutte le opzioni. Odiava quelle parole—mettere fine, opzioni, discutere. Odiava sentire la sua voce che le ripeteva, ma non ne trovava altre.

Quando la moglie gli chiese il perché, lui rispose, Perché pensavo fosse quello che avevamo deciso. Pensavo che su questo punto fossimo d’accordo.

La donna disse che lo sapeva. E capiva, lo capiva benissimo. Ma quello valeva in astratto. In quel momento le cose stavano diversamente.

In astratto, che frase. Niente è mai realmente in astratto, rispose lui. Capisci, stai dicendo che dovrò occuparmi di due bambini—due bambini, capito—in astratto?

La moglie fece per girarsi. Il poeta osservò il suo profilo, poi la fronte e il naso. Cosa c’è?, chiese.

Le rivolgeva sempre la stessa domanda quando capiva di aver fatto qualcosa di sbagliato. Voleva che parlasse, che dicesse qualcosa, e aveva fatto quella stupida domanda. Era come se fosse appena entrato nella stanza, ancora all’oscuro di tutto, come se non fosse stato lì per tutto il tempo, dietro di lei, come se non avesse detto quello che aveva detto, come se non l’avesse mai offesa.

Gli occhi della donna erano rivolti verso la cucina, forse senza guardare nulla.

Il poeta stava affrontando tutto nel modo sbagliato. Lo sapeva, ma continuava a tornarci su e a lottare senza sapere perché. Dovrei crescere due figli in un cazzo di astratto?

Lei lo guardò. Ti stai sentendo? Quando sei arrabbiato dici tali assurdità.

Più tardi, per diverse settimane dopo la procedura, la moglie del poeta fece sogni terribili in cui il loro bambino era in pericolo e lei doveva salvarlo. I suoi sogni erano nitidi, tanto nei dettagli quanto nelle difficili situazioni che la sua mente concepiva. Abituata a sonni profondi, si svegliava da quei sogni disorientata, senza capire cosa fosse reale, e se lei stessa lo fosse. Ogni volta svegliava il marito, perché lui aveva insistito, e perché si sarebbe infuriato se la mattina dopo avesse saputo di un altro brutto sogno.

Dopo la procedura il poeta era sempre gentile con la moglie, estremamente gentile, fino all’impossibile. La stringeva da dietro e le parlava dolcemente nell’orecchio, chiedendole del suo ultimo sogno e rassicurandola. Andava tutto bene, e col tempo i sogni se ne sarebbero andati e ogni cosa sarebbe tornata a posto.

Una notte stavano dormendo l’uno al fianco dell’altro. L’orecchio di lei era vicino alla sua testa, e le fronti si toccavano. Stavano parlando sottovoce quando lui avvertì le lacrime scorrere lungo la sua guancia. Sono io che sto piangendo? si chiese. Non ne era sicuro. Era triste, un po’, ma non credeva di stare piangendo. E poi capì, erano le lacrime di sua moglie. Le lacrime della moglie che scorrevano lungo le sue guance.

A volte il poeta le chiedeva cosa avesse fatto lui nel sogno, quale fosse stato il suo ruolo nella vicenda. Ma lui non era mai in quei sogni. Mai. Ma non c’era nemmeno una spiegazione per la sua assenza. Lui non c’era, e basta. La moglie si inventava sempre qualcosa, assegnandogli una parte e raccontandogli per filo e per segno cosa avesse detto. Quanto gli piaceva sentirla parlare. La sua voce.

Nel pieno della notte, con la moglie tra le braccia, il poeta fece delle promesse. Parlò del loro futuro e disse che avrebbero potuto riprovarci, una volta pronti. E allora faremo tutto per bene. Avremo un piano, non sarà una sorpresa.

La moglie pensava fosse assurdo, sentirlo parlare di piani. Un piano per cosa? Per la vita?

Eppure le parole del poeta la confortavano, in un certo senso. La confortava sentirlo descrivere un futuro in cui erano insieme nonostante tutto, al di là delle loro discussioni, in una casa con tante stanze, persino una biblioteca per tutti i suoi libri, e fuori, protetto da una rete, il suo piccolo orticello, tutto per lei. Non era sicura che il poeta avrebbe mai pensato fossero davvero pronti, ma le sue promesse la sollevavano un po’. Non poteva farne a meno, si diceva.