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Come se la passa il giornalismo d'inchiesta in Italia?

A vent'anni dall'omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin non si sono ancora trovati i colpevoli. Abbiamo parlato con il giornalista Maurizio Torrealta del caso e dello stato del giornalismo d'inchiesta in Italia.

Foto per gentile concessione del Premio Ilaria Alpi. Via.

Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono un marchio. Oggi è praticamente impossibile non aver sentito almeno una volta pronunciare il loro nome. Quando sono morti, nel 1994 a Mogadiscio, stavano indagando sul traffico di rifiuti e armi tra Europa e Somalia. Poco dopo il ritorno delle salme in Italia, i genitori di Ilaria e alcuni colleghi hanno fondato un'associazione e un premio per la ricerca della verità, delle responsabilità dirette e indirette di questa morte. Nel 2015 saranno passati vent'anni dalla prima edizione, ma la morte di Ilaria Alpi rimane un racconto ormai vuoto dell'elemento centrale.

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È per questo che la madre di Ilaria ha scritto una lettera agli organizzatori del premio, con una sola richiesta: chiuderlo, perché "questo impegno con l'andare degli anni è divenuto particolarmente oneroso, anche per l'amarezza che provo nel constatare che, nonostante il nostro impegno, le indagini in sede giudiziaria non hanno portato alcun risultato."

Mancano i responsabili veri di quell'esecuzione sommaria. Manca un senso finale all'ultimo pensiero che avranno avuto Ilaria e Miran. Chissà se pensavano che ne sarebbe valsa la pena comunque. Per capire se ancora ha un senso il lavoro del vero giornalista in Italia ho contattato Maurizio Torrealta, ex collega di Ilaria Alpi al TG3 ed ex direttore della sezione inchieste di RaiNews. Ho contattato lui perché, a differenza di tanti altri, ha scritto che "il nome di Ilaria è diventato un marchio. Ha ragione Luciana Alpi. Un marchio di qualità, di valori etici, di serietà professionale. Un marchio però che non è stato sufficiente ad ottenere giustizia."

VICE: Una volta il lavoro del giornalista sembrava che potesse cambiare il mondo. Non ti sembra che sia diventato ormai inutile?
Maurizio Torrealta: Be', non proprio. Ma ha ragione la mamma di Ilaria quando dice che, dopo 20 anni senza verità, preferisce ritirare questo nome dal premio perché c'è un rischio che non rappresenti più la battaglia che è stata fatta, il caso vero di Ilaria Alpi, ma diventi semplicemente un pretesto per cui tutti hanno la coscienza a posto.

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Anche se nella società civile c'è la consapevolezza di quali siano state le ragioni che hanno portato a commettere questo omicidio e a nasconderle profondamente, il problema è che la verità non è mai stata acclarata formalmente dal punto di vista giudiziario. Quindi Luciana Alpi fa bene ad allungare la mano per riprendersi questo nome, il nome di sua figlia, altrimenti un premio in onore di Ilaria Alpi diventa solo un'operazione di facciata. Io penso che si potrebbe istituire un premio dedicato a tutti i giornalisti che sono stati uccisi facendo il proprio lavoro, perché il giornalismo investigativo, quando lo si fa bene, è un lavoro serio, difficile , rischioso ed estremamente importante . Un premio internazionale sarebbe un'occasione per allargare i nostri orizzonti e difendere così la memoria di tutti i giornalisti che hanno fatto e fanno questo mestiere con dedizione e coraggio.

Tutto questo è molto bello, ma una verità va ancora cercata sul caso Ilaria Alpi.
Certamente.

E come si può fare secondo te?
Per me, e per molte altre persone, cercare la verità è stato un impegno personale, ma so bene che deve essere anche una consapevolezza istituzionale. Se Ilaria è stata uccisa è perché c'era una motivazione che non è ancora stata rivelata e delle forze politiche che hanno fatto una scelta, quella di eliminare dei testimoni scomodi.

Quindi sono le forze politiche che nascondono la verità?
Le navi alle quali Ilaria si interessava erano navi che erano state costruite e donate alla Somalia dal Ministero degli Esteri, in particolare dal Dipartimento della Cooperazione italiana internazionale. Se fosse vero, come noi sospettiamo, che queste navi stessero facendo traffici di armi e rifiuti tossici è chiaro che questo farebbe fare all'Italia una figura orribile, perché vorrebbe dire che, fingendo di cooperare con la Somalia, in realtà il nostro Paese portava armi e veleni. Questa sarebbe la nuda e cruda verità. Non credo che nessuna istituzione del nostro Paese farebbe mai un passo per ammetterlo. A ben vedere l'atteggiamento più diffuso tra i rappresentanti istituzionali è stato quello di nascondere i problemi e di lasciare che i rifiuti tossici del nostro Paese fossero scaricati in qualche discarica di piccoli stati africani, anche se sono passati 20 anni, anche se le responsabilità non sono più dirette. C'erano forze politiche—più o meno consapevoli—che in qualche modo partecipavano a questa attività che doveva rimanere segreta e clandestina. Ma una giornalista e un operatore si sono messi in mezzo ed hanno fatto scoprire questo ingranaggio. E che cosa hanno fatto? Li hanno fatti fuori. Ecco, noi pensiamo che basti un premio con il suo nome per avere la verità? No, non basta.

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Ok. Non è il caso che si muovano i giornalisti a cercare la verità fino in fondo?
Noi faremo sempre tutto il possibile ma è evidente che i soggetti chiamati in causa sono soggetti istituzionali. Noi abbiamo incontrato e intervistato diversi funzionari della cooperazione che ci hanno detto che sapevano che le navi facevano traffico di armi. Mogadiscio era inondata di armi. Alcuni funzionari hanno chiesto alla cooperazione italiana di chiamare e vagliare le società che erano coinvolte, anche perché ricevevano fondi pubblici. Hanno chiesto di aprire delle indagini ma, per farti capire, a uno di loro hanno sparato esattamente come hanno sparato a Ilaria e all'ex agente del Sismi Vincenzo Li Causi. Capisci che la reazione è stata molto chiara?

Non esiste a livello istituzionale alcuna intenzione di investigare queste vicende, anche se spero che prima o poi si creino le condizioni politiche perché se ne parli. Ma in fondo è sempre stato così in Italia. Con tutte le stragi che ci sono state, sono mai riusciti a portare sul banco degli imputati qualcuno? Solo per una strage, quella della stazione di Bologna, hanno condannato all'ergastolo con sentenza definitiva tre persone giudicate colpevoli, che però adesso sono fuori e girano tranquillamente [per pena estinta](http://www.corriere.it/cronache/08ottobre08/mambro_libertà _condizionale_34c38130-94fb-11dd-a444-00144f02aabc.shtml) . Valerio Fioravanti in particolare era stato condannato ad otto ergastoli e 134 anni e otto mesi di prigione Questo è abbastanza emblematico di come stiano procedendo le cose.

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Che senso ha oggi continuare a cercare di raccontare storie nascoste, fare inchieste, se poi non emerge la verità?
Il giornalismo investigativo non è morto. Io personalmente insegno giornalismo in una scuola che esiste da dieci anni e tutti i ragazzi che fanno questa scuola fanno l'esercizio di studiare come rintracciare le navi alle quali si stava interessando Ilaria. Cerchiamo il loro identificativo internazionale, come hanno cambiato nome, in che porti vanno, che rotte fanno, in modo che sia sempre portato avanti il lavoro iniziato da Ilaria. Io credo che quelle navi facciano sempre le stesse cose che facevano ai tempi di Ilaria e per questo credo che seguire questo filone, creare delle metodologie, insegnare una prassi per non avere un giornalismo investigativo casuale e improvvisato, ma serio e costante, sia un obiettivo da raggiungere.

Gli insegnamenti di Ilaria, sia che ci sia un riconoscimento giudiziario o meno, non devono andare persi e non andranno persi. Bisognerebbe produrre degli standard di lavoro investigativo internazionale da adottare anche in Italia per alzare il livello e avere anche sulle nostre reti più serietà professionale. Altrimenti continueremo a fare solo notiziari governativi dove gli esteri spariscono e di investigativo non c'è proprio nulla.

Cioè non si salva nessun programma di giornalismo investigativo in Italia?
Mi spiego: prendi Report, per esempio. Tutti lo guardiamo, ma non è giornalismo investigativo propriamente detto. Parte dall'assunto di come dovrebbero essere risolti certi problemi, ispirandosi spesso a come sono stati risolti all'estero, fa delle buone inchieste per capire come funziona, su quel determinato argomento, il nostro Paese e poi racconta tutto quello che ha trovavo. Un lavoro importante, pulito e preciso, ma il giornalismo investigativo pretende di andare oltre.

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Vuol dire scoprire ciò che viene tenuto segreto, non solo andare a verificare quello che dovrebbe essere fatto e non viene fatto, e quindi è ancora più impegnativo e più rischioso. È un processo logico diverso: induttivo più che deduttivo. Bisogna partire da piccoli indizi e poi confrontarsi, riuscire ad andare oltre agli indizi, ricostruire la storia, scoprendola. Io sono convinto che si possa fare e che ci siano parecchi bravi giornalisti che cercano di farlo

C'è sempre bisogno di quel giornalista che si rifiuta di fare il copia-incolla dalle agenzie e cerca nuove storie e modi inesplorati per raccontarle. È un lavoro straordinariamente bello, ma ci vuole tempo: bisogna lavorare per diversi mesi su una indagine. Mai da soli, sempre almeno in due, in modo che uno controlli l'altro e viceversa. Ma chi ha la possibilità oggi di pagare per questo impegno? Bisognerebbe aiutare quei pochi giornalisti che lavorano così, dando loro visibilità, aiutando le testate per cui lavorano a sostenerli. Ma ormai purtroppo sui giornali italiani tutto è politica, tutto è immagine, chiacchiere, tante chiacchiere…

Forse perché si ha la percezione che in Italia non cambi mai nulla grazie alle inchieste giornalistiche. Un caso Watergate in Italia mi pare difficile, no?
Guarda, io penso che affinché il giornalismo possa avere un effetto così forte come quello del Watergate, si debbano creare tante altre condizioni. È evidente che ai tempi del Watergate la guerra del Vietnam era al limite della sopportabilità per l'intera nazione, che era stanca di vedere i propri figli mandati a morire, quindi c'erano delle condizioni particolari. E soprattutto c'era un elemento fondamentale del giornalismo investigativo, che non dobbiamo dimenticare: le fonti interne.

Le fonti interne sono importantissime, le fonti interne non è che uno se le trova per strada, devi crearle, e per crearle devi avere del personale che ci lavori con tempo, con continuità. E oltre alle fonti interne ci vuole anche un direttore che ti sostenga, che ti stia accanto e che ti garantisca la copertura legale se sei accusato di diffamazione , perché quando fai giornalismo investigativo vero allora puoi stare sicuro che prima o poi incontrerai una reazione articolata in modo tale da massacrarti.

Anche nella redazione che giudichi la più piccolina, c'è sempre un buon giornalista che sta cercando di fare bene il proprio lavoro. Bisogna aiutarlo, sostenerlo, ci vogliono direttori e caporedattori che abbiano la consapevolezza che per il loro stesso giornale non c'è valore più prezioso, e che abbiano la voglia di fare del buon giornalismo.

Segui Chiara Caprio su Twitter: @ChiaraCaprio