Nel 1500 si mangiavano piatti conditi per noi in maniera molto strana. Tipo la pasta con lo zucchero.
C’è un posto a Roma diventato di diritto uno dei miei preferiti: Garum, una spettacolare biblioteca-museo sulla cucina che sorge in un ex convento davanti a Circo Massimo. C’ero stato non molto tempo fa, per l’apertura, scoprendo che custodivano la prima ricetta del supplì. Oggi sono tornato perché hanno aggiunto un libro importantissimo alla loro nutrita collezione: la prima guida gastronomica italiana mai scritta.
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Il Commentario de le piu notabili, & mostruose cose d’Italia è un libello del 1550 dell’umanista Ortensio Lando, un tipo bizzarro che tradusse per primo, in Italiano, Utopia del filosofo Thomas Moore (o, come ci piace chiamarlo, Tommaso Moro) e che abbracciò le idee luterane di Erasmo da Rotterdam in un momento in cui, se vivevi nella cattolica Italia, rischiavi di lasciarci la testa. E infatti rischia di lasciarcela diverse volte, inseguito dall’Inquisizione.
“È stato proprio grazie alle sue simpatie per Lutero ed Erasmo che Ortensio Lando fu costretto a spostarsi per le corti d’Italia e d’Europa,” mi racconta Matteo Ghirighini, direttore della struttura e libraio esperto anche in libri di cucina antichi. “E viaggiando—non solo in Italia—ha potuto scoprire diversi piatti di diverse corti, ma anche piatti popolari,” che riporta appunto nel suo Commentario facendone, di fatto, la prima guida gastronomica in Italia.
Il Commentario di Ortensio Lando racconta, appropriandosi degli stilemi del genere utopico, il viaggio di un cittadino dell’inventata Isola degli Sperduti guidato da un fiorentino “proveniente dalla terra di Utopia”, e con lui si appresta a conoscere le realtà delle città italiane. Non ci vuole una scienza per capire che il personaggio principale è in realtà Ortensio Lando stesso. “Lo abbiamo acquistato ad un’asta a Parigi,” mi racconta Matteo Ghirighini. “Ci stavamo dietro da un po’: Rossano Boscolo (il collezionista creatore della biblioteca Garum, ndr), che è sempre sul pezzo, lo voleva assolutamente nella collezione.” È un libro che può arrivare a valere anche 5000 euro, stampato su fibre di lino, per capirci.
In poche pagine, questo Commentario spazia da fantasie a velata (a volte manco troppo) satira politica. Il tutto condito da stereotipi per ogni regione, come “Guardati da Lombardo calvo, Toscano losco […]” o “Non ti lasciar sovragiungere la vernata in Abruzzo o la state in Puglia. Ricorda il proverbio: Chi vuol provar l’inferno l’estate in Puglia, et nell’Abruzzo il verno.”
Ma quello che più interessa a noi sono i piatti locali e cortigiani sparsi per l’Italia, che ci danno uno spaccato di che roba si mangiasse nel ‘500, da quei piatti che a noi appaiono decisamente strani, a quelli che ancora oggi si trovano in alcune cucine regionali popolari.
E così si può leggere di una vitella che ha mangiato solo specifiche erbette a Sorrento (“mangerai vitella di Surrento, la quale si strugge in bocca con maggior diletto che non fa il zucchero, et che maraviglia è se è di si grato sapore, poi che non si cibano gli armenti d’altro che di serpillo, nepitella, rosmarino, spico, maggiorana, citornella, menta, & altre simili herbe”) o di salsicce crude e cotte di Bologna, che a tutte l’hore n’aguzzano l’appetito.
Ci sono i consigli sui buoni vini, che si bevono nel Friuli Venezia Giulia “migliori in Vicenza, dove ancho mangerai prestissimi capretti”; i pesci pregiati che oggi mangiamo molto meno, come gli storioni a Ferrara—che è anche “unica maestra del far salami, & di confettare erbe, frutti e radici”.— e il cacio piacentino, che è stato anche lodato dalla dotta penna del conte Giulio da lando e che non ho idea di chi sia, ma ci fidiamo.
In mezzo a questi, che sono più che altro prodotti, ci sono però cose interessanti. Come il fatto che nel 1500 si mangiassero piatti conditi per noi in maniera molto strana. Tipo la pasta con lo zucchero: ‘nella ricca Isola di Sicilia, ma[n]gerai di que maccheroni […]: soglionsi cuocere insieme con grassi capponi, & caci freschi da ogni lato stillanti buttiro & latte, & larga mano vi soprapongono zucchero & canella della più fina che trovar si possa…All’idea di un piatto di pasta fatto con grassi di cappone—e fino a qui niente da dire— e abbondanti dosi di zucchero e cannella, ho avuto qualche sacrosanto dubbio. Fortuna che mi ha aiutato ancora Matteo Ghirighini. “All’epoca si seguivano i precetti della cucina Galenica,” mi dice. “In sostanza si pensava che ogni essere vivente avesse una propria natura dipendente dall’equilibrio di quattro elementi, detti umori, che si ritrovano nel cibo: caldo, freddo, secco e umido, che sono poi la traslitterazione degli elementi della natura. Acqua, terra, fuoco e aria.”
“Perciò i cuochi, che erano un po’ alchimisti, pensavano a questo bilanciamento. Oltre al bilanciamento galenico per restare in forma, l’uso di spezie a profusione, era anche, ovviamente, simbolo e sfoggio di ricchezza; solo se eri ricco potevi permetterti la cannella. O lo zafferano, che era giallo come il Sole.” continua Matteo.
Quindi da una parte c’è l’aspetto delle corti e delle loro portate zuccherate, ma dall’altro Ortensio Lando ci parla di preparazioni popolari che ci sono ancora oggi. Il caso più incredibile è quello della torta Gattafura di Genova, di cui Lando ci da la prima testimonianza e che oggi noi chiamiamo Torta Pasqualina, ma che a Genova, a volte, ancora si usa chiamarla così. Genova […] vi si fanno torte dette gattafure perche le gatte volentieri le furano et vaghe ne sono, ma chi è si svogliato che non le furasse volentieri?
“Un esempio del genere,” mi racconta Matteo Ghirighini, “è importante perché ci sottolinea la continuità di un piatto. Ci fa capire che i piatti popolari hanno una vita lunga, mentre quelli di corte sono soggetti alle mode dei tempi.” Ma c’è anche il pane di Napoli: mangerai in Napoli quel pane di puccia bianco nel più eccellente grado […]. Che se ho capito bene sarebbe il tradizionale Pane Cafone.
“È una figata perché ci racconta di massaie e cuoche popolari e di come inventavano le ricette: i libri precedenti non ci raccontavano uno spaccato popolare della cucina, Lando lo fa e ci è utilissimo.”
Sono due i luoghi che ci aspetteremmo di trovare, e invece no: il Piemonte—che non era considerato proprio Italia ai tempi—e Roma. Perché da seguace di Lutero e degli umanisti l’autore detestava la Chiesa, il Papa e i suoi personaggi. Lando parla di Roma in modo abbastanza dispregiativo; racconta di come la gente si comportasse come meretrici e dice di aver visto huomini col capo di zucca—con gli zuccotti, i cappellini dei vescovi e del Papa, ndr.— in sostanza andarci pure, con le meretrici.
Nella seconda parte, poi, Ortensio Lando ci da un sacco di altre informazioni preziosissime, soprattutto per la cucina popolare: il Catalogo delli inventori delle cose che si mangiano, et delle bevande che hoggidi si usano, che ha proprio una sezione a parte, è una lista di modi di cucinare e di personaggi teoricamente di fantasia, ma in realtà manco troppo. E quindi ci si trovano i mal fatti in Lombardia, per esempio. “Ma soprattutto,” finisce Matteo Ghirighini, “è una figata perché ci racconta di massaie e cuoche popolari e di come inventavano le ricette. Non importa che siano esistite o meno: i libri precedenti non ci raccontavano uno spaccato popolare della cucina, Lando lo fa e ci è utilissimo.”
Se volete sfogliare un libro del 1500 e scoprire la prima guida gastronomica d’Italia, correte da Garum. Se non potete, potete leggerne alcuni stralci qui.
Se volete invece la fine della storia, beh: Lando è morto povero ma l’Inquisizione non è mai riuscita ad acchiapparlo. Un grande.
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