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Salute

I sorprendenti effetti positivi di essere pessimista

Eugene Thacker, professore e scrittore, ci ha spiegato come il pessimismo può essere una forma fondamentale di auto-aiuto.
pessimismo
Immagine via Unsplash.

Il mondo ha sempre fatto così schifo? Eugene Thacker, scrittore e professore di media studies alla New School di New York, pensa di sì. Il suo nuovo libro, Infinite Resignation [Rassegnazione infinita in italiano], è probabilmente l'unico scritto filosofico che potrei definire 'da spiaggia': parla di pessimismo e delinea una filosofia disperata per un mondo disperato.

Se Il potere del pensiero positivo ha canalizzato l'ottimismo postbellico americano negli anni Cinquanta, Infinite Resignation è l'elegia della nostra contemporaneità. Non c'è bisogno di una laurea per capirlo. Non ci sono bibliografia e note a piè di pagina, ma un sacco di aforismi e battute. Comunque, riesce a farti scomparire in una spirale di disperazione e angoscia. Non lo consiglio a tutti.

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Thacker tocca i temi seguenti e molti altri: il numero dei miei seguaci su Twitter non ha nessuna rilevanza per il cosmo; quanti passi ho fatto oggi non c'entra con quanto a lungo vivrò; tutti i miei dubbi, le mie ansie, i miei obiettivi faranno la stessa fine: la dimenticanza, la non esistenza; la vita è un momento di veglia passeggero, una breve interruzione del non essere.

Stranamente, tutto questo mi fa sentire molto meglio. Il pessimismo mi aiuta ad adottare una posizione di indifferenza quando le cose sembrano senza speranza, come un salvagente in un oceano infinito, grigio. Invece il pensiero positivo—per me—è un po' come un salvagente sgonfio.

Il pessimismo di Thacker ha influenzato non solo me, ma i mass media e la cultura tutta in generale. La cover del suo libro precedente, In The Dust of this Planet, in qualche modo è finita in un video musicale di Jay-Z. Nic Pizzolatto, autore di True Detective, cita Thacker tra le influenze sul nichilismo di Rust Cohle, interpretato nella prima stagione da Matthew McConaughey. Per l'opinionista conservatore Glenn Beck, il pessimismo di Thacker è una minaccia politica. Nel settembre 2014, Beck ha dedicato una decina di minuti del suo show al "nichilismo pop" e al suo dilagare nella cultura contemporanea, sostenendo che la filosofia di Thacker sia una forma di "eugenetica progressista."

Ho intervistato Thacker per parlare di pessimismo, dell'umiltà di chi non ha risposte e del perché chi vede tutto nero potrebbe vivere una vita più sana e più lunga rispetto agli ottimisti.

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VICE: Quindi tu sei un pessimista?
Eugene Thacker: Non mi definirei pessimista. Il libro parla principalmente di pessimismo e riporta alcune idee dei pensatori con cui mi identifico. Ma sono stufo delle definizioni in generale, con cui invece spesso i filosofi vanno a nozze e che talora si attribuiscono da soli. Alcuni si dicono realisti, o empiristi o realisti speculativi o qualunque altra cosa, ma in realtà le definizioni non significano nulla. Sono solo etichette.

Quindi pensi che sia inutile darti una definizione, e non è quello che vuoi fare in quanto filosofo?
Dichiarare di essere un pessimista è futile perché la gente, quando si tratta di filosofia, pensa che a) hai capito tante cose, b) hai un nome per tutto e c) ora che hai capito tante cose, le condividerai con chi non le ha ancora capite—ma con fare superiore.

Quello che a me interessa sottolineare degli scrittori e pensatori che cito nel libro è che sono molto confusi. Non sanno raccapezzarsi. Sono pieni di incertezze. Spesso, le loro argomentazioni finiscono in invettive. Sono molto umili, e il loro mantra non è so-tutto-io; piuttosto parlano spesso di fallimento e futilità. Un aspetto importante è che nessuna delle persone che cito, come Schopenhauer o Nietzsche, usa il termine pessimista per descriversi. La definizione è stata attribuita loro solo in seguito, dagli storici e dai professori che hanno deciso di etichettarli così. È allora che è iniziata questa mania delle etichette. Ma per me è interessante il fatto che dire "sono un pessimista" sia come screditarsi da solo.

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Che cos'è esattamente il pessimismo?
Dunque, ti posso dare due versioni. C'è la definizione da dizionario, che di solito ha un paio di varianti. Una è che il mondo in cui viviamo è il peggior mondo possibile. Secondo un'altra variante, invece, siamo noi che nella vita siamo destinati a soffrire e a fallire. Mentre la versione più astratta è che la non-esistenza sia preferibile all'esistenza. Ma ancora una volta, se leggi Kierkegaard, Schopenhauer o Nietzsche sarà difficile trovare queste parole nei loro scritti.

Per me, il pessimismo è interessante perché ha a che fare con i limiti del pensiero e i limiti dell'essere umano. E c'è una sorta di cortocircuito tra il pensiero della futilità, e la futilità di pensiero.

Uno studio pubblicato nel 2013 dall'America Psychological Association ha rilevato che "essere pessimisti su quello che ci aspetta potrebbe farci vivere più sani, più a lungo." La ricerca poi conclude, "gli anziani ottimisti corrono maggiori rischi di disabilità." Ti sorprendono questi dati?
Non mi sorprende che venga fuori che il pessimismo è un approccio più sano alla vita. Alcuni libri di filosofia avevano già ipotizzato qualcosa di simile. Penso che quello di cui si parla, però, corrisponda più al realismo—una sorta di visione del mondo semplice, priva di idealismi. L'idea per cui se non hai aspettative, non puoi essere deluso.

Alcuni filosofi sono molto riservati, non parlano delle proprie esperienze private nei loro scritti filosofici. Tu invece parli apertamente del tuo problema con il dolore cronico. In che modo il pessimismo è collegato a questa patologia, se vi è collegato?
Penso che chiunque abbia sofferto di problemi cronici, come depressione o dolore cronico, sappia che una delle cose più devastanti è sapere che questi mali non hanno motivi. Lamentarsi del dolore cronico, poi—quanto tempo hai? La sofferenza è l'alfa e l'omega di molte tradizioni di pensiero: il cristianesimo, il buddismo, la filosofia classica indiana, la filosofia cinese. È interessante perché è universale e relativo al tempo stesso. Tutti soffriamo. Ma c'è sempre qualcuno che soffre più di te, e c'è sempre qualcuno che soffre meno di te. È una di quelle cose concrete e palpabili, ma allo stesso tempo molto difficili da definire.

Quando avevo 22 anni ero in cura per una dipendenza da oppiacei, e ho letto Lo straniero di Camus e anche qualcosa di Kierkegaard. Le idee contenute in quei libri mi hanno aiutato a superare le circostanze in cui mi trovavo molto più della "psicologia positiva" e della letteratura terapeutica—soprattutto quelle banalità spirituali.
Potremmo dire che siano stati quei libri a trovare te in quel momento, piuttosto che il contrario. Il problema è che in Occidente da un lato c'è l'establishment clinico e farmaceutico, e dall'altro tutte le varie industrie di auto-aiuto, alcune di stampo religioso, altre laiche—ma tutte con un fondo 'spirituale'. Paiono essere gli unici strumenti di cui disponiamo per fare i conti con una panoplia di situazioni che vengono patologizzate in modi che non aiutano nessuno.

Per quanto mi riguarda, anche se forse non posso dire di trovarli confortanti, c'è qualcosa che mi spinge a leggere testi che non hanno la pretesa di dare risposte. I narratori e i filosofi confusi, depressi e insicuri mi affascinano e mi coinvolgono, forse perché io stesso sono confuso, depresso e insicuro quanto loro. Preferisco leggere un testo che analizza le incertezze, che pone domande senza necessariamente dare le risposte. Se vogliamo dire che è terapeutico, ok, diciamo così, a me non interessa.

Questo articolo è comparso originariamente su Tonic.