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La guida di VICE alle Elezioni

Ecco cosa rimane delle macerie del PD

I risultati delle elezioni sono stati disastrosi per tutti i partiti di sinistra, non solo per il PD. Ma è su quest'ultimo che ci sono più domande.
Niccolò Carradori
Florence, IT
Renzi alla Leopolda del 2014. Foto di Stefano Bizzarri.

Alla fine del 2014 ero presente al grande sabba della Leopolda. E ricordo bene quanto e come il PD di Renzi—mentre magnificava il risultato delle Europee, e il proprio Presidente del Consiglio—si preparava al "Search and Destroy" della sua seconda fase. Quella della "vocazione maggioritaria". Da allora sono passati poco più di tre anni, e per usare un'altra metafora legata alla guerra del Vietnam, si può tranquillamente dire che il PD dopo le elezioni assomiglia alla Saigon del 30 aprile 1975.

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Che i risultati sarebbero stati deludenti era nell'aria da diverso tempo. Ma un crollo così netto non era pronosticato da nessuno. Tanto che Renzi, fino all'ultimo giorno utile di campagna, ha continuato a ripetere che la battaglia si giocava per "essere il primo partito". Invece è sceso sotto il 20 percento: un risultato peggiore anche rispetto al Pds di Occhetto nel 1994.

Ma questa sconfitta si allarga lungo l'intera asse della sinistra. Anche gli scissionisti di LeU hanno ottenuto un risultato pietoso—3,4 percento—e la Bonino non è riuscita ad andare oltre il 3. Gli unici che hanno manifestato soddisfazione sono i membri di Potere al Popolo, che hanno "festeggiato" l'1 percento durante la maratona di Mentana.

Guardando i dati qui sopra i risultati si spiegano praticamente da soli: i voti dilapidati dalle europee del 2014 ad oggi sono confluiti solo in minima parte ad altri partiti di sinistra, dividendosi poi tra astensione e altri partiti. Una sconfitta netta, la cui analisi deve necessariamente andare oltre i post su Facebook su quanto gli italiani siano analfabeti e razzisti e i propositi di emigrare con l'offerta migliore su Skyscanner.

Innanzitutto prendiamo atto della prima sentenza inconfutabile: queste elezioni segnano la fine di un'intera classe dirigente che per 25 anni ha guidato, posseduto, e rivoltato i partiti di sinistra (D'Alema è arrivato ultimo nel suo collegio in Puglia). E con essa se ne va probabilmente anche una certa sovrastruttura partitica che nel corso del tempo ha saputo generare promesse, attese e negazioni a ciclo idraulico. Una parte della politica italiana che ormai si trascinava avanti per inerzia quasi senza saperlo, dai tempi in cui Berlusconi improvvisò il Popolo delle Libertà dal predellino di una macchina.

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Quello che colpisce, però, è che con questa glassa politica se ne va anche la corrente di centrosinistra nata con l'unico scopo di accantonarla. Sulle motivazioni che hanno reso possibile a Renzi depauperare il 40 percento di fiducia elettorale ottenuto nel 2014 si potrebbe stare a disquisire per ore. Soltanto riducendosi all'ultimo anno: le sue possibilità di poter mettere insieme dei numeri meno catastrofici sono state distrutte dal prolungarsi dell'ultima legislatura? Dopo la sconfitta del referendum, sarebbe stato meglio optare per soluzioni e strategie diverse? Avrebbe davvero dovuto andarsene prima? Sono tutte domande complicate, e tutto sommato inutili adesso.

Sicuramente il renzismo è stato fiaccato dal doversi sobbarcare una classe dirigente sclerotica, dal modo in cui è planata nel dissenso una legislazione che aveva ereditato in un momento complicato, e dalla crescita inesorabile di altre forze politiche che brucavano sulle sue mancanze. Ma è anche incontrovertibilmente vero che il suo modello di "terza fase corporate" è stato un fallimento.

In questo clima elettorale accantonare tutte le responsabilità solo su Renzi sarebbe superficiale e miope: proprio perché, come dimostrano i dati, i voti persi non sono andati in maggioranza alla sinistra del PD. Ma è altrettanto superficiale sostenere che Renzi sia stato sconfitto solo dallo spettro del populismo—che in questi giorni si aggirava per l'Italia con le vesti di Steve Bannon. È tempo di ammettere che il suo sistema non soltanto è crollato, ma è passato attraverso una fase di negazione piuttosto allarmante. Le ultime uscite elettorali di Renzi sono state un giro di schiaffi continui, ma lui ha continuato a sostenere che i suoi numeri erano sostanziosi, e che tutto sarebbe andato bene.

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Ora, è tempo di farsi alcune domande. Aver spostato il gradiente del PD verso il centro più profondo che tipo di giovamento ha portato in termini elettorali? Il suo disinteresse—quasi totale—per le rimostranze di una parte di elettorato che non concepiva le sue politiche neoliberiste, come ha riformato il centrosinistra? La "vocazione maggioritaria", insomma, dove lo ha proiettato dopo questi anni? Se guardiamo ai risultati, la risposta è: ad aver fatto stravincere Pierferdinando Casini a Bologna. "L'orrore," dice Kurtz alla fine di Cuore di Tenebra, "l'orrore."

Tutti le litanie post referendum su quanto il 40 percento dei "Sì" fosse una base da cui ripartire, si sono rivelate false. Erano i resti rimasti nel frigo, che stavano marcendo.

Renzi nell'ultima settimana aveva chiarito a più riprese la volontà di restare segretario anche in caso di sconfitta. Ma dopo un'implosione storica come quella di domenica, non poteva non presentare le dimissioni. Ci si aspettava che, per una volta, analizzasse le mancanze del suo progetto politico. Che prospettasse un'alternativa, prescindendo da se stesso, per far uscire il PD dal pantano. Non è andata esattamente così.

Renzi ci ha messo quasi 19 ore per commentare i risultati elettorali, mentre le voci e le smentite sulle sue dimissioni si alternavano. E lo ha fatto in due tempi. Prima con una conferenza stampa, e poi ribadendo il suo discorso con un video sui social.

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Ha annunciato le sue inevitabili dimissioni, ma ha anche chiarito che verranno formalizzate soltanto dopo che avrà potuto guidare e condizionare il PD in questa fase di contrattazioni politiche. "Come previsto dallo Statuto, ho già chiesto al presidente del PD, Matteo Orfini, di convocare un'assemblea nazionale per aprire la fase congressuale al termine dell'insediamento del Parlamento e della formazione del governo."

Il che, nella pratica, significa che non vuole togliersi di mezzo senza preparare il terreno per il futuro. Di cui lui vuole fare sicuramente parte, anche se attraverso una fase di purificazione da senatore. Lo ha annunciato in nome di una coerenza elettorale che tenta di opporsi agli estremismi, agli inciuci e ai caminetti all'interno del PD. Ma è piuttosto come lo ha fatto che colpisce. Nei suoi due discorsi, non c'è stato nemmeno un secondo di rassegnazione o accettazione. Nessuna presa di coscienza riguardo alla Chernobyl elettorale in cui ha condotto il partito. Renzi ha continuato a negare la realtà.

Nella sostanza spicciola ha addossato tutta la colpa del risultato ai suoi avversari, e all'incapacità—degli elettori che non lo votano—di comprendere quanto la sua sia l'unica via percorribile, e quanto il paese sia immobilizzato dal fallimento del suo referendum costituzionale. Come un Cola di Rienzo che non vuole mollare, Renzi ha utilizzato il commento post-elezioni per far partire una nuova fase elettorale. Dimostrando ancora una volta il suo principale difetto: non riesce mai a parlare agli elettori che perde, ma soltanto a quelli che gli restano.

Le conseguenze di queste "dimissioni a data da destinarsi" si sono concretizzate immediatamente. Luigi Zanda—capogruppo dem al Senato durante l'ultima legislatura—ha commentato, "la decisione di Renzi di dimettersi e contemporaneamente rinviare la data non è comprensibile. Le dimissioni di un leader sono una cosa seria, o si danno o non si danno. E quando si decide, si danno senza manovre." E, come riportano quasi tutti i quotidiani di oggi, è in corso uno scontro con tutta la fazione del PD che non fa strettamente parte della cerchia di Renzi: Gentiloni, Minniti, Franceschini ecc ecc. Renzi ha ancora la maggioranza da segretario nel partito, ma si prepara all'ennesima campagna intestina in vista del congresso.

E qui veniamo al succo del discorso. Se vi state chiedendo "cosa succederà adesso al PD?" la risposta è piuttosto semplice: niente che non sia già successo a rotazione negli ultimi 20 anni. A dimostrazione dell'altro grande fallimento della corrente renziana: partito come riformatore e darwinista, Renzi in questi anni ha dato vita a talmente tanti scontri interni insolvibili da far invidia a Massimo D'Alema.

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