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Quanto è realistica la rappresentazione del clan di Sangue blu in Gomorra?

Ne abbiamo parlato con Marcello Ravveduto, esperto in storia della camorra e sue rappresentazioni mediatiche.
Still della serie.

È sabato, e seduto sulla poltrona reclinabile, fresco di shampoo, chiedo al barbiere come se la passi; che novità ci siano in paese; se quel lampione pericolante di corso Garibaldi sia poi stato sostituito. Banali domande di circostanza. Stavolta, il solito "come stai" è seguito da una risposta inaspettata: "Mi sento avvilito. Stamattina sono arrivati due criaturi che mi hanno chiesto di fargli il taglio alla Genny Savastano." A sentire lui, non sono i primi arrivati con quella richiesta. "Fargli il doppio taglio o la cresta mi fa sentire complice di qualcosa che non sopporto," prosegue. "Questo fatto che Gomorra la vedo ogni volta che giro per strada non la tollero più."

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Ma la questione non attanaglia solo il mio barbiere: la prima stagione non era ancora cominciata e già c’era chi, in politica come sui giornali, denunciava il rischio di emulazione da parte del pubblico. Come se vedere Salvatore Esposito o Marco D’Amore recitare la parte dei camorristi potesse indurre, in una certa fascia di pubblico, la replicabilità di determinati comportamenti: ammazzare un vecchio amico d’infanzia solo perché ti ha ricordato che da piccolo eri grasso o esprimersi con un linguaggio che sarebbe considerato deprecabile a una serata del Rotary.

Ancora oggi queste accuse—dall'immagine "simpatica" dei boss data dalla serie alla loro umanizzazione, secondo le dichiarazioni recenti dei magistrati—rimbalzano da una parte all'altra, mentre nella serie Genny e Ciro sono tornati a Napoli e i "barbudos" del centro storico hanno fatto il loro ingresso nei giochi. Proprio questi ultimi, giovani e con un'estetica ancora più riconoscibile dal punto di vista dei dilemmi del mio barbiere, mi hanno fatto pensare a quanto realistica potesse esserne la rappresentazione. E se, in effetti, una domanda del genere possa avere una risposta precisa nell’ambito di un prodotto che, alla fine dei conti, è fiction. Ne ho parlato con Marcello Ravveduto, docente all’Università di Salerno ed esperto in storia della camorra e sue rappresentazioni mediatiche.

VICE: Parto da alcune dichiarazioni rilasciate ai media dal procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, e dal procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. Secondo il primo, " Gomorra umanizza i boss," mentre per il secondo "ne dà un’immagine simpatica." Che ne pensi?
Marcello Ravveduto: Non parlerei di “umanizzazione”, quanto di “animalizzazione” dei personaggi. In Gomorra vediamo un contesto davvero animalesco, dove non esiste alcun valore etico e dove la violenza esplode anche all’interno delle famiglie, non rispettando più nessuno. Le tragedie cui assistiamo sono frutto di un contesto che provoca crimini abietti, come femminicidi, parricidi o, addirittura, uccisione di bambini. Ecco, in questo credo abbia ragione il coordinatore della Dda Borrelli, quando dice che la camorra raccontata in Gomorra è un’entità paradossalmente tranquillizzante perché consente allo spettatore di distinguersi, di pensare "io sono un’altra cosa."

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Borrelli, però, aggiunge che Gomorra non coglie "l’attuale configurazione della camorra," non rappresentando appieno la contiguità che esiste con la politica, l’imprenditoria, il mondo del lavoro. In due parole: con la società civile. Sei d’accordo?
Solo in parte. Consideriamo, infatti, che nella prima serie c’è tutto un passaggio legato agli investimenti al Nord Italia e a Milano, con rapporti d’affari instaurati fra i clan e un banchiere del posto; oppure, più recentemente, pensiamo alla terza serie e alla figura dell’immobiliarista che mette la sua professionalità al servizio della camorra, pur facendo parte di un mondo sociale esterno a essa. È vero, d’altra parte, che nella serie c’è una dimensione del tutto assente: quella del contrasto alla criminalità. Ma questa è una scelta narrativa: Gomorra decide di raccontare il mondo chiuso del ghetto, delle bande che si distruggono fra loro. Anche la violenza: è sempre tutta interna ai clan, non vediamo mai sparare a un poliziotto.


Guarda il nostro documentario sui tunnel del crimine a Napoli:


Hai citato la terza serie, quella in cui vediamo irrompere i "barbudos" del centro storico. Quanto è realistica la loro rappresentazione?
È realistica nella misura in cui la calchiamo su ciò che sta accadendo oggi a Napoli. Le trasformazioni economiche degli ultimi trent’anni e l’ulteriore solco tracciato fra ricchissimi e poverissimi nella società, riflettono appieno i cambiamenti avvenuti nelle organizzazioni criminali. Da un lato una "aristocrazia" della camorra; dall’altro il sottoproletariato criminale che lotta per ottenere spazi di influenza. Sotto questo aspetto, Gomorra racconta la realtà di oggi: ci sono i giovanissimi che sparano, i "vecchi" che hanno investito nei traffici e sono diventati "aristocrazia", e i "nuovi" che vogliono comandare.

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Una cosa in particolare mi ha colpito: l’estetica di questi nuovi personaggi. Sono tutti sostanzialmente belli, ripuliti, ordinati; laddove le foto segnaletiche dei "barbudos" ci restituiscono, in genere, un’altra immagine, estremamente kitsch.
Attenzione però: è sempre una questione di sguardi e di prospettive. Io con quel taglio di capelli non uscirei mai di casa, ma ciò che per me o per te è kitsch, per loro è glamour. È la violenza stessa a essere glamour; a essere diventata una dimensione del patinato. Su Facebook seguo molti ragazzi che fanno parte dei contesti criminali di Forcella o del Rione Sanità. Qualche giorno fa vidi una foto che mi colpì molto: un selfie di uno di loro, agli arresti domiciliari, con annessa didascalia: "Tu sì che non mi tradirai mai." Sai a chi si riferiva? Al suo barbiere. Nelle foto successive ci teneva a far vedere, con precisione e minuzia, il grande lavoro fatto su capelli, barba e basette. Questi ragazzi sono così: la moda, per loro, è sintomo di potere e ricchezza.

I nuovi clan che vediamo sulla scena nella serie sono molto intraprendenti anche dal punto di vista degli affari. Penso alla filiera dello spaccio: confezionamento delle dosi, stoccaggio, vendita, riciclo di denaro sporco. È una loro caratteristica o è una "estremizzazione" narrativa?
La cronaca di inizio 2017 parla chiaro: i clan del centro storico di Napoli, da Forcella al Pallonetto di Santa Lucia, sono attivi in tutta la filiera, dal confezionamento delle dosi allo spaccio sul territorio, spesso coinvolgendo anche bambini e minorenni. A questo punto mi chiedo se è Gomorra a estremizzare la realtà o se è quest’ultima a superare la serie.

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Altro aspetto importante: il linguaggio utilizzato. Gomorra è ricco di battute a effetto, di frasi brevi e incisive in stile americano, come dimostrano il successo degli "Effetti di Gomorra sulla gente" e l'ossessiva ripetizione di alcuni stilemi, come le " deux frittures" o lo " staje senza penzieri." Ma i camorristi parlano davvero così tra loro?
È un processo che potrei definire di libero scambio. Gomorra incorpora frasi e battute che puoi tranquillamente sentire nei rioni che racconta, ma allo stesso tempo lancia dei trend che il giorno dopo potrai sentire per strada. Questo, però, non significa emulazione. Imitare o riprendere le frasi dei film è un processo nato praticamente col cinema stesso. La lingua è materia viva, c’è una mutualità fra "reale" e "finzione" che non è possibile districare. Senza contare che, in determinate fasce di pubblico, più che di emulazione parlerei di parodia. Hai citato "Gli effetti di Gomorra sulla gente" e lo " Staje senza penzieri," frase che ormai ci fa ridere e ci fa pensare a una dimensione comica che non è quella della serie originaria. Ripeto: la lingua è materia viva. Voler distinguere fra "battute vere" e "battute finte" sarebbe come riproporre la distinzione tra mondo reale e mondo virtuale: non serve a niente.

È pur vero che una serie televisiva che ricade sotto l’etichetta di fiction ha pieno diritto di esaltare gli aspetti creativi e di libera interpretazione, anche nella caratterizzazione dei personaggi. Quanto è sottile, in questo caso, il limite che divide la libera ispirazione da un’esigenza più "documentaristica"?
Chiariamoci: io non sono fra quelli che dicono che Gomorra favorisce l’emulazione, né però sono fra coloro che affermano che questa serie serve a denunciare. Non perché non voglia prendere posizione, ma perché questa è una fiction. Punto. Da un lato abbiamo Roberto Saviano che insiste nel dire che la serie conserva elementi di denuncia; dall’altro abbiamo i magistrati che insistono sulla dimensione opposta. Nessuno che si concentri sulla dimensione puramente narrativa. Gomorra, come ogni altra serie prodotta al mondo, ha un produttore. E quel produttore deve vendere. Solo che il mercato di riferimento non è l’Italia: è il mondo.

Questo cosa comporta?
Abbiamo un privato che guarda a un mercato globale. Un mercato dove la violenza è quella dei ghetti, dal Bronx a Baltimora. Gomorra, come ripeto, non è altro che il racconto chiuso di un ghetto italiano, in questo caso napoletano. Questa dimensione del mercato di riferimento e dei pubblici internazionali non è quasi mai presa in considerazione nei nostri dibattiti sull’emulazione e sull’impatto sociale. Il problema delle mafie è forte in Italia, ed è per questo che il discorso ci solletica. Però bisogna anche dire che questo è il Paese che non fa nulla, nelle scuole, per creare una dimensione culturale nei giovani che li aiuti a fare l’analisi di ciò che vedono in tv. Invece di insistere sul discorso dell’emulazione, dovremmo seriamente cominciare a parlare di Media Education.

In generale, Gomorra—soprattutto parlando di questa terza serie—dà o no un’immagine stereotipata della camorra?
Gli stereotipi sono ovunque, anche in Gomorra; ma servono semplicemente a semplificare e rendere chiara la narrazione. Lo fanno le serie televisive, lo fanno i giornali quando titolano di una periferia che diventa "la nuova Scampia", lo fanno i magistrati quando parlano di "terrorismo metropolitano" riguardo le "stese." Lo stereotipo di per sé non è negativo: è il suo abuso che lo è. D’altro canto, l’unico modo di rappresentare realisticamente la camorra sarebbe quello di mettere delle telecamere in una delle loro case, a loro insaputa, e vedere come si comportano. Ma questa è una logica da “grande fratello” e da intercettazione ambientale che Gomorra non può e non vuole avere. Bisogna guardare a questa serie per ciò che è: una narrazione filmica che fa leva su elementi di immaginario della realtà napoletana e che racconta un’estetica della violenza ormai globalizzata. La stessa di Narcos , di Suburra o di decine di altri prodotti simili. Attaccare Gomorra è riduttivo, significa guardarsi l’ombelico mentre attorno a noi sta cambiando il mondo.

Forse non eravamo pronti? È la prima volta che in Italia viene messa in scena una fiction che racconta il crimine dall’interno, nel suo "racconto chiuso" appunto, senza ricorrere a "eroi" esterni dell’antimafia
Qui torna il discorso sul mercato di riferimento. La tv pubblica italiana costruisce, giustamente, una religione civile intorno a un male che va combattuto, dove è evidente la separazione tra chi fa il mafioso e chi, invece, dedica la sua vita a combattere la criminalità organizzata. La tv di stato guarda a un pubblico nazionale e fa delle narrazioni adatte a un pubblico nazionale. Nel caso di Gomorra parliamo, appunto, di investitori che hanno altri obiettivi e di un racconto dalla dimensione globale.