Se avete mai passato più di due minuti a farvi selfie in cui sorseggiate un Gin Tonic nel tentativo di ottenere la foto giusta da mettere su Facebook per poi rinunciare, se vi fermate a ponderare ogni singola sillaba di quel commento apparentemente casuale che volete lasciare sotto l’ultima foto condivisa da quella vostra collega che vi piace o ipotizzate status passivo-aggressivi da postare per far capire alla persona che vi ha fatto un torto che state parlando di lei senza tecnicamente fare mai il suo nome, ecco, probabilmente avete il mio stesso rapporto con i social. Vi fanno stare male. Siete stanchi delle convezioni sociali, delle aspettative—le vostre e quelle degli altri—e della vostra stessa immagine.
O magari non ne siete pienamente consapevoli. Magari la vostra presenza su Facebook è diventata un’abitudine, un coacervo inconscio di auto-masturbazione e self-branding che si svolge in una camera dell’eco di cui non vedete nemmeno più le pareti e da cui non siete più in grado di uscire. Quand’è che tutto questo è diventato normale? E perché invece non diciamo semplicemente quello che ci passa per la testa? Esiste qualcuno che ci riesce, che condivide e scrive tutto quello che trova interessante fregandosene di ciò che penseranno i suoi contatti?
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I cinquantenni su Facebook, dite? Possiamo imparare qualcosa da loro? Per uscire da questo loop terribile di domande, e poiché mi piace trovare modi nuovi e interessanti di umiliarmi, ho deciso di dare il pieno controllo del mio profilo Facebook a mio padre per una settimana.
Alcune rapide note su che tipo di persona sono su Facebook: fondamentalmente un lurker, uno che non posta quasi mai e si limita a distribuire qualche like e commento qui e là. Osservo molto, intervengo misuratamente, mi mostro poco.
Quanto a mio padre: 1) è stato un produttore musicale, ha lavorato con Donna Summer e Whitney Houston e una volta ha parlato al telefono con Jack Nicholson; 2) è un musicista, ha suonato al Roskilde Festival nel 1995 e nel 1996, ha fatto uscire diversi album e ha scritto persino una canzone di Natale; 3) ha lasciato che lo intervistassi sulla sua vita sessuale. Interessante, no? Ma è anche il tipo di persona che pubblica aggiornamenti Facebook non richiesti in cui parla della lavatrice che ha appena fatto o di un cane che ha appena visto per strada, spesso corredati da prove fotografiche. È pur sempre mio padre, ecco.
Come una madre che guarda suo figlio partire per il fronte, ho dato un ultimo sguardo al mio profilo Facebook e consegnato la password a mio padre. Ho avuto una strana sensazione di nodo in gola.
PRIMO GIORNO
Il primo giorno mio padre ha cominciato postando roba presa da CollegeHumor e facendo test a caso (da cui ho scoperto che “DURO” è la parola che mi descrive meglio).
È stato un po’ come quel momento in cui i tuoi genitori tirano fuori l’album di famiglia per mostrarlo alla tua nuova ragazza. Solo molto peggio. E di fronte a tutto internet. Come mi aspettavo, mio padre ha cambiato subito la mia foto profilo con una di quando ero un pargoletto con gli occhioni. Nei commenti la gente mi dava del “tenerone” ma (inaspettatamente) nessuno è sembrato chiedersi il perché dell’improvvisava valanga di post sul mio profilo. Stranamente la maggior parte dei miei amici di Facebook sembrava approvare il “mio” nuovo approccio. O forse non gli interessavo abbastanza per notare la differenza.
Dopo qualche ora mio padre aveva già condiviso più roba di quanto avessi fatto io negli ultimi mesi. Nel pomeriggio ha persino cercato di fare un po’ di engagement tra i miei circa 570 sfortunati amici chiedendo di indovinare quali gruppi avessi e non avessi mai visto dal vivo. Ho anche scoperto che mio padre ha una capacità di dissimulazione che non immaginavo, perché si è messo a commentare i miei post dal suo profilo per farli sembrare più autentici. E qualcuno dei miei amici ci ha creduto.
Non avevano idea di ciò che li aspettava.
SECONDO GIORNO
Nel secondo giorno del suo nuovo lavoro da social media manager del figlio, mio padre ha optato per un approccio votato alla quantità. Arrivato in ufficio sul mio profilo ho trovato 21 notifiche e altrettanti commenti, like e status a mio nome. È stato come la scena iniziale di Salvate il soldato Ryan, ma con post e hashtag al posto del sangue e dei cadaveri. Un sacco di hashtag.
Nelle ore successive il mio profilo Facebook ha condiviso frasi motivazionali e articoli sulle scoregge delle mucche. Ha fatto check-in presso diversi parchi pubblici durante le mie ore lavorative. La mia carriera a Pokémon GO, che avevo fatto di tutto per mantenere segreta agli occhi del mondo, è diventata di dominio pubblico, condivisa con persone con cui ho parlato l’ultima volta quando facevo le elementari. E la mia nuova immagine di copertina mi ha fatto immediatamente rimpiangere quella per cui mi davano del “tenerone.”
In tutto questo le reazioni dei miei amici di Facebook erano varie ma stranamente per la maggior parte positive. I miei lontani conoscenti sembravano divertiti da questa mia improvvisa scoperta dei social, mentre i miei amici più cari erano perplessi e cercavano senza successo di interrompere il flusso di spam che proveniva dal mio profilo.
TERZO GIORNO
La mattina del terzo giorno una delle persone che lavorano nel commerciale del mio ufficio è venuta da me. “Ma Facebook?,” mi ha detto guardandomi incuriosito. “Che esperimento stai facendo? È una specie di ‘ho usato Facebook come un cretino per un tot di tempo’ o qualcosa del genere?”
Gli ho risposto con entusiasmo simulato di aspettare. Mi ha guardato ancora in modo strano e poi se n’è andato, ignaro della mia totale mancanza di controllo sul caos che gli riempie il feed. Ho appoggiato la testa sulla scrivania.
Intanto era arrivato il primo momento non completamente deludente dell’esperimento. Mio padre, alla ricerca di nuovi contenuti da postare sul mio profilo, aveva scoperto un oscuro tesoro di foto di me da piccolo che non avevo mai visto.
Sopraffatto dalla nostalgia ho continuato a scorrere la mia timeline. È stato solo allora che ho realizzato che alla fine di tutto quanto avrei dovuto scrivere qualcosa tipo. “Ciao a tutti, scusate se vi ho riempito il feed di cose imbarazzanti per una settimana, era un esperimento ahah, qui c’è l’articolo comunque.”
QUARTO GIORNO
Un nuovo giorno, una nuova immagine del profilo. Ormai era diventata la norma. E in questo caso si trattava di una foto risalente al periodo del liceo che non avrei mai voluto mostrare a nessuno. Era finita.
Ma all’improvviso, dopo giorni di spam e post che mi avevano distrutto ogni briciola di dignità, è accaduto l’imponderabile. Mio padre ha condiviso uno di quei post “Qual è il tuo nome da rapper” scatenando una pioggia di commenti.
Ok, pioggia forse è un po’ esagerato. Ma oltre a radunare una folla di persone molto diverse tra loro che va dal mio capo alla mia nonna ultracattolica, il post ha generato una serie di nuovi bellissimi nomi da rapper come “Lil’ Waffle” e “Lil’ Jerusalem Artichoke Soup.” Era la prima volta che un post sul mio profilo riceveva più di 25 commenti. Ottimo lavoro, papà!
La sera mi sono addormentato pensando: Non so se devo essere contento per essere finalmente riuscito a cominciare a usare Facebook o preoccupato perché i miei amici trovano mio padre più simpatico di me.
QUINTO GIORNO
Oltre a esplorare strumenti di Facebook stranissimi, era come se mio padre stesse applicando la sua voce alla mia faccia. Due post con le foto di mio padre quando era giovane e uno sull’eccitazione per un concerto dei Sleaford Mods a cui stavo veramente andando il giorno dopo gli hanno procurato 24 mi piace, ma anche 16 nuovi amici di cui ignoravo totalmente l’esistenza (conteggio amici totali: 586).
SESTO GIORNO
Arrivati al sesto giorno dell’esperimento, era ufficialmente impossibile che ci fosse anche una singola persona tra i miei amici che non fosse stata in qualche modo colpita dal cambio di rotta della mia strategia social. Alcuni erano curiosi e si lanciavano in ipotesi divertite, altre sembravano sempre più… frustrate:
Nel corso della giornata sono stato costretto a ricordare a me stesso in più occasioni che si trattava del mio lavoro, e quindi di qualcosa per cui sono pagato, e che con quei soldi ci pago l’affitto, e che è bello avere un tetto sotto cui dormire.
SETTIMO GIORNO
Come si evince da questo status, mio padre è arrivato al settimo giorno totalmente cosciente del fatto che fosse l’ultimo dell’esperimento. Il mio profilo era un’esplosione di dolcezza smielata mista a amore paterno nostalgico, condito da foto di me da bambino e dichiarazioni d’affetto che mai e poi mai avrei condiviso sui social di mia sponte.
Ma al settimo giorno ci sono arrivato con molto altro. Ad esempio, con un numero infinito di Poke lanciati da mio padre come un’epidemia tra i miei amici di Facebook, per farmi realizzare che sì, quella ridicola funzione di Facebook esiste inspiegabilmente ancora.
Nel frattempo l’esperimento era finalmente finito. Che proporzioni aveva assunto quel disastro virtuale? Aveva causato danni irreparabili a molte delle mie relazioni interpersonali? Senza dubbio. Ma per qualche ragione, ero quasi dispiaciuto che fosse finito. Voglio dire—cosa può venire dopo una settimana del genere? Posso anche solo sperare di essere all’altezza degli standard fissati da mio padre controllando il mio profilo?
Per riassumere, dare a tuo padre il controllo totale del tuo Facebook per una settimana vuol dire far entrare tuo padre in ogni singola conversazione che hai nel corso della giornata. E che hai mai fatto. Con chiunque. Come abbiamo visto, non necessariamente si tratta di una bella cosa. Anzi, è una cosa terribile: non fatela mai. Ma in fondo, non dovremmo tutti essere felici di distaccarci un po’ da quella facciata curata alla Francis Underwood e ricordarci che può essere perfettamente normale far intravedere qualche brandello di verità o lati di sé che si considerano imbarazzanti? Chissà, ci può essere una persona vera dietro la duckface.
Adesso, se mi scusate, vado a spiegare alla mia fidanzatina delle scuola medie perché ho interrotto dieci anni di silenzio con un poke su Facebook.