“Il tuo turno di lavoro su Data Production Labour è iniziato alle 12.37 e si è concluso alle 12.39 […] dovresti ricevere un pagamento di 0,25 pound.” Ho lavorato due minuti per Facebook, ma non mi pagherà mai — almeno per ora.
Queste parole sono state stampate su una striscia di carta dall’installazione artistica Data Production Labour, un piedistallo su cui ho appoggiato il mio smartphone per navigare attraverso la mia bacheca Facebook mentre due videocamere stavano monitorando ed analizzando la mia espressione facciale e la velocità di scorrimento dei miei post.
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Si tratta di un’attività che ciascuno di noi effettua quotidianamente, magati aspettando la metro, mentre si prende il caffè, o anche mentre si cucina. Nel mio caso, però, mi trovavo all’interno della Glass Room, un’esposizione itinerante curata da Tactical Tech e prodotta da Mozilla — che ha fatto tappa a Londra dal 25 ottobre al 12 novembre — e che vuole far riflettere sugli effetti dell’evoluzione tecnologica e della raccolta dei dati sulla nostra società.
Data Production Labour è una delle installazioni presenti all’interno dell’evento, è prodotta dall’Institute of Human Obsolescene (IoHO) e, come mi spiega in una conversazione via mail Manuel Beltrán, artista e fondatore dell’IoHO, ha come obiettivo quello di chiarire e comprendere meglio il nostro ruolo nell’industria dei big data.
“Stiamo attraversando un terreno inesplorato in cui non sappiamo bene cosa stiamo facendo o producendo,” mi spiega Beltrán, “non sappiamo se stiamo utilizzando un servizio oppure svolgendo un lavoro.”
Se negli ultimi anni diversi esperti di tecnologia ci hanno abituato al mantra per cui se ci viene venduto un prodotto gratuitamente allora in quel caso siamo noi il prodotto, con questa installazione la riflessione si spinge oltre.
Non siamo né utenti passivi né il prodotto che viene venduto: siamo dei lavoratori di dati che senza accorgersene hanno il compito di produrre, rifinire e modellare costantemente i dati per il guadagno delle aziende di tecnologia.
Siamo dei lavoratori di dati che senza accorgersene hanno il compito di produrre, rifinire e modellare costantemente i dati per il guadagno delle aziende di tecnologia.
“Semplicemente scorrendo le nostre bacheche su Facebook produciamo notevoli quantità di dati, non serve nemmeno creare contenuti o mettere dei like o scrivere dei commenti,” specifica Beltrán, e questo tipo di lavoro è invisibile e viene sfruttato dalle aziende come Google e Facebook per i loro business con i Big Data.
Il tema che muove la ricerca dell’IoHO è proprio la graduale obsolescenza dell’essere umano nel mondo del lavoro, un’obsolescenza che però non combacia necessariamente con lo smettere di svolgere un’attività lavorativa ma piuttosto con il rischio che vi sia una trasformazione che la rende invisibile e, quindi, più facilmente sfruttabile dalle aziende.
“Ci troviamo effettivamente in una situazione paradossale: chi è disoccupato ma usa queste piattaforme sta in realtà producendo capitale per la società,” chiarifica Beltrán.
I modi per sfruttare al meglio il lavoro di noi utenti sono molteplici, come dimostrano ad esempio i brevetti depositati da Facebook: il sistema di riconoscimento facciale incluso nell’installazione prende spunto proprio da uno di questi e può essere utilizzato per raccogliere informazioni sulla nostra personalità da utilizzare per messaggi pubblicitari mirati.
“Ma dobbiamo pensare anche alle implicazioni dell’utilizzo di tecniche che vengono dal settore delle slot machine per indurre dipendenza verso le notifiche,” sottolinea Beltrán, aggiungendo: “Accetteremmo che il nostro capo modifichi l’ambiente lavorativo in modo da renderci drogati di lavoro? Si tratta di una questione di salute e dovrebbe essere tutelata da quel punto di vista.”
Una volta riconosciuta la nostra nuova posizione di lavoratori di dati, però, “è necessario dare forma ad un’azione politica che ci possa aiutare nel raggiungere ed ottenere dei diritti in quanto lavoratori,” spiega Beltrán, nella forma di un sindacato per i lavoratori di dati.
“Se siamo sul punto di affrontare un nuovo sviluppo tecnologico che modificherà l’equilibrio fra esseri umani e lavoro, quella che noi chiamiamo Obsolescenza Umana, dobbiamo necessariamente far emergere un nuovo livello di scontro politico focalizzato sulla nostra relazione con il lavoro,” chiarisce Beltrán, “e questo permette anche di ripensare la forma dei sindacati in quanto tali.”
Si potrebbe esplorare l’idea di una data basic income: un cittadino disoccupato che utilizza una piattaforma come Facebook potrebbe ricevere un sussidio sulla base dei dati da lui prodotti.
La minaccia reale dell’automazione sui posti di milioni di lavoratori ha portato all’attenzione mondiale forme alternative di welfare, come il reddito di cittadinanza — meglio noto come Universal Basic Income (UBI).
L’installazione presente alla Glass Room mostra chiaramente come i dati che produciamo abbiano un valore e per questo, suggerisce Beltrán, si potrebbe esplorare l’idea di una data basic income: un cittadino disoccupato che utilizza una piattaforma come Facebook potrebbe ricevere un sussidio sulla base dei dati da lui prodotti.
Questo tipo di riflessione, aggiunge però Beltrán, rischia di perpetuare ed espandere la mancanza di controllo sui nostri dati: “il Data Basic Income potrebbe incoraggiare i cittadini a proteggere le strutture alla base del sistema di sorveglianza capitalistico che già estrae i nostri dati senza limit.”
Siamo chiaramente di fronte ad una svolta tecnologica nel nostro rapporto con il lavoro che richiede una presa di coscienza da parte di tutti gli utenti. Al momento siamo dei veri e propri schiavi digitali costretti a lavorare inconsciamente per le stesse aziende che ci offrono i servizi senza che i nostri diritti vengano rispettati. I dati che produciamo scorrendo la nostra bacheca hanno un valore e questo, come mostrato dall’idea del Data Basic Income, richiede una particolare attenzione poiché trasforma completamente il nostro rapporto con la privacy.
Per quanto riguarda invece i soldi che Zuckerberg mi deve: per il momento può attendere ma prima o poi passerò a riscuotere.