Era domenica e di domeniche si muore, come attesta una tradizione musicale che va da Morrissey a Giovanni Lindo Ferretti fino ai Baustelle. Nel tentativo di sfuggire allo spleen che mi attanagliava ero svaccato sul letto a scrollare la bacheca di Facebook, quando mi sono imbattuto nella canzone “Polaroid” di Carl Brave e Franco126. Incuriosito dal titolo e dall’anteprima della canzone (la fotografia di una polaroid) ho deciso di premere play e da quel momento il singolo si è incastrato tra le casse già intrise di lacrime del mio stereo per alcune ore.
Ultimamente ci siamo tutti convinti che l’hip-hop italiano stia vivendo una vera e propria seconda golden-age: le regole della partita stanno cambiando o probabilmente sono già cambiate e giocoforza nel flusso magmatico del cambiamento alcuni elementi si perdono a discapito di altri che invece si rafforzano. Se abbiamo guadagnato qualcosa dal punto di vista delle strumentali e dello swag, abbiamo anche perso qualcosa dal punto di vista della scrittura e tra le nuove leve non sembra esserci una particolare originalità creativa sotto questo aspetto. O almeno, per me è così, e non riesco a considerare i testi una feature secondaria di quello che è, ogni tanto, è il mio genere preferito.
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È proprio su quest’ultimo aspetto che Carl e Franco focalizzano la loro attenzione; in mezzo a questo marasma infatti i due spiccano per la peculiarità della loro formula, che va a coprire una fetta di mercato di cui noi cresciuti a pane e Dj Gruff eravamo rimasti orfani – quella del rap preso male. La proposta musicale dei ragazzi, in linea con altri fenomeni esplosi recentissimamente, propone una scrittura molto settoriale, fortemente ancorata alla concretezza della realtà cittadina che li ha svezzati. I pezzi del duo ricordano da vicino anche il Coez dell’ultimo disco, From The Rooftop, uscito qualche giorno fa e nel quale vengono arrangiati in chiave acustica alcuni brani, suoi o di altri artisti, tra cui Calcutta, la cui matrice culturale sembra essere un po’ il collante che tiene insieme questo tipo di cose.
La settimana successiva a questa fulminante scoperta, comunque, mi sono ritrovato a chiacchierare con i ragazzi assieme a Filippo, il loro videomaker, nel loro studio a Monteverde. Ad accogliermi, tra le Peroni e un divano di pelle nera, ci sono un paio chitarre accostate ad una brandina, che è il posto letto in cui Carl dorme da un po’ di tempo a questa parte. Tra noi scatta subito un’idiosincrasia emotiva particolarmente forte (o almeno, io mi convinco che sia tale) e passiamo il pomeriggio a fare gli adolescenti e parlare dei nostri primi amori carnali e di quelli musicali, da Neffa a scendere. La quantità di testosterone si è ovviamente mantenuta a livelli molto bassi per tutto il tempo.
“Per me è giusto non fare sempre i cattivi. Essere persone emotive e mostrarlo nei pezzi è giusto”, mi dice Franco, al quale piace l’accostamento con la scrittura di Calcutta che gli suggerisco: “Per me è bello se mostri una cosa che sia tua, una cosa veramente tua”.
Quando gli butto lì la definizione di emo-rap si mostrano un po’ guardinghi e correggono il tiro: “Più che di emo rap, si potrebbe parlare, tipo, di indie-pop-rap”. Nel frattempo ne approfittano per respingere le accuse di furberia che si potrebbero muovere alla loro scrittura: a loro di essere alla moda non importa molto, se scrivono così è perché sono così, e basta. Ad influenzare la loro sfera emotiva e allo stesso tempo a favorire la loro coesione sono stati sicuramente due eventi molto drammatici avvenuti quando avevano diciassette anni, cioè la scomparsa di due amici, Nicklas e Giovanni: “Cose del genere ti segnano, soprattutto a quell’età. Forse è anche per questo che tra di noi c’è questo rapporto: il nostro vissuto è identico”, mi rivela Franco.
Proprio la coesione stilistica è il punto di forza del duo, affinata attraverso un sapiente labor limae in studio: “Il gusto per i dettagli è sempre stato nelle nostre corde, ma con Carl è nata proprio una chimica particolare”, mi dice Franco. “Io prima non scrivevo così, mentre con lui le parole mi vengono di getto”.
Quella di Carl e Franco è una scrittura che procede per enucleazione: i due riescono a restituirci il loro immaginario di appartenenza attraverso dei semplici micro-scatti che fotografano dei dettagli paesaggistici tipicamente urbani -le scritte Acab, i rom e le buste CRAI- e soprattutto romani -lo zozzone- e tutti questi elementi immediatamente riconoscibili contribuiscono a creare una fortissima empatia con l’ascoltatore.
Carl e Franco insieme ai loro amici e compagni di “crew”.
Queste immagini, slegate l’una dall’altra, sono accomunate solamente dal contesto cittadino, cioè lo sfondo che le contiene tutte: sarà l’ascoltatore, poi, a dover completare le varie canzoni, ricamandoci sopra e innestandovi il suo vissuto personale.
“Il primo pezzo è stato “Solo guai”, a cui è seguito “Sempre in due”. Quando abbiamo visto una risposta della gente, ci siamo convinti che questa roba funzionava e abbiamo continuato a farla”, dice Carl, che ci tiene a evidenziare anche l’importante presenza femminile ai loro concerti, in controtendenza con quello che succede di solito, ma non sempre, ai concerti rap. “Il progetto Polaroid non è un vero e proprio disco, sono dieci canzoni che rappresentano altrettanti rullini della Polaroid. Usciranno pezzi nuovi fino a Febbraio e poi il tutto uscirà in vinile, arricchito da due tracce in più”.
Sono dieci ritratti, o più precisamente dieci ricettacoli di ritratti – ciascuna canzone contiene diverse immagini estrapolate da una quotidianità in cui tutti, non solo i romani, possono rispecchiarsi. Chi, ad esempio, non ha mai scritto un papiro di cazzate con le emoticon su Whatsapp alla tipa per cui è stato sotto per mesi, magari ricevendo in cambio un bel due di picche? (Io di sicuro almeno mille volte, ed è soprattutto colpa dei miei gusti musicali, ma tanto non imparerò mai). Al di là di tutto, comunque, se la loro scrittura è fortemente intimistica, scherza Franco, “è perché siamo un po’ dei piagnoni. Capirai, c’ho una fissa da un paio d’anni, la chiamo la mia futura ex moglie. Sai gli alimenti che je dovrò dà?”. A quel punto la mia curiosità è troppa, mi trasformo per l’occasione in Gossip Girl e pungolo anche Carl per costringerlo a rivelarmi qualche dettaglio in più sulle sue vicende amorose. “Io non ho storie serie da un po’, cioè, almeno non di quelle in cui poi ci rimani di merda alla fine”, ride. “Ma adesso sto uscendo con una da un po’ e vedremo…”.
Un altro punto di forza del progetto Polaroid è la musicalità. Carl, che oltre a rappare è anche il beatmaker del duo, stende dei tappeti sonori nei quali s’inseriscono in maniera molto armonica chitarre e violoncelli. “È anche per questo che la nostra musica piace molto anche a mia madre”, mi dice Franco. “E a mia nonna”, aggiunge Carl. “Il nostro occhio per i particolari poi si sposa bene alla musicalità delle chitarre e dei violoncelli, perché ovviamente dei pezzi così sulla trap non puoi scriverli”, mi dicono.
E proprio chitarre e violoncelli sembrano essere il collante che fa sì che tali pezzi piacciano anche a mamma e nonna: per i tappeti sonori, i due si rifanno ai classici di una certa romanità anni ’70 e ’80: “In macchina stiamo con Venditti, Tiromancino, Califano che è proprio culto”. La Polaroid è uno dei simboli preferiti dei romantici di tutto il mondo, eternato dal famoso inno Gentlemen take polaroids dei Japan, gruppo cardine dell’ondata new-romantic capitanato da David Sylvian; forse è per questo che il retroscena dietro alla composizione del pezzo segue la stessa scia. “Ho beccato per caso questa violoncellista vestita di rosso, erano un po’ di sere che la vedevo per strada”, mi racconta Carl. “Alla fine mi sono deciso a fermarla e a chiederle di suonare in un nostro pezzo”.
Non dimentichiamo comunque che i due vengono dal rap. Franco sembra essere l’old schooler del gruppo. “Visto che a nessuno gliene fregava niente degli incastri con le sillabe e in generale dei tecnicismi, siamo passati a fare queste cose, molto più musicali, ma che permettono di valorizzare il contenuto dei testi. Io ho ascoltato per una vita Dj Lugi, Neffa, Dj Gruff… Stavo in fissa anche con le cose più cervellotiche, come Dargen D’Amico”. Dal canto suo, Carl adora tuttora Tormento e i Sottotono.
Un momento della giornata particolarmente struggente è quando gli racconto del mio primo amore finito di merda, sullo sfondo di una Villa Pamphili evocata in un pezzo di prossima uscita e che mi fanno ascoltare in anteprima. Le mie confessioni non richieste innescano una reazione che costringe Carl, due secondi dopo, quasi a smarcarsi, trattenendo una risata: “Di Franco c’è pure la parte da scopatore seriale, comunque”.
Poco prima di andarmene a malincuore, mi viene in mente una frase che ho letto ultimamente in un’intervista di David Foster Wallace, secondo il quale sulle psicopatiche si può dire quel che si vuole, però almeno sono loro a fare la prima mossa. “Minchia se è vero, c’ha troppo preso”, fanno i due all’unisono. “La prima storia d’amore è sempre così, no? Pensi che sia per sempre, tutto quello che è bello è bellissimo e tutto quello che è brutto è bruttissimo. Però poi…”
Però poi non resta che mettere “Polaroid” in loop.