Ho provato a rifare la maturità dieci anni dopo

Avete presente quella litania secondo la quale gli anni del liceo rappresentano il picco massimo della cultura generale che uno studente può raggiungere, e che l’esame di stato è un’esperienza di cui si serberà sempre o un ricordo spaventoso o una contemplazione nostalgica della gioventù e di Antonello Venditti? Ecco, per me non è stato niente di tutto questo. Mi ricordo solo vagamente quali erano le tracce del tema o le domande della terza prova, e la “notte prima degli esami” non ho avuto nessun tipo di catarsi o epifania: alla cena di classe ci ho provato con la stessa compagna con cui ci provavo da anni, fallendo miseramente.

Il mio esame di maturità al classico fu completamente giocato su una specie di compromesso empatico-pietistico per il quale—con estrema umanità e comprensione—in fase di ammissione le mie professoresse tennero conto di quanto le pessime condizioni psicologiche in cui versavo avessero gravato sulle mie presenze in classe, e nonostante avessi finito tutti i libretti delle giustificazioni su cui ero riuscito a mettere le mani, e accumulato pure un paio di insufficienze gravi, mi graziarono. Ho esultato per quell’ammissione come l’avvocatessa Bongiorno per l’assoluzione di Andreotti.

L’autore durante la seconda prova. Tutte le foto di Vincenzo Ligresti.

Dopo quella iniezione di amiodarone nel ventricolo destro, il resto dell’esame l’ho vissuto letteralmente a palle all’aria: era fatta. Ho scritto in fretta e furia una tesina orribile che ripercorreva tutte le idiozie che pensavo di aver capito della vita, poi ho studiacchiato un po’ di schemi che le mie compagne materne e giudiziose avevano preparato per il ripasso, e ho sostanzialmente confidato nelle poche materie in cui sapevo che me la sarei cavata. Alla fine, quasi senza accorgermene, sono uscito con 72: un voto che assolutamente non meritavo.

Videos by VICE

Comunque sia il punto è che non ho vissuto quasi per niente il mio esame di stato—o l’ansia, l’apprensione e il senso di limite superato che avrei dovuto provare.
Per questo motivo, e anche per testare effettivamente in cosa consista il lascito di cultura generale di cui tanto si parla, ho deciso di ripeterlo nuovamente, a dieci anni di distanza. Sostenendo le prime due prove in contemporanea con i maturandi di tutta Italia, e facendomi spedire via mail un fac simile della terza prova da un mio ex professore. Ogni prova, scannerizzata, sarebbe poi stata valutata da alcuni docenti che avevo contattato per l’occasione.

Ho deciso di limitarmi agli esami scritti, visto che nessun professore o collega è parso disponibile a sentirmi parlare più di quanto non faccia di solito.

La prima prova.

Il mio programma era più o meno questo: nella prima prova avrei completamente lasciato perdere l’analisi del testo, visto che non mi ricordavo niente degli autori, e mi sarei buttato sul tema di ordine generale, visto che scrivo cazzate per vivere. A dieci anni dai miei “quattro” ripetuti in greco e latino, però, l’unica soluzione per poter sfangare la seconda prova era quella di copiare spudoratamente, sfruttando il fatto che il fantomatico “membro esterno” redazionale incaricato di controllarmi sarebbe stato Mattia Salvia, l’uomo che ha camminato cinque ore per Milano vestito da se stesso. Per la terza prova invece, visto il tempo, la variabilità delle domande, e il fatto che mi sarei dovuto affidare solo alla mia cultura generale, avrei pregato San Gennaro.

Per prepararmi psicologicamente ho deciso di regredire mentalmente e adottare lo stile che avevo costruito negli anni liceali, e che mi aveva permesso di concupire il cuore delle mie professoresse di italiano: uso barbaro della retorica romantica da studente che crede nella bontà delle idee e del mondo, pomposità stilistica intrisa di Napalm, e quel tipo di tono saccente che è sempre il vessillo dei compagni di scuola che ti ricordi di aver odiato di più quando ripensi al liceo.

All’uscita delle tracce ufficiali, mercoledì, ho velocemente passato in rassegna le varie proposte—Eco, voto alle donne, rapporto padre figlio, PIL, l’esplorazione dello spazio. Desolazione. L’ultima rimasta, la tipologia D, prevedeva di argomentare una filippica di Piero Zanini, che non sapevo neanche chi fosse, sul concetto di “confine”: proprio il genere di argomento vasto e rarefatto su cui uno studente dall’ego ipertrofico può affondare i denti.

Il mio tema nell’ordine ha previsto: introduzione costruita solo per usare termini desueti che secondo il mio io 18enne mi avrebbero subito fatto sembrare colto, riferimenti a massime della vita incredibilmente vaghe ma che sembrano sempre molto profonde per dare un’ossatura al testo, riflessioni su dinamiche politiche di una complessità estrema ridotte a una fiaba per bambini—in questo caso un “pensierino” sulla nascita dello Stato Islamico, visto che fa tanto attualità—citazionismo selvaggio di autori intelligenti fatto con finta nonchalance, sostanzialmente stravolgendone i contenuti (in questo caso ho citato una teoria che mi sembrava di aver letto in Stigma, di Erving Goffman) e un finale capace di dare un po’ di speranza.

La mia strategia ha pagato, perché sono riuscito a prendere 14/15 nonostante due errori di ortografia (e una nota della professoressa che sottolineava come le scelte lessicali tradissero la mia vera età, in rispetto alla richiesta di correggere la prova come se fossi stato un diciottenne qualunque). Se frequentate il penultimo anno di liceo, quindi, tenete bene a mente i miei insegnamenti, perché dopo dieci anni funzionano ancora perfettamente.



Il giorno della seconda prova sapevo con certezza che, passati appena due minuti dalla consegna della versione di greco, in rete sarebbe stata disponibile la traduzione. Quindi con molta eleganza ho deciso di indossare degli anfibi a giugno, in modo da nascondere il mio smartphone agli occhi dei colleghi e copiare, drenando al contempo ogni liquido dai piedi. Ho cercato di dare una lettura alle prime righe nel tentativo di decifrarle, e devo dire che dopo un decennio mantengo la stessa concezione del greco antico che deve averne Daniele Interrante.
Ho ricopiato il testo di Isocrate sbirciando nell’incavo dei miei anfibi e tentando di cambiare il testo per simulare qualche svista e non destare sospetti, mentre rimuginavo sulla ironica coincidenza legata al fatto che il brano riguardasse il valore dell’onestà.

L’autore e il professor Salvia.

Alla fine ho strappato un 12/15 rubatissimo, e la gentilissima professoressa che ho interpellato per la correzione si è anche soffermata sulla mia supposta onestà nello svolgere la prova. Professoressa a cui pongo le mie più sofferte scuse.
Anche durante la mia maturità avevo copiato con lo stesso metodo infilandomi un bigliettino nell’incavo del calzino e accavallando le gambe, ma non sono riuscito a rivivere quel senso di terrore che si prova quando si è sul baratro dell’invalidazione e di un’estate passata a strappare erbacce dalle aiuole sotto gli occhi di tuo padre. Una delle poche emozioni che ricordo di aver provato durante l’esame di stato.

Ora: sfortuna ha voluto che la mia terza prova fosse composta da due materie, matematica e fisica, che avevo avuto anche nella terza prova di dieci anni prima. E che avevo lasciato completamente in bianco—operazione che ho ripetuto con perizia anche in questo viaggio nel passato. La mia professoressa di matematica del liceo, che durante gli anni si era battuta per la mia bocciatura con la stessa passione di Carlo Il Temerario per il trono di Francia, sarà felice di sapere che non mi sono mai redento.

La terza prova.




Le altre due materie erano filosofia e storia. Della prima mi ricordavo soltanto cose vaghe e probabilmente sbagliate, la seconda invece—grazie alla mia stima per Alberto Angela, e alla mia ossessione per i documentari di History Channel sull’Operazione Barbarossa, e al fatto che l’ho sempre studiata volentieri—era la mia unica certezza. Quindi ho impiegato tutto il tempo cercando di allungare il più possibile le mie risposte di storia—domande sul Risorgimento, sul Trattato di Versailles del 1919 e sull’entrata degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale— e mettendo insieme qualcosa che potesse sembrare credibile in filosofia: una domanda sull’idealismo di Hegel e un confronto della definizione di Fenomeno in Kant e Schopenhauer.

La terza prova è stata sostanzialmente la cartina tornasole del fatto che su di me il liceo ha lasciato un’impronta culturale piuttosto flebile: in storia ho strappato un 12/15 (che dopo dieci anni è comunque molto buono), mentre in filosofia—in cui avevo sempre avuto buoni voti al liceo anche se fondamentalmente mi faceva schifo—non sono arrivato alla sufficienza. La mia articolatissima risposta al secondo quesito è stata “per Kant il Fenomeno è l’oggetto della conoscenza umana. Per Schopenhauer è semplicemente un’illusione, ovvero quello che lui definisce il velo di Maya.” Basta.

Considerate le materie in bianco, la media della mia terza prova è stata 5/15: in un simile scenario—sommati i pochi punti che avevo accumulato negli anni precedenti—pur di strappare un 60 avrei dovuto presentarmi all’esame orale tentando di compiere un’impresa, visto la probabile scena muta di rimbalzo a matematica e fisica.

La tesina.

Fortunatamente l’insegnamento più sincero che mi ha lasciato il liceo è che alla pietà degli educatori pagati dallo stato non c’è mai fine, quindi penso che mi sarei presentato con la stessa tesina che portai al liceo, L’angoscia di convivere con se stessi. Una summa di tutte le mie nevrosi tardo-adolescenziali, in cui avevo sommato considerazioni sugli attacchi di panico, su David Foster Wallace, su Kierkegaard e sulla mia generale disperazione. Un’arma infallibile per affacciarsi alla maturità della vita: la commiserazione.

Si ringraziano la professoressa Annamaria Berruto e la professoressa Marina Lugetti per la collaborazione nella correzione delle prime due prove.

Segui Niccolò su Twitter.