Ho rivisto mio padre dopo otto anni ed è stato terribile

La metro di Milano, uno dei luoghi di questa storia. Foto via


Flickr.

A volte passano letteralmente mesi senza che io e mio padre ci sentiamo, e quando lo facciamo ci limitiamo a qualche mail in cui fingiamo l’uno con l’altro. Lui finge di interessarsi alla mia vita chiedendomi cosa studio o faccio, e io alla sua cavandomela con qualche domanda sul lavoro e la sua nuova famiglia. Per Natale e per il mio compleanno—quando si ricorda—mi spedisce dei soldi. Io lo ringrazio e lui mi dice “non spenderli in birre.”

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In verità è più facile di quello che sembra: non riusciamo più a parlare perché lui non sa niente della mia vita. Non conosce la mia ragazza, i miei amici, il mio gatto e il mio lavoro. È convinto che giochi ancora a calcio, e ogni tanto mi chiede della mia migliore amica, che è morta qualche anno fa. Non è una cosa che mi fa stare male e non si tratta tanto di cinismo, è più una questione di abitudine. Da quando i miei hanno divorziato otto anni fa mio padre vive in Germania, e le uniche cose che ci legano sono il suo materiale genetico e uno scatolone di dischi che non ho il coraggio di vendere né di ascoltare.

Con tutta l’imparzialità che può avere un bambino che osserva un genitore, posso dire che mio padre era un uomo affascinante. Ci sapeva fare con le persone: faceva ridere i miei amici quando erano con me, e la sera faceva ridere i suoi. Non posso nemmeno dire di aver avuto una brutta infanzia. Mio padre era presente—o almeno mi sembrava che lo fosse—e questo bastava; non so bene cosa sia andato storto con mia madre e poco mi interessa.

Nei miei ricordi fra i due lui era quello “buono”, quello che prima di uscire mi dava gli spiccioli di nascosto e non si incazzava se facevo tardi. In qualche modo però era anche quello che affrontava tutto con superficialità—solo che questo l’ho capito molto dopo.


Negli anni dell’adolescenza ho imparato a convivere con questo rapporto fatto per lo più di riassunti sulle nostre esistenze, così quando qualche mese fa sono stato preso per uno stage a Milano gli ho scritto una mail per informarlo. Mi ha risposto dicendomi che non aveva mai visto Milano e che ci sarebbe passato volentieri per venirmi a trovare.

Lì per lì non ho dato particolare peso alle sue parole, semplicemente perché pensavo sarebbe stata una delle sue promesse poi non mantenute. Questo fino a quando un pomeriggio, mentre ero in ufficio, non mi è squillato il telefono e sullo schermo è comparso il suo numero. Non so perché, ma non ho risposto, e solo la sera gli ho inviato un messaggio per chiedere della chiamata. Mi ha scritto dicendomi che era in viaggio per Milano: si sarebbe fermato un paio di notti lungo la strada e mi avrebbe raggiunto per il weekend, chiamandomi una volta arrivato. Mio padre mi stava venendo a trovare, dopo otto anni che non ci vedevamo in faccia.

I giorni successivi li ho vissuti in una sorta di silenzio effervescente dominato dal costante pensiero di come sarebbe stato rivederlo, dalle cose che avrei potuto dirgli, e soprattutto da come gliele avrei dette. La sua visita mi stava letteralmente ossessionando: pensavo a quali scarpe mettere, che atteggiamento tenere, che discussioni introdurre, e cosa bere. Volevo dimostrare a tutti costi di essere diventato un adulto.

Venerdì sera poi è arrivata la sua chiamata: si era perso in zona San Siro e mi chiedeva di raggiungerlo. Mentre me ne stavo seduto in metro verso quella parte di città non riuscivo a tenere ferme le gambe, e sentivo una sensazione di ansia crescente. Una volta salite le scale dell’uscita, che danno sulla curva dello stadio, l’ho visto: mio padre, sorprendentemente ingrassato e con in spalla uno zaino bruttissimo. Mi ha guardato e ha sorriso, dopodiché ci siamo abbracciati con un po’ di imbarazzo.

“Hai i capelli lunghi! Ti stanno bene,” mi ha detto rompendo il silenzio. Avevamo entrambi fame, così abbiamo deciso di andare a mangiare qualcosa. “Vorrei mangiare il pesce, non sai quanto mi manca.” “Pesce a Milano?! Va bene, andiamo,” ho risposto. Abbiamo trovato un ristorante che con poco più di 20 euro a testa offriva un buon menù da tre portate, più il dolce.

La cassetta coi dischi. Foto dell’autore.

Una volta seduto ho ordinato una chiara media e per ammazzare l’imbarazzo e il silenzio mi sono guardato un po’ intorno: il ristorante era un classico locale a gestione famigliare, e i tavoli erano occupati da famiglie o colleghi di lavoro che parlottavano del più e del meno. Al muro c’erano delle foto di Ronaldo ai tempi in cui giocava nell’Inter, in posa assieme ai proprietari, e in sottofondo suonava un pezzo che avevo sentito altre volte ma che non ero in grado di riconoscere. Mentre stavo per chiedere a mio padre che pezzo fosse è tornato il cameriere con il taccuino delle comande.

Abbiamo scelto il menù del giorno e fatto un brindisi. Era come se tutti quei gesti nervosi, e i sorrisi stirati, fossero un modo per dilatare il tempo che precedeva il momento in cui avremmo dovuto confrontarci davvero; la verità è che avevo tante cose da dire, ma non riuscivo ad aprire bocca se non per formulare domande sul viaggio e frasi di circostanza su quanto Milano fosse costosa. Poi, improvvisamente, è stato mio padre a fare una domanda diversa dalle altre: “Come sta tua sorella?”

Io ho 23 anni e mia sorella dieci meno di me: com’è facilmente intuibile non ha mai condiviso molto con mio padre. “Sta bene, è grande ormai. Le sono cresciute le tette. Ne va ingenuamente fiera,” ho risposto. Fino a quel momento la sua domanda era stata la più simile alla conversazione che avrei veramente voluto affrontare, eppure in quel momento ho sentito il bisogno di alzarmi e con una scusa sono andato in bagno. Mi sembrava di avere paura. Quando poi sono tornato al tavolo, la cameriera ci aveva portato dell’insalata di polipo, del limone a parte e del pane.

Il cibo sul tavolo offriva nuovi spunti di discussione—i polipi sono animali strani, chi mette il limone sul pesce?—ma ormai mi era chiaro che rimandare non aveva alcun senso. Così mi sono preso un attimo per articolare bene i pensieri e con lo stesso tono gli ho chiesto, “Perché non sei mai tornato a trovarci?” Dopo aver cambiato espressione ed essersi passato una mano tra i capelli si è fermato un secondo. “Pensi che non lo abbia voluto fare?,” mi ha detto. Non aveva risposto alla mia domanda. “Ci ho provato tante volte ma poi le cose con tua madre… La mia nuova vita, il lavoro e soprattutto sono rimasto fregato dal tempo che passa. Capisci?” Ovviamente non capivo. “Sembra banale, ma più il tempo passava più non riuscivo psicologicamente ad affrontare la situazione. Mi sono fatto mille promesse e le ho infrante tutte. Non ci riuscivo, non riuscivo a rivedere i miei figli.”

Ho tentato invano di esprimergli il mio pensiero su tutta la questione, finendo per mettere insieme delle frasi inconcludenti che non sono nemmeno in grado di ricordare. Tutto quello a cui riuscivo a pensare in quel momento era quanto fossi deluso da me stesso per non riuscire ad arrabbiarmi con lui—in pratica, mi sono accorto di colpo di come in tutto quel tempo non avessi fatto altro che rassegnarmi.

Si è comunque scusato, o almeno ci ha provato. Poi ha tirato fuori dal suo zaino un regalo per me. Era un disco, si vedeva. L’ho ringraziato dicendo che lo avrei aperto a casa. Poi è arrivato il primo e abbiamo continuato a mangiare, a bere, e a parlare d’altro.

Per la prima volta ho potuto dare uno sguardo adulto a mio padre; parlando del più e del meno ero riuscito a capire cose che non vedendolo da quando ero bambino non avrei immaginato, anche se piccole. Ho scoperto quanto poco capisse di politica estera, e che Faletti va un sacco di moda in Germania. E nonostante fossimo in quella strana situazione imbarazzante e bloccata, c’erano persino dei momenti di strana intimità non espressa. I piccoli tic, i modi di muoversi e gesticolare, un neo sull’avambraccio: mi hanno ricordato quanto conoscessi bene la persona che avevo davanti anche se non l’avevo sentita mai tanto lontana. Credo che per lui sia stato lo stesso; non ero più il bambino che aveva lasciato, ma un adulto che reggeva l’alcol meglio di lui.

Nel frattempo mio padre aveva iniziato a raccontarmi del suo lavoro, delle storie dei suoi pazienti e dei suoi nuovi hobby. Stava cominciando a esserci un abbozzo di comunicazione più sincera e meno forzata, così siamo rimasti un sacco di tempo seduti a quel tavolo. A un certo punto, però, ha iniziato a vibrarmi il telefono. Mi arrivavano in continuazione messaggi da amici e colleghi, e nel giro di pochi minuti i servizi di news a cui sono iscritto mi hanno riempito la casella postale. Twitter era impazzito, così come il feed di Facebook. Era la sera del 13 novembre.

Nella grande sala del ristorante la musica aveva lasciato spazio alle notizie sui fatti di Parigi e il Bataclan. Mio padre mi ha chiesto degli Eagles Of Death Metal e della città. Gli ho raccontato delle volte in cui c’ero stato e di quanto mi piacesse. Piano piano quella notizia improvvisa ha riportato un po’ di freddezza fra di noi, e consapevoli che non avremmo recuperato le fila della nostra conversazione abbiamo deciso di pagare il conto. Fuori dal ristorante gli ho dato le indicazioni per arrivare all’hotel dove aveva prenotato e ci siamo salutati, dandoci appuntamento per il pomeriggio dopo. Io mi sono fumato una sigaretta da solo, e poi sono salito in metro mentre il cellulare mi informava delle vittime.


Anche oggi, a mesi di distanza, non ho problemi a definire quella sera tra le più tristi della mia vita. In metro mi sono messo la musica e ho continuato a seguire i live tweeting dalla Francia. Davanti a me c’era un gruppo di ragazze, tutte truccate e in tiro per qualche serata in discoteca, anche loro intente a commentare i fatti di Parigi. Alla fermata successiva hanno preso il loro posto dei tamarri con delle bottiglie di birra che ascoltavano musica dalle casse del telefono. Erano cinque o sei, e hanno iniziato a fissarmi e soprattutto a deridermi quando sono scoppiato in lacrime.

Mio padre mi aveva inviato un messaggio dicendo che sarebbe dovuto tornare in Germania il giorno dopo per un’urgenza al lavoro. Quando sono arrivato a casa ho bevuto un paio di bicchieri e mi sono ricordato del disco che mi aveva regalato. L’ho aperto e messo su. Faceva schifo.

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