Qualche giorno fa è morto Gianni Boncompagni, e la mia bacheca Facebook si è riempita di battute su Ambra Angiolini “rimasta senza parole”—Ambra era la conduttrice di Non è la Rai e veniva radioguidata in auricolare da Boncompagni, che ne era il regista: L’AVETE CAPITA?
Ad ogni modo Boncompagni, nel bene e nel male, ha segnato decenni di radio, musica e televisione nazionale. Ha sostanzialmente inventato l’intrattenimento radiotelevisivo italiano quasi da zero. Ha fatto cose che oggi tutti gli riconoscono o rinfacciano. Ma per me, quelli della mia età e la mia bolla social, Boncompagni era quello della battuta su Facebook: la voce nell’auricolare di Ambra a Non è la Rai.
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Questo perché per la mia coorte anagrafica (sto cercando di non usare la parola “generazione”) Non è la Rai è stato particolarmente segnante. Segnante al punto che ancora adesso “T’appartengo“, la hit nata proprio da quel programma, se la gioca solo con “Wannabe” e “Rock Your Body” come prima scelta musicale nei karaoke, per tutti, ogni volta—come se l’Italia fosse un’enclave neomelodica nel mercato pop mondiale degli anni Novanta, così come Napoli lo è per quello nazionale.
Mi sono sempre chiesto quale fosse la ragione di questa specie di mania generazionale (ops) riconducendola al fatto che qualsiasi cosa sia minimamente ricollegabile a quel decennio sta effettivamente subendo—da qualche anno—una rivalutazione gratuita e molto spesso esagerata. Ma non basta a spiegare: non basta aver vissuto un certo periodo per provare nostalgia di tutto ciò che c’era intorno. Non puoi commuoverti per il Game Boy o il Tamagotchi se non te li potevi permettere.
Ambra invece era gratis, se eri disposto a sorbirti i product placement di Dietorelle.
Personalmente ho il vago ricordo di me che lo guardo dopo pranzo, quasi ogni giorno: lo facevano le mie cugine, lo facevano i miei amici di scuola, lo facevano i vicini di casa, e i miei compagni di calcio potevano vantare una conoscenza ragguardevole dei nomi e delle preferenze delle ragazze del programma. Eppure non ricordo cosa si facesse effettivamente in quell’ora e mezza di televisione: so solo che bisognava farlo, e lo facevo senza quella smania ormonale che ho saputo più tardi essere uno dei richiami del programma—avevo meno di dieci anni, e ridevo alle battute sconce dei miei amici senza capirle davvero.
In età più adulta, a causa della famigerata puntata in cui Ambra sotto elezioni ricordava a tutti che il Diavolo vota Occhetto e che il Padreterno vota Berlusconi (lo stesso che definiva il programma “Paradiso terrestre“), ho poi imparato a collegarlo al concetto di “egemonia culturale-televisiva berlusconiana” e a collocarlo nel contesto della “propaganda a bassa intensità” delle reti Mediaset—più altre formule a caso tratte dagli editoriali di Repubblica negli anni Zero.
C’era altro, oltre a questo? Per scoprirlo, ho pensato di sacrificare 90 minuti della mia vita adulta e vedere una puntata di Non è la Rai dopo circa 20 anni dall’epoca in cui lo guardavo.
Per prima cosa, ho scelto la puntata di un 16 settembre a caso che ho scoperto essere della terza stagione, 1993-94: è la stagione di “Occhetto-Satana vs Berlusconi-Dio”, è la prima condotta solo da Ambra, ed è quella più Non è la Rai di tutte: niente Bonolis o Bonaccorti, niente giochi telefonici in stile RaiUno. Solo un’ora e mezza di piscine e giubilo gratuito da condividere con altri tre milioni di spettatori alle due del pomeriggio—numeri che adesso andrebbero benone per un primetime di Canale 5.
Il primo dato col quale ho dovuto scontrarmi, però, è che in effetti—per almeno mezz’ora—non succede ASSOLUTAMENTE nulla: Ambra presenta delle ragazze, queste ragazze cantano in playback vecchi brani in versione funky con basi da pianobar da lido dell’alto Tirreno cosentino, e tra un’esibizione e l’altra passano solo pochissimi secondi.
Malgrado si tratti del più esemplare e sfacciato caso di playback mai mandato in onda sulla tv italiana, l’effetto ‘improvvisazione’ resta abbastanza evidente e salvaguardato dal fatto che ogni volta che le ragazze del pubblico—che sono sia protagoniste che pubblico—vengono inquadrate, fanno palesemente finta di cantare senza conoscere le parole, esasperando le mossette in camera e producendo risultati come questo.
Ogni cosa viene rimarcata, spiegata, premasticata, ed è tutto totalmente didascalico: Ambra si esprime ad ampi gesti, sottolinea con espressioni gergali e facciali quello che dice o pensa, traduce il titolo della canzone che sta per lanciare, ci dice se è romantica o meno, ci suggerisce a cosa prestare attenzione. E ogni ragazza che canta, una volta inquadrata, ha un sottopancia col suo nome (solo il nome).
È così per circa 32 minuti. Al punto che comincio a chiedermi se Non è la Rai non sia la versione adolescenziale dei programmi per anziani che trovi sulle reti locali—quelli con la finta orchestra che fa finta di suonare per cantanti in playback finte mazurke o finti classici. Solo che qui ci sono le palmette al posto della finta piazza di paese ricreata in studio perché siamo giovani.
Passano 32 minuti così. Fino a che Ambra—senza il minimo senso o preavviso—urla fuori tempo “Uno due tre: ballate!” e tutte le ragazze salgono sul palco sulle note di “Batuca Gum“. È la fine della fase cantata.
Dopo decine di canzoni che sembrano tutte versioni pseudo-big beat di roba degli anni Venti cantata dalle figlie di Zucchero, è stato proprio grazie all’intermezzo ballato che ho finalmente capito perché questo programma è stato tutt’altro che irrilevante. Su quel palco, in quel momento, stavano ballando le mie cugine, le mie amiche dell’epoca, le mie compagne di classe, le vicine di casa.
Ballavano esattamente come loro, con quella stessa malizia imbarazzante e quella stessa innocenza grottesca. La stessa con la quale la figlia di un’amica di famiglia mi rinchiudeva in una stanza per farmi vedere quanto era brava a ballare come Miriana e a cantare che “Giuro amore è un amore eterno, se non è amore me ne andrò all’inferno” (non la vedo più da anni, ma so che ora è diventata Testimone di Geova).
Eravamo tutti effettivamente così. E non si tratta di capire se fosse Non è la Rai a compenetrarci, o fossimo noi a vederci riprodotti in uno show post-prandiale su Italia Uno: volevano tutte ballare, in quel modo, quelle canzoni. È stato solo a quel punto che mi sono accorto che forse le bionde erano vestite di rosso, e le more di nero—ma tutte, appunto, in modo estremamente familiare: sono sicuro che mia sorella avesse quel cappello e una maglia a strisce orizzontali.
Epifania a parte, la fase ballata è stata di gran lunga la parte migliore del programma: le inquadrature sono super-audaci, con riprese in diagonale, dall’alto, prospettiche, piene di luci e movimenti coordinati in un’armonia del tutto casuale ma piacevole. È una regia effettivamente spettacolare, sebbene per cinque minuti non faccia altro che inquadrare delle adolescenti ballare su una cassa dritta, staccando dall’una all’altra con delle dissolvenze da tv di Stato coreana.
È la cesura che ci porta verso la parte più ludica della puntata, e un po’ mi dispiace. Tornando in studio dalla pubblicità (ps: Non è la Rai andava in onda dal vivo) si passa infatti all’angolo della posta: in questa puntata ci viene proposta una gag che ruota attorno al classico espediente dello scambio di persona. Non fa ridere neppure per sbaglio, ma il pubblico-protagonista reagisce in maniera plateale, quasi cade dalle sedie senza motivo.
Il tema dello sketch, autoreferenziale, è “Le ragazze di Non è la Rai“: è come se sapessero di aver lasciato qualcosa nella società, e a confermarlo ci sono le decine di editoriali che si sono sprecati sul tema dagli anni Novanta in poi (ps 2: intervistata da Costanzo, Ambra dirà che una volta la diretta è stata evitata per tener lontane le ragazze da una manifestazione contro lo show).
Primo gioco: due ragazze, una mora vestita di rosso e una bionda vestita di nero, rispondono alle telefonate da casa. Bisogna scegliere una ragazza di Non è la Rai con la quale uscire, e decidere come presentarsi all’appuntamento vestendo un avatar in stile Superfighetto. Ambra è la ragazza più ambita: alla fine vincono sempre tutti, e vincono il disco di Non è La Rai—che per qualche motivo che non sono riuscito a comprendere si chiama “Strenna”.
Secondo gioco. Ambra su una poltrona bianca interagisce con un diavoletto con la maglia del Milan in computer-grafica—se così si può definire questa cosa:
Si chiede cosa farebbe se fosse ricca, e aspetta una telefonate da casa: in palio ci sono 10 milioni di dollari (dice proprio “dollari”), e bisogna indovinare cos’ha fatto lei, Ambra, il 15 agosto a Rimini alle 3 del pomeriggio—in quello che penso sia il quiz più gratuito della storia televisiva.
Il concorrente (22 anni) non indovina, ma viene utilizzato da Ambra come espediente per lanciare un’altra esibizione canora. Prima della sua, la più importante—come il fatto che sia circondata da cuori mentre si esibisce ci lascia intendere.
Ambra canta una canzone non sua, in playback. La registrazione non è neppure cantata da lei. Eppure l’enfasi, prima dell’esibizione, è ugualmente vertiginosa: accendete i registratori—dice, come se quasi stesse ammiccando a noi che la guardiamo due decenni dopo—perché “questa è una canzone da registrare, non la farò mai più, è speciale.”
Alla fine si scopre essere una canzone normalissima, neppure famosa, ma questo è il senso: tutta la puntata si porta dietro la perenne e mai sostanziata percezione di assistere alla Storia mentre si compie su Italia Uno. Tutto è un evento creato per essere evento, con la piena consapevolezza di star segnando senza alcun dubbio la nostra vita civile. Nel bene o nel male, ma sicuramente più di Achille Occhetto.
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