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Come un enotecnico svizzero è finito a fare un videogioco sul vino in Italia

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Hundred Days – Winemaking Simulator è un simulatore di azienda vinicola realizzato dallo studio torinese Broken Arms Games. È un po’ un videogioco gestionale, con edifici da migliorare e attrezzature da acquistare, pulire e riparare, e un po’ un videogioco puzzle, con una plancia centrale in cui incastrare a ogni turno le azioni che vogliamo compiere—ma ha anche una modalità “Storia”: l’avventura di una ragazza che da Londra si trova quasi per caso a gestire una vecchia cantina nelle Langhe piemontesi.

Un’avventura che assomiglia a quella della famiglia di Yves Hohler, enotecnico di origine svizzera con vent’anni di esperienza nel mondo del vino e co-fondatore di Broken Arms Games. VICE lo ha contattato via Skype per parlare di vino, videogiochi e  delle inaspettate similitudini tra questi due mondi.

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L’intervista è stata tagliata e editata per ragioni di brevità e chiarezza.

VICE: Ciao Yves, cominciamo dall’inizio. Da quello che ho capito quando eri piccolo tu e la tua famiglia vivevate tra Svizzera e Francia. Yves Hohler: Ci siamo spostati un paio di volte dalla Svizzera alla Francia. Come ho già detto in passato, considero i miei genitori “gli ultimi hippie di questa Terra.” Volevano che crescessimo in campagna. Facevano dei lavoretti: mio padre faceva il giardiniere e correva in Formula 3000, mia madre faceva porcellana. Quando ci spostavamo lavoravano in fattorie; quando avevo tre anni ricordo una delle ultime esperienze, nello Jura francese… la cosa più svizzera che puoi immaginare: producevano le erbe che venivano vendute alla Ricola per le caramelle.

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Hundred Days, schermata di gioco. Tutti gli screenshot dell’autore

**Come siete finiti a fare vino in Piemonte?
**Nel trasloco dallo Jura per tornare in Svizzera… per i traslochi usi queste scatole per le banane, cartoni molto resistenti con un coperchio sopra, con un buco in mezzo che solitamente viene coperto con un altro pezzo di cartone o con dei giornali. Sul giornale che avevamo usato c’era la pubblicità di una casa alle porte delle Langhe, a Cassinasco, in vendita—i miei hanno preso la palla al balzo, sono andati a vederla e l’hanno comprata.

**La casa era vigne-in-mano?
**Sì, aveva quattro-cinque ettari di vigna.

Era una scelta consapevole prendere in mano le vigne e fare vino?
No, l’idea era prendere una casa con della terra. Guarda, ti faccio capire la situazione: né mia madre né mio padre sapevano parlare italiano. Avevano usato tutti i soldi che avevano per comprare la casa. Non sapevano niente di vigne e produzione del vino. Io ero il più grande di quattro fratelli e avevo cinque anni, i più piccoli avevano sei mesi. La casa era in uno stato… mancava il riscaldamento, la cantina era un disastro… una cosa che oggi sarebbe illegale: pioveva dentro, era una stalla con due tinozze.

**Come siete riusciti a farla funzionare?
**La nostra salvezza è stata proprio che non ne sapevamo nulla di vigne. Nel 1989-1990 la maggior parte dei contadini qui produceva per le cantine sociali, che oggi sono quasi estinte: più peso avevi e più ti pagavano e quindi fertilizzavi al massimo la vigna per avere questi grappoloni pieni di uva priva di un qualsiasi accettabile grado zuccherino. I miei invece hanno iniziato a trattare la vigna come si fa con gli alberi da frutto: per avere delle mele buone, prima che il frutto sia maturo, si tolgono le mele che non arriverebbero a maturazione e che sottrarrebbero solo energia alla pianta. Si toglie la quantità per avere la qualità. Quindi hanno cominciato a fare il diradamento [rimuovere grappoli d’uva appunto per migliorare la maturazione di quelli rimasti], che nel 1990 in paese provocava reazioni come “lo svizzero è matto sta vendemmiando ad agosto, butta l’uva per terra.”

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Però dopo cinque anni siamo stati scoperti da [Paolo] Massobrio, uno dei più grandi giornalisti enogastronomici, soprattutto nell’epoca in cui non c’erano social e influencer e testate come ilGolosario e Papillon erano i pilastri: se ti davano una buona critica loro ti svoltavano. Ed è quello che è successo. Da lì siamo stati tra i primi ad avere una Barbera a quasi ventimila lire, che per una Barbera era impensabile.

**Qual è stato il tuo percorso di studi?
**Alle superiori ho fatto la scuola enologica ad Alba.

**Com’è stato frequentare quella scuola?
**Ero inserito in un contesto di élite del vino che mi metteva molta pressione addosso… Io non potrò mai avere quello che avevano i miei compagni di classe. Non potrò mai permettermi un ettaro a Monforte, perché ha prezzi che ormai possono permettersi solo gli oligarchi russi e il partito comunista cinese. Quello un po’ mi dispiace. Poi quando io facevo le superiori i miei genitori facevano biodinamico: niente diserbante, ad agosto io tutto bardato passavo filare per filare con il decespugliatore. E a scuola mi prendevano in giro per questo. Oggi tutti quelli che mi prendevano in giro fanno biologico e hanno i filari inerbiti; eravamo solo avanti di quindici anni rispetto agli altri.

**E dopo le superiori?
**Mi sono iscritto ad Alessandria a Informatica, dove ho conosciuto Giulio [Piana] ed Elisa Farinetti con cui poi ho fondato Broken Arms. Indirizzo [di studi] web, che non ho finito.

**Che cosa è successo?
**L’inizio della fine è il 2007, quando viene a mancare mia madre. Io ho messo tutta l’energia che avevo nel tenere unita la famiglia e mandare avanti l’azienda, ma poi mi sono scontrato con mio padre (anche fisicamente). Me ne sono andato di casa, son finito sul divano di un amico e ho iniziato a creare videogiochi in Flash da mettere sulla piattaforma Newgrounds. Elisa ha trovato uno stage a Torino, ho mandato curriculum, ho avuto due offerte di lavoro (oggi sarebbe impensabile) e mi sono spostato anche io a Torino, a un certo punto anche Giulio ha trovato lavoro a Torino e lo abbiamo messo in un letto in corridoio. A Torino non c’era ancora la scena videoludica che c’è adesso con 34BigThings, Tiny Bull Studios, MixedBag… abbiamo iniziato a realizzare giochi in Flash per aziende, di giorno andavamo in ufficio e di notte lavoravamo finché potevamo.

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A un certo punto ci siamo detti che era il momento di fare il salto, e un’azienda di Torino era interessata a finanziarci come loro succursale in Svizzera. Abbiamo lasciato il lavoro, disdetto l’affitto ed eravamo pronti a trasferirci, ma due settimane prima delle partenza l’azienda che doveva farci da angel investor [chi investe in una startup diventandone socio] si è tirata indietro. I genitori di Elisa avevano fortunatamente un appartamento sfitto ad Acqui Terme, dove ci siamo trasferiti, e abbiamo iniziato a cercare acceleratori di startup, candidandoci ovunque. Il primo a rispondere è stato in Australia e abbiamo subito accettato, tornando un anno dopo e iniziando a lavorare per Milestone. Nel 2018 siamo diventati ufficialmente Broken Arms Srl.

**Hai ancora a che fare con la produzione del vino?
**Nel 2016 mio padre ha detto di voler smettere, nel 2017 gli ho fatto una proposta, perché volevo continuare, e mi ha detto di no. Ed è da allora che ho fatto una mia Barbera: un amico che veniva a scuola con me mi ha offerto un angolino nella sua cantina. Faccio duemila bottiglie, il minimo per mantenere i clienti storici che aveva mio padre. Se tra qualche anno volessi fare solo quello è una fiammella pilota per ricominciare.

L’idea di Hundred Days come è nata?Mentre eravamo a prendere una birra insieme un publisher italiano ci ha chiesto perché con le nostre competenze non facessimo un simulatore vitivinicolo. All’inizio doveva essere un simulatore fisico-chimico, poi ci siamo accorti che non era divertente e abbiamo dovuto fare dei passi indietro.

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**Nel gioco, nella modalità Storia, c’è una certa opposizione tra il vino visto come un elemento culturale e un antagonista senza scrupoli che vede il vino come business. È un conflitto che hai incontrato nella realtà?
**Ti dico solo che tutti i personaggi all’interno del gioco rappresentano persone reali. Anche il gatto, che purtroppo è mancato l’anno scorso ed era la mascotte del paese di Barbaresco, e il proprietario giapponese del locale che frequenti, e che nella realtà è il Koki Wine Bar di Barbaresco.

**Cosa non avete messo e ti dispiace che sia rimasto fuori?
**Una cosa che andremo ad aggiungere a breve: l’impatto della bottiglia e dell’etichetta sulla tipicità del vino. Per esempio, un rosso invecchiato in una bottiglia chiara con un tappo a vite nella nostra zona non si è mai visto. Poi manca l’evoluzione del vino una volta che è in bottiglia e l’analisi chimica del vino in costruzione, e questa è una cosa che forse aggiungeremo più avanti aprendo le porte a processi come la filtrazione.

**Cosa sei contento di averci infilato?
**Una cosa a cui non si pensa mai: che una delle problematiche più grosse che deve affrontare una cantina è lo spazio. Ventimila bottiglie occupano un notevole volume.

**C’è qualcosa che accomuna fare videogioco e fare vino?
**Tantissimo in realtà. Tutto quello che arriva dopo aver creato il prodotto è uguale. Entrambe le cose possono essere industria o artigianato. E nel vino hai cicli lunghi e fino alla fine non sai come sarà il risultato e se piacerà—e un po’ funziona così anche il videogioco.

Hundred Days – Winemaking Simulator è disponibile per PC, Mac e Google Stadia.