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I Club Dogo sanno cos’è l’amore

Conosco una storia in cui ad un certo punto uno dei personaggi sostiene che superficialità e materialismo vogliano affogarlo, ma dopo qualche capitolo i negozi vendono sneakers in pelle di coccodrillo col suo nome sopra. È una storia che inizia alla fine del ventesimo secolo, mentre il mondo intero è sconvolto dalle esplosioni atomiche e sotto i colpi delle bombe ci sono quattro ragazzi di diciotto anni e uno di poco più grande.

Il loro primo disco si chiama 3 MC’s Al Cubo esce per la Funk-U-Low e all’interno c’è un pezzo in cui Irene La Medica canta i ritornelli. Irene in quegli anni conduceva un programma su Radio Deejay che si chiamava One Two One Two, e continua a chiamarsi One Two One Two anche oggi. Irene canta i ritornelli di “Le Parole Non Dette”, in un disco di cui il vostro amico che non scopa mai vi ha già raccontato tutto quello che dovevate sapere, tranne che quella versione beta dei Club Dogo era una cosa molto più adolescenziale che genuina. È un disco tanto spontaneo quanto scontato, un po’ com’è l’adolescenza nella sua altalena di euforia e depressioni, in cui ogni delusione ha la stessa carica emotiva di un episodio della prima stagione di Skins.

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È un bel disco di cui una metà dei pezzi è stata logorata dal tempo meno del previsto, tanto che oggi riesco ad ascoltarli senza sentirmi troppo stupido. Quando si prova a ripercorrere la storia del Club Dogo è facile inciampare in un meccanismo per cui il loro successo è una cartina di tornasole del disprezzo per la loro musica, ed è un’operazione che è stata già fatta così tante volte che il lettore saggio si ritroverà con le palle asciugate finanche dal timore di doverla compiere un’altra volta.

La storia dei Club Dogo si può ripercorrere in un modo molto più divertente, perché se è vero che i Sottotono sapevano cos’è l’amore, allora è vero anche che i Club Dogo sono gli ultimi veri romantici del rap italiano, e la loro produzione lirica ha toccato vette di dolcezza e sfiga così alte che non esistono timpani incapaci di farsi ammaliare mentre vibrano sulle loro barre.

Queensbridge, 1995, The Infamous e un campione da “Survival Of The Fittest” dei Mobb Deep, due barre che fanno così:

Or maybe it’s the words from my man Killer Black
That I can’t say so it’s left a untold fact, until my death

Killer Black era un amico di Havoc che è stato latitante per alcuni mesi, dopo essere stato accusato di omicidio. Si è suicidato alla fine degli anni Novanta. Non ho idea di quale sia lo scopo di un campione del genere prima di un pezzo in cui Irene La Medica canta un ritornello sdolcinato, ma in qualche modo funziona. Tutto è estremamente adolescenziale, spesso le rime sono più pretestuose che altro, Corvo D’Argento inizia già a sentirsi un po’ Dargen D’Amico e Irene La Medica ha scritto il ritornello di un’altra canzone, ma per qualche irripetibile congiunzione tutto funziona alla perfezione e ci sono una quarantina di secondi in cui Jake passa a Dargen un gioco di parole e gli uomini si sentono soli guardandosi attorno, accendono un cero per ogni parola e guardano bruciare il mondo e in qualche barra Dargen la chiude così: se le parole lecite ci te(a-i-u-t-o, ndr)rrorizzano ma le persone negano normalmente, se le frasi silenziose sentenziano dove verità tacciono nobilmente e poi parte, casualmente, l’ultimo ritornello di Irene.

Guè è un po’ fuori contesto e la sua strofa non è certo indimenticabile, ma bisogna dire che la storia di 3 MC’s Al Cubo è travagliata: “Già al momento dell’uscita era abbastanza datata come storia: i testi erano di quando avevo 17 anni per esempio”, racconta Guè in un’intervista del 2003.

La storia passa, gli anni passano, Dargen passa. Esce un disco. Non è molto romantico ed è impregnato di una retorica di sinistra che i Club Dogo hanno sempre fatto un po’ di fatica ad indossare. È una storia d’amore interessante quella che c’è stata tra il rap italiano e i centri sociali, le cui radici affondano nell’Isola nel Kantiere a Bologna. Il Parini, i Plazari Impizzati, i Club Dogo e la passione per il rap sono tutte cose che si sono mischiate e che un giorno qualcuno vorrà approfondire, ma dal punto di vista delle canzoni romantiche, l’appartenenza coatta dei Club Dogo ad una bandiera politica ha un po’ rallentato il processo.

In un certo senso questo è l’album più 883 dei Club Dogo, in cui tra skit sul funzionamento del clitoride e “Ladies Love Club Dogo”, le femmine sono una specie di entità avversa da combattere con le dediche agli amici, e per quanto anche questa sia considerabile come una forma di romanticismo, è proprio con Penna Capitale che i Club Dogo inizieranno a scrivere versi in grado di diventare bruttissimi tatuaggi sulla pelle di bellissime ragazzine (ciao Marta, ti penserò per sempre).

Magari la storia non è andata proprio così, forse era più complessa, ma sono sicuro che la mia versione è la migliore. Penna Capitale è il mio album preferito dei Club Dogo perché è arrivato nel mezzo della linea temporale tra Mi Fist e i Club Dogo non sono più quelli di Mi Fist, AKA Vile Denaro. Un po’ come nascere in una famiglia in cui tuo fratello maggiore è Magnus Carlsen e il minore Niccolò Carradori. Tra “Una Volta Sola”, “Non Sto In Cerca Di Una Sposa”, “Tutto Quello”, “Due Modi” e “No More Sorrow”, questa è la metà del disco per cui avrei voluto molte più ex fidanzate da commiserare, mentre l’altra metà è una bomba, ma fa parte di quella storia di cui ora non mi interessa sottolineare alcun passaggio.

“No More Sorrow” è la “Rose Nere” di una generazione che pagava effettivamente ogni SMS inviato con del denaro e che ha ricevuto la stessa riconoscenza dalla storia che i miei SMS ricevevano dalle ragazze.

Scriverò la canzone più grande che c’è
Per farti forza se ti succede qualcosa più grande di te
Superficialità e materialismo vogliono affogarmi
Le paure di non farcela puntano in faccia armi
Sono un altro peccatore, dipende chi fa le regole (chi?)
Se non sono un bastardo per gli alti resterò un debole

Guè si è guadagnato un’indulgenza plenaria da qualsiasi tipo di peccato abominevole che ha mai commesso o potrà mai commettere e questo suo lato più Mecna è quello che, tra un paio di paragrafi, riuscirà a salvare anche i pezzi più spigolosi. Poopatch, chiunque ella sia, ha anche l’inverosimile talento di essere uno dei pochi featuring azzeccati dal gruppo che, da questo disco in poi, sentirà l’esigenza di fare vanto dei moltissimi euro spesi per featuring inutili o fastidiosi.

Vile Denaro non è così brutto come è sembrato quando è uscito, ma si può saltare perché è risaputo che il beat di “Tornerò Da Re” faccia cadere i capelli.

Sull’argomento inutilità e fastidio è il successivo Dogocrazia l’album più fastidioso dei Club Dogo che, con degli standard adeguatamente generosi, fino a questo punto non si erano mai macchiati di crimini gravi. Se dovessi scegliere un aggettivo per definire Dogocrazia, sarei un po’ indeciso tra Marcio e J-Ax, ed effettivamente una roba che si apre con il singolo “Sgrilla” non può far parte della mia storia sui Club Dogo, ma è anche vero che pure i tamarri vanno in Paradiso e la prima barra di “Amore Infame” sfregia ancora i muri della Stazione di Garibaldi e chissà quante descrizioni di immagini del profilo in giro per Facebook.

Tu la faccia da bambina, io la faccia da rapina
Insieme come adrena e lina, dopa e mina
Attratti come i poli opposti, strafatti in dei brutti posti
Un fiore se non lo disseti e lo calpesti muore

Ci sono più tastiere in questo disco che cartelle esattoriali a casa di Vacca, e infatti il successivo (anche troppo successivo, visto che esce un anno dopo Dogocrazia) cerca di allontanarsi un po’ dalle sonorità da luna park di questo album. Il risultato è Che Bello Essere Noi—una cosa che sembra un featuring tra i Club Dogo e quelli che vomitano negli angoli dell’Uncarnival—e l’espressione massima di questa versione dei Punk Dogo è “Fino Alla Fine“, con una azzeccatissima base jumpstyle.

Che Bello Essere Noi esce un paio di settimane prima dell’undicesimo album in studio di Biagio Antonacci, in cui è contenuta “Ubbidirò“, una collaborazione che poteva essere una perla preziosa nascosta tra le pagina di questa storia e invece assomiglia di più a una di quelle palline che si formano nell’ombelico quando indossi una maglietta nuova. Quindi per il 2010 tutto l’amore va affidato agli inediti dei Club Dogo e la scelta è se farsi emozionare da “All’Ultimo Respiro” o “Il Sole E La Luna”. Siccome faccio parte della categoria giusta di esseri umani (quelli che non sopportano la voce di Daniele Vit, ndr), la scelta è piuttosto ovvia.

Sei persa
e sono perso anch’io com’è che faccio a dartela una vita diversa?
Vorrei rubare i sogni a chi è felice e metterteli dentro la testa
Dicono che se anche ti sbatti da sta vita poi non esci vivo,
Dicono che uno come me è solo autodistruttivo,
Ma faccio un altro giro, e faccio un altro giro all”ultimo respiro!

Con questo pezzo inizia anche la passione dei Club Dogo per le tipe che si drogano e hanno un rapporto problematico con padri, fratelli o fidanzati. Il video è molto bello e mi fa pensare a quando Jake La Furia roteava le catene abbracciato a Vincenzo Da Via Anfossi sul booster in Barona.

Non ho idea di quale tipo di contratto abbiano firmato con Universal, ma tempo un altro anno ed esce anche Noi Siamo Il Club e potremmo definirlo il disco Zoo di 105 dei Club Dogo, perché è pieno di frasi da appiccicare sulle foto di Vin Diesel e pubblicare su pagine Facebook delicate come CamorraAndLove. Dentro ci sono Max Pezzali, i Datura, Carlo Lucarelli, Il Cile, i Power Francers e Zuli. Per me è no.

Nel frattempo Guè pubblica il suo primo album da solista, diventa un sex symbol e inizia a costruirsi un suono e un immaginario personale, Don Joe collabora con Shablo per quella bombetta di Thori&Rocce e anche Jake lavora con i 2nd Roof, su un beat in cui prova a staccarsi un po’ dalle sue solite metriche, ma il risultato è così e così.

Dal 2012 in poi non ha più molto senso parlare dei Club Dogo. Se siete impegnati a conquistare una quartina del Parini ci sarebbero ancora alcune perle sparse qua e nei loro progetti paralleli da solisti, ma siccome li ho ignorati fino ad ora, il salto temporale è fino a Non Siamo Più Quelli Di Mi Fist. Tralascio le canzoni-d’amore-sulla-droga-che-però-sembrano-dedicate-alle-ragazze perché in questo disco non c’è Max Pezzali, e chiudo la playlist con “Lisa”, che è la ragazza dei tuoi sogni, ma non una canzone d’amore.

Sono quel tizio sul precipizio
insieme parliamo del vizio
e di cosa faremo. Cosa? Il giorno del giudizio.

Se questa canzone mi piace, è un problema mio o di tutte le altre tracce del disco?

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