I controlli antidroga nelle scuole italiane visti da un professore

Lunedì scorso a Lavagna, in provincia di Genova, un ragazzo di 16 anni si è suicidato mentre la Guardia di Finanza stava facendo una perquisizione a casa sua in cerca di droga. La vicenda ha colpito in modo molto profondo l’opinione pubblica e il caso—complice anche il discorso tenuto dalla madre durante i funerali del ragazzo—ha monopolizzato il dibattito sul tema delle droghe, della loro diffusione tra gli adolescenti e del proibizionismo. 

L’attenzione, sebbene il caso di specie abbia una dinamica particolare, si è concentrata nuovamente anche sui controlli dentro e fuori le scuole. Più o meno da un anno a questa parte, infatti, la polizia ha lanciato una grande campagna antidroga fatta di perquisizioni nei licei di tutta Italia. Per rendersene conto basta fare una ricerca su Google News, dove a cadenza quasi quotidiana escono notizie sul tema. 

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Nonostante la polizia abbia difeso la pratica, questo genere di operazioni, come ha fatto notare Maria Stagnitta, presidente di Forum Droghe, non è particolarmente efficace. “L’inutilità dei blitz antidroga dentro le scuole è certificata dal fatto che, malgrado ogni anno si ripetano questi rituali dal sapore totalitario, il consumo di cannabis tra gli adolescenti non accenna a diminuire,” ha spiegato a VICE News. Inoltre, i risultati “sono scarsi e i numeri parlano da soli: poca quantità di cannabis sequestrata e qualche adolescente denunciato.” 

Lo scorso aprile—proprio nel periodo più “caldo” di queste operazioni nelle scuole—Antonio Vigilante, professore di Filosofia in un liceo di Siena, aveva scritto su Gli Stati Generali una lettera aperta in cui raccontava di una perquisizione svoltasi durante una sua ora di lezione. La lettera, fortemente critica del modo in cui vengono compiute e del significato di queste operazioni, era stata molto letta e condivisa. Dato che negli ultimi giorni è sembrata tornare d’attualità in riferimento al caso di Lavagna, ho chiamato l’autore per approfondire la questione.

VICE: Partiamo dalla sua esperienza. Tempo  fa ha scritto un articolo nel quale denunciava un blitz antidroga nella classe in cui insegnava. Mi racconta di nuovo cosa è successo? 
Antonio Vigilante: L’episodio di cui parlo nel testo risale a quasi un anno fa, aprile del 2016. Stavo facendo lezione di filosofia nella mia quinta, quando entrarono due agenti con un cane antidroga. Il cane fiutò tra i banchi per un po’, senza trovare nulla. Ma ho scritto anche di un secondo episodio che mi sembra più grave: a novembre dello scorso anno gli studenti sono stati perquisiti davanti alla scuola prima dell’ingresso. Nonostante l’esito negativo della perquisizione, al pomeriggio la Questura ha diramato un comunicato nel quale si leggeva che gli studenti perquisiti non avevano droga addosso perché probabilmente se ne erano liberati prima della perquisizione. 

Cosa l’ha portata a denunciare pubblicamente l’accaduto?
L’articolo 13 della Costituzione, che dice che “la libertà personale è inviolabile” e “Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.” Nella interpretazione di chi è favorevole ai controlli, quel “se non” annulla del tutto il principio costituzionale. La libertà personale e il divieto di ispezione personale per uno studente finiscono semplicemente per svanire. Non occorrono prove o anche solo indizi: è più che sufficiente il vago sospetto che in una scuola qualche studente faccia uso di sostanze per sottoporre a perquisizione una intera scuola. Mi sembra una macroscopica violazione di un principio costituzionale. 

Alcuni potrebbero obiettare che la scuola è un luogo pubblico.
Il Testo unico sulla droga (D.P.R. 309/1990), all’articolo 103, parla al primo comma di controlli ed ispezioni negli “spazi doganali”; il secondo comma aggiunge che gli agenti di polizia giudiziaria “possono procedere in ogni luogo al controllo e all’ispezione dei mezzi di trasporto, dei bagagli e degli effetti personali” se c’è il fondato motivo che vi siano sostanze stupefacenti. Dal contesto e dai termini usati—mezzi di trasporto, bagagli—sembra evidente che si tratta di zone di transito, non di luoghi di residenza. È il caso delle perquisizioni con cani antidroga nelle stazioni ferroviarie o negli aeroporti, luoghi di transito nei quali c’è il fondato sospetto che possa passare un corriere della droga. La caratteristica di questi luoghi è che può essere sottoposto a controllo chiunque vi si trovi, senza alcuna discriminazione. Spero che la differenza tra una stazione e una scuola sia evidente a tutti. 

Il procuratore aggiunto Valter Giovannini, da lei citato nel suo articolo, ha parlato di un “arcaico convincimento ideologico che l’università e più in generale gli istituti scolastici godano di una sorta di extraterritorialità.”
A scuola vi sono dei minori che ci sono stati affidati dalle loro famiglie. È un ambiente iperprotetto, a ragione o a torto. Ad esempio, c’è bisogno dell’autorizzazione dei genitori per portare fuori gli studenti, anche solo per attraversare la strada ed andare nel giardino di fronte. Sorprende che tutte queste cautele e protezioni cadano all’improvviso e che sia sufficiente evocare lo spettro della droga per far diventare la scuola un non-luogo. Chi parla di extraterritorialità trascura un particolare: a scuola gli studenti sono affidati a dei professionisti dell’istruzione e dell’educazione, che peraltro sono anche pubblici ufficiali. 

Ha discusso l’accaduto con i suoi studenti? Quali erano le loro posizioni?
In alcune classi, all’indomani della perquisizione, ne abbiamo discusso senza che io esprimessi la mia opinione. Diversi studenti avevano già letto il mio articolo e molti erano d’accordo; altri, forse la maggioranza, la pensavano diversamente. C’è da considerare che Siena è una città particolare: molti studenti della mia scuola vivono profondamente i valori della contrada e nelle contrade si insiste molto nella condanna dell’uso di droghe. 

In seguito al caso di Lavagna, Domenico Chinetti—portavoce della comunità di San Benedetto al Porto—ha dichiarato che “Un ragazzo che a scuola viene beccato da un cane che gli annusa nello zaino e gli trova quattro grammi di hashish sarà condannato dalla scuola e isolato dai compagni di classe che avranno paura a relazionarsi con lui.” Condivide la sua affermazione? Sono dinamiche che crede valgano per i suoi studenti?
In ogni scuola le dinamiche sono diverse: quelle di un liceo classico non sono le stesse di un professionale, per dire. In alcuni contesti può succedere anche il contrario: che quello studente diventi un eroe per i compagni. Così come in altri contesti può succedere che uno studente, con il quale si stava avviando un percorso di cambiamento, abbandoni la scuola.

Quale crede che sia oggi il rapporto dei ragazzi con le droghe leggere?
Qual è il rapporto degli impiegati di banca o dei politici con la cocaina? Qual è il rapporto dei padri di famiglia con l’alcol? L’Istituto Superiore di Sanità avverte che l’alcol è la prima causa di morte e disabilità dei ragazzi al di sotto dei 24 anni. Eppure nella città in cui vivo il consumo di vino viene incentivato con un’apposita manifestazione che serve a favorire l’economia locale.

Più che sul “rapporto dei ragazzi con le droghe leggere” da docente di Scienze Umane ragiono con i miei studenti sulle dinamiche sociali e culturali che sono dietro la percezione di una emergenza. L’alcol, benché pericolosissimo, è tollerato o addirittura incoraggiato perché è bevuto da persone di ogni status sociale, mentre le droghe leggere sono criminalizzate perché usate prevalentemente dai giovani, che hanno uno status sociale inferiore—o almeno così si crede.

Quali crede sarebbero le misure da adottare per ridurre il consumo di droghe tra gli adolescenti e nelle scuole?
Se rispondessi alla domanda, confermerei la percezione di una emergenza legata alla diffusione delle droghe nelle scuole. D’altro canto, se non rispondessi, mi si accuserebbe di negare il problema. La domanda da porsi, piuttosto, credo sia: cosa fa la scuola se uno studente ha un problema di dipendenza? La risposta è che affronta il problema con gli strumenti che ha: ascolta lo studente, parla con la sua famiglia, ricorre alle figure professionali di cui dispone e lavora con le realtà presenti sul territorio, come i consultori. Senza isterismi. Quanto allo spaccio, per i pubblici ufficiali esiste l’obbligo di denuncia dei reati che si perseguono d’ufficio.

Crede che esista veramente un problema con gli adolescenti di oggi?
Il mondo adulto guarda con sospetto gli adolescenti: non ci fidiamo di loro e leggiamo la loro realtà solo in negativo. Si drogano, sono dipendenti dai telefonini, non sanno realmente socializzare, e così via—come se noi adulti fossimo invece degli esempi di virtù. La vita degli adolescenti è sezionata in un ventaglio di comportamenti-problema, per ognuno dei quali esiste l’esperto. Si può dire che la demonizzazione dell’adolescenza crei lavoro. Ma non vedo un grande futuro per una società che ha paura dei suoi giovani.

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