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I movimenti Pro-vita stanno uccidendo la legge sull'aborto

Agli antiabortisti sono garantiti spazi sempre maggiori anche negli ospedali, per esempio con la convenzione sottoscritta ad agosto in Veneto. E i risultati sono preoccupanti.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

La Marcia per la Vita di maggio. Foto di Federico Tribbioli

La prima volta che ho visto all’opera i pro-life italiani è stata durante la “Marcia per la vita”, tenutasi a Roma lo scorso maggio in un tripudio di croci tempestate di feti, foto orripilanti di aborti, slogan arditi (“Molti ospedali sono campi di sterminio”), integralisti cattolici, fascisti e complottismo a buon mercato. Quest’estate, al Meeting di Rimini, ho approfondito la mia conoscenza con il Movimento per la vita—associazione fondata nel 1975—intervistando Pino Morandini, vicepresidente del MPV, che ha paragonato la legge 194 del 1978 alle leggi sulla schiavitù e ai campi di concentramento nazisti.

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Ora, grazie a una convenzione sottoscritta il 14 agosto 2013 con l’Usl 16 di Piove di Sacco (Padova), il Movimento per la Vita potrà tentare di arginare gli effetti dell’odiatissima legge direttamente all’interno di un campo di sterminio ospedale pubblico. L’accordo garantisce agli antiabortisti enormi spazi di manovra, come spiegato dal Corriere del Veneto: “Servizio di accoglienza e ascolto delle pazienti; interventi a favore di maternità e genitorialità; ascolto, sostegno morale e psicologico; sensibilizzazione della comunità civile; promozione di iniziative formative, educative e informative.” Gli attivisti del MPV, inoltre, avranno la licenza di girare per i reparti dell’ospedale muniti di badge di riconoscimento.

È la prima volta che in Veneto gli antiabortisti—che assicurano comunque una “presenza amichevole” —avranno prerogative così ampie. Il presidente del MPV di Piove di Sacco, Luciana Pigazzi, ha spiegato il loro obiettivo: “L’ospedale è un nodo strategico per intercettare donne con una maternità multiproblematica e dare loro un aiuto. Offriamo la possibilità di conoscerci, in modo che un domani nessuna dica di non aver trovato una mano tesa.” Gino Ramin, presidente MPV di Chioggia, ha ulteriormente specificato che “non costringiamo nessuno ad ascoltarci, è giusto informare sulle alternative all’aborto, dando risposte concrete, che non arrivano dalle istituzioni. Il Movimento fornisce supporto economico per 18 mesi, pannolini, latte, omogeneizzati e vestiario [passati i 18 mesi sono cazzi della madre, evidentemente, nda]. Salviamo tanti bimbi."

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Dopo le prevedibili polemiche suscitate dall’accordo con l’ospedale di Piove di Sacco, il senatore dell’Udc Antonio De Poli ha detto al quotidiano cattolico Avvenire che non c’è proprio nulla da temere: “Nessuno vuole fare il lavaggio del cervello a nessuno. Le donne che arrivano in ospedale per abortire vanno aiutate perché vivono un dramma. La vita deve essere promossa e tutelata con tutti gli sforzi possibili. Pensare di fare la guerra a chi difende la vita è non solo paradossale ma frutto dei soliti schemi ideologici. Si può essere pro o contro l’aborto, ma fare la guerra a un’associazione è pretestuoso." Sarà. Intanto però il Movimento per la vita—insieme alle gerarchie ecclesiastiche e a molte altre associazioni pro-life—è una delle avanguardie della guerra dichiarata alla legge 194 del 1978, e l’ingresso negli ospedali pubblici è l’ennesima battaglia vinta.

In questi anni i movimenti pro-life si sono impossessati di spazi pubblici nei consultori e nelle scuole, e hanno organizzato a più riprese maratone di “preghiere per la vita” e manifestazioni davanti agli ospedali. Il 5 settembre 2011 alcuni volontari dell’associazione “Ora et labora” si erano piazzati davanti l’ospedale Sant’Anna di Torino (con tanto di croce disseminata di feti) per protestare contro la 194 e la pillola Ru486. Stando alla cronaca di Repubblica, i volontari avevano accusato gli assistenti sociali di “indurre le donne ad abortire” e avevano addirittura fermato le donne che stavano per entrare in ospedale. Tra i volontari spiccava Giorgio Celsi, infermiere presso una clinica privata di Monza, che per aver manifestato in camice era finito sotto inchiesta disciplinare.

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Ad ogni modo, gli attacchi dei pro-life alla normativa sull’aborto possono essere diretti (ad esempio la proposta di referendum abrogativo) e indiretti. Una delle tattiche più crudeli e macabre è sicuramente quella dei funerali/cimiteri di feti. La base legale-ideologica per queste pratiche si basa su un provvedimento del 2007 approvato dalla giunta Formigoni, che aveva previsto la sepoltura obbligatoria di feti, embrioni e materiale abortivo—anche a prescindere dalla volontà dei genitori.

Il primo funerale di feti (26, per l’esattezza) si è celebrato a Cremona nel 2010. Cinque piccole bare sono state tumulate in un’area del cimitero predisposta dal Comune. Il rituale, con tanto di recita del rosario e benedizione, si era concluso con questa preghiera: “Il maligno, omicida fin dall'inizio, attenta continuamente alla vita dell'uomo e della umanità. Accogli, dunque, o Maria, la nostra consacrazione perché con Te possiamo efficacemente lavorare nella promozione e nella difesa della vita." A Desio (provincia di Monza), l’associazione “Ora et labora” è riuscita a ottenere dall’ospedale le date e gli orari delle sepolture dei prodotti abortivi per presentarsi al cimitero con un prete e celebrare il funerale.

Il cimitero dei feti di Desio. Foto via

Il 4 gennaio del 2012, il comune di Roma guidato da Gianni Alemanno aveva inaugurato il “Giardino degli angeli”, un’area di 600 metri quadrati all’interno del cimitero Laurentino destinata ai feti di aborti spontanei e terapeutici. Questa la descrizione del cimitero: “Di fronte alla zona dei bimbi nati morti campeggiano due statue di marmo bianco accanto a una pianta di camelie. Le piccole lapidi, tutte uguali, sono contrassegnate da un codice e una targhetta su cui è apposto un nome di fantasia”.

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"Il Giardino degli Angeli." Foto via

L’associazione “Difendere la vita con Maria” sembra essere particolarmente attiva nel campo della sepoltura dei feti. Il 22 luglio del 2011 i pro-life avevano siglato un protocollo d’intesa con l’azienda ospedaliera “Sant’Anna e San Sebastiano” di Caserta. L’accordo prevede che i volontari si occupino (a spese loro) di “raccogliere i feti in ospedali, portarli in cimitero e celebrare un breve rituale prima dell’inumazione”. Un simile accordo è stato siglato anche con il comune di Legnano, che ha autorizzato i volontari a “gestire la sepoltura dei prodotti abortivi in un’area del cimitero cittadino denominata “area dei bambini mai nati”.

L’iperattivismo delle associazioni cattoliche si innesta in un contesto di depotenziamento dei consultori pubblici e una sostanziale disapplicazione della legge 194. Il costituzionalista Paolo Veronesi ha dichiarato che “la legge sta arrivando a un punto di rottura. La migliore strategia per demolire la 194 è proprio questa cui assistiamo: un attacco dall’interno, che mira a sabotare la legge, non ad attaccarla direttamente. L’obiezione è uno dei cardini di questo sabotaggio”. Ed in effetti l’obiezione di coscienza—che come scrive la giornalista Chiara Lalli in C’è chi dice no è diventata “un’arma contro la laicità e l’esercizio delle singole volontà”—dilaga in quasi tutti gli ospedali pubblici.

Immagine via

L’ultima “Relazione sulla attuazione della legge 194/78″ rilasciata nel 2012 dal ministero della Salute consegna un riquadro devastante. La regione con la più alta percentuale di ginecologi obiettori è il Lazio, con il 91 percento. Seguono le regioni del Meridione: 85,2 percento in Basilicata, 83,9 percento in Campania, 85,7percento in Molise e 80,6 percento in Sicilia. Nel Nord Italia la percentuale di obiezione arriva all’81,3 percento nella provincia di Bolzano, al 76,7 percento in Veneto e al 67,8 percento in Lombardia. Ad eccezione della Valle d’Aosta, la percentuale in tutta la penisola non scende al di sotto del 50 percento.

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In alcuni presidi ospedalieri la percentuale arriva addirittura al 100 percento. All’ospedale di Jesi (Ancona) lavorano dieci ginecologi che sono tutti obiettori di coscienza; per effettuare le interruzioni volontarie di gravidanza (Ivg) è quindi necessario chiamare un medico di Fabriano, che dista più di 40 chilometri dalla città. In Lombardia, dove ci sono 11 ospedali con percentuale di obiezione al 100 percento, ogni anno si spendono “oltre 305 mila euro per chiamare medici contrattisti che praticano le interruzioni di gravidanza.”

Se da un lato lo svuotamento della 194 non comporta nessuna conseguenza per i medici obiettori di coscienza (che sono tutelati dall’art. 9 della legge), per le donne che devono o intendono abortire si tratta di un percorso ad ostacoli che spesso e volentieri sfocia nel calvario.

Nel 2008 un medico anestesista dell’ospedale Niguarda di Milano (i cui vertici sono di comprovata fede ciellina) si era rifiutato di somministrare un antidolorifico a una donna ricoverata per un aborto terapeutico. “Mi spiace, sono un obiettore di coscienza, non posso farlo,” ha risposto l’anestesista alla donna che era in preda a dolori lancinanti causati dai primi interventi per l’induzione dell’aborto. Nel 2009, a Melzo (Milano), tre donne che avevano deciso di abortire erano state aggredite verbalmente da Leandro Aletti—primario di Ostetricia e ginecologia dell’ospedale di Melzo e noto antiabortista—che si era rivolto a loro nel corridoio del reparto dicendo: “Assassina, sta uccidendo suo figlio.”

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Nel 2010, a Messina, una donna aveva fatto richiesta di aborto terapeutico programmato a seguito di un’ecografia che aveva evidenziato gravissime malformazioni del feto. La notte tra l’11 e il 12 giugno, riportano le cronache, “la donna ha avvertito le contrazioni che precedono l’espulsione del feto, ma nessuno del personale medico né paramedico è intervenuto al momento di prestarle soccorso.” La donna aveva abortito il feto nel water della sua stanza con la sola assistenza della madre. Nel 2012 il sostituto procuratore di Messina,Liliana Todaro, ha chiesto il rinvio a giudizio per un medico di guardia del Policlinico di Messina, che si era rifiutato di prestare assistenza alla donna in quanto obiettore di coscienza.

Manifestanti alla Marcia per la Vita di maggio. Foto di Federico Tribbioli

In una recente inchiesta di Repubblica una donna, madre di tre figli (la più piccola è nata con la sindrome di Down), racconta il suo incontro ravvicinato con gli attivisti del Movimento per la vita. “A 44 anni sono rimasta incinta per la quarta volta. […]. Non era possibile avere un altro bimbo, con il rischio di un nuovo handicap. Sono andata in un consultorio della mia città per iniziare le pratiche dell'aborto. Ho dovuto subire l'umiliante interrogatorio di alcuni volontari del Movimento per la Vita, lì collocati dalla direzione sanitaria, che per due settimane hanno cercato di farmi 'riflettere', cercando di convincermi a non farlo, parlandomi apertamente di omicidio, mentre i termini stavano per scadere. Un vero abuso."

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Tuttavia, la conseguenza più nefasta della disintegrazione della legge 194 è il ritorno all’aborto clandestino. Il ministero della Sanità ha stimato (nel 2008) in ventimila gli aborti illegali compiuti in Italia. Ma la cifra, che prende in considerazione solo le donne italiane, difficilmente corrisponde ai dati reali: Repubblica parla di “quarantamila, forse cinquantamila” aborti reali. Nel 2011 l’Istat ha dichiarato 75mila aborti spontanei, ma un terzo di questi è probabilmente il frutto di “interventi ‘casalinghi’ finiti male”.

La Marcia per la Vita di maggio a Roma. Foto di Federico Tribbioli

Un caso piuttosto recente illustra molto bene cosa s’intende per Intervento Casalingo Finito Male. A Roma, nel maggio scorso, una ragazza romena di 17 anni, incinta al quarto mese, si era rivolta a una coppia di connazionali per abortire illegalmente. La ragazza aveva pagato 50 euro per un blister di pasticche (otto pillole di un farmaco per curare l’ulcera) e le indicazioni per la loro assunzione. Ma qualcosa è andato storto: la ragazza ha cominciato a sentirsi male. La descrizione di cosa è successo dopo l’assunzione delle pillole è abbastanza eloquente: “[la ragazza] ha espulso due feti gemelli morti, li ha sistemati in una vasca da bagno, nel sangue, e ha scattato una foto con il cellulare. Poi li ha gettati in un cassonetto, è corsa in ospedale ed è stata ricoverata in prognosi riservata.”

Questo è quello che succede quando un servizio pubblico—come dovrebbe essere quello garantito dalla 194—viene corroso dall’interno dall’abuso dell’obiezione di coscienza e dall’imposizione surrettizia di una visione moralistica, religiosa e autoritaria della società. I movimenti pro-vita/anti-scelta sono molto abili a raffigurare scenari apocalittici, formulare paralleli con genocidi totalitari, ergersi a paladini delle “mamme” e incentrare la discussione sulla difesa della “vita” a tutti i costi.

Il problema sorge nel momento in cui queste posizioni invadono la sfera pubblica e comprimono il diritto alla scelta individuale, e soprattutto quando anche le istituzioni politiche e sanitarie si sintonizzano su queste convinzioni, riportando l’evoluzione civile del Paese a sessant’anni fa (per essere generosi) e schiacciando chiunque chieda—molto semplicemente—l’applicazione della legge.

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Vedi anche:

La marcia della morte