Più si scopre sull’industria manifatturiera da 3000 milardi di dollari, meno viene voglia di comprare. Ecco perché – se siete dei (solitamente falliti) consumatori coscienziosi come me – vi trovate tra gli scaffali di abiti e il martello. Come i più economici diamanti insanguinati, le nostre magliette sono spesso il prodotto di lavoro sottopagato – cucito da mani malnutrite, e imballato in magazzini bollenti e fumosi mentre della tintura tossica scorre in un fiume da qualche parte fuori Dhaka.
Tutto inizia con un eccessivo consumo: nei paesi occidentali compriamo abbigliamento almeno sei volte tanto la nostra controparte cinese. Anche la materia prima costituisce un problema, dato che i paesi manifatturieri non sempre hanno a disposizione cotone, lycra o pelle localmente.
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E per venire incontro alla domanda, la maggior parte dei nostri vestiti sono fatti in Asia – dove gli operai vengono pagati qualcosa come 50-90 centesimi all’ora – e poi spediti in giro per il mondo.
Mantenere basse le spese va, ovviamente, a discapito dei lavoratori: molti degli operai tessili che fanno i nostri vestiti devono sopportare paghe infime, malattie, condizioni igieniche pessime e straordinari forzati. Alcuni lavoratori hanno dichiarato al Human Rights Watch di aver subito maltrattamenti ed estrema pressione per produrre grandi quantitativi di vestiti.
Ma potrebbe esserci una soluzione a queste violazioni dei diritti umani: i robot.
Quando pensiamo all’automazione – e nello specifico, alla sostituzione degli operai con i robot – il nostro primo pensiero va al fardello sociale costituito dal licenziamento di migliaia di lavoratori. Pensiamo alla crudeltà del decimare una forza lavoro di 60 milioni di persone. Ma cosa succede quando automatizzi le mansioni di un sistema che ha ampiamente fallito nel trattare i propri lavoratori con dignità?
All’inizio di quest’anno ho visitato delle fabbriche tessili a Hyderabad, una città a sud dell’India. Questi stabilimenti producono vestiti per aziende internazionali come Zara e Banana Republic.
In una fabbrica di quattro piani chiamata Chermas, costruita sul ciglio di una strada polverosa in un quartiere industriale, ho trovato 800 persone al lavoro. Ogni sezione dell’edificio gestiva varie mansioni. C’erano modellisti che tagliavano disegni, donne che inserivano i bottoni uno ad uno in una piccola macchina che li incollava ad una camicia, uomini che scaricavano enormi mucchi di vestiti in lavatrici e asciugatrici industriali, e altri operai che controllavano zip e fili tirati.
Il lavoro era indubbiamente meticoloso, monotono e fisicamente gravoso.
“Tutto qui è fatto a mano,” mi ha detto Shaik Adbul, il merchandiser di Chermas, mentre attraversavamo la fabbrica.
La fabbrica era pulita e organizzata. C’era una pausa di 15 minuti, durante cui gli operai si recavano in un bar poco lontano per piccole tazze di thè chai. Ma la rovente estate indiana sarebbe iniziata in un paio di mesi, e non c’era aria condizionata. Gli operai lavoravano duramente fianco a fianco su tavoli condivisi, stando in piedi tutto il giorno oppure curvi su una macchina. Il lavoro era indubbiamente meticoloso, monotono e fisicamente gravoso.
Subash, un operaio di 46 anni che si occupa di campionario alla fabbrica, mi ha detto che il suo lavoro è relativamente buono se paragonato ad altri della sua comunità. La compagnia, ha detto, porta gli operai in ospedali se sono malati o si fanno male. Ha detto anche i salari della maggior parte dei lavoratori oscillano tra le 4000 e le 10000 rupie (54-136 euro) al mese – uno stipendio medio-basso per una persona sola nell’India urbana, giusto il necessario a sopravvivere.
“Penso che rimarrò qui,” mi ha detto. “O eventualmente aprirò un mio piccolo laboratorio sartoriale.”
Anche altri operai mi hanno detto che il loro obiettivo è quello di iniziare una propria attività. Ciò è abbastanza comune in India, dove molti comprano ancora tessuti per poi farsi confezionare gli abiti dai sarti, ma è anche un ambiente molto competitivo.
Esistono già molte compagnie che lavorano per automatizzare la produzione di indumenti e rimpiazzare il lavoro che persone come Subash svolgono ogni giorno. Sewbo e Software, entrambe produttrici di robot che fanno vestiti, sperano che la loro tecnologia arrivi fino alle fabbriche.
“Si ha una produzione di qualità più alta,” mi ha detto al telefono da Atlanta Palaniswamy “Ray” Rajan, il CEO di Softwear. “Meno errori, meno materiale. Noi lo rendiamo possibile. Con i robot si possono fare cose di maggior qualità.”
Rajan ha detto che la sua compagnia, che ha ricevuto un finanziamento dal gruppo di ricerca militare statunitense DARPA, spera di rendere più efficiente l’industria manifatturiera. I robot della Softwear – o Sewbots™, come li chiama la compagnia – includono macchine da cucire automatiche. Questa tecnologia potrebbe sostituire i lavoratori che ho visto inserire materiale nelle macchine da cucire, o potrebbe fare l’orlo a camicie e pantaloni. Per ora, Raj ha detto, alcune piccole compagnie statunitensi hanno iniziato ad usare Softwear per fare vestiti, lenzuola, e altra biancheria.
Ci sono dei limiti tecnologici per la maggior parte dei “sewbots” automatici sul mercato al momento. Rajam mi ha detto che le sue macchine, che secondo un portavoce costano più o meno come i macchinari tessili tradizionali, non sono in grado di svolgere l’agile lavoro delle sarte quando si tratta di abiti costosi con fronzoli e strati di pizzo. E alcune delle chincaglierie e decorazioni degli abiti non possono essere aggiunte da una macchina standardizzata.
I robot hanno anche altre mancanze nell’industria tessile, visto che la maggior parte delle macchine attuali possono lavorare solo con specifici tipi di materiale, non con le varietà di pelle e camoscio e lino che costituiscono il nostro mercato, mi ha detto l’esperto di robotica David Bourne. Tagliare materiali differenti richiede tecniche differenti, dall’acqua pressurizzata alle lame.
Non siamo ancora al punto di rimpiazzare completamente la forza lavoro umana del tessile.
“Il grosso problema con le mucche è che hanno punture di api, tagli da filo spinato… ci sono tutta una serie di imperfezioni che devono essere evitate durante il taglio [della pelle],” ha detto.
Bourne, che lavora sull’automazione tessile al Carnegie Mellon’s Robotics Institute, dice che esiste già la tecnologia necessaria a fare magliette e altri semplici indumenti, ma non siamo ancora al punto di rimpiazzare completamente la forza lavoro del tessile, vista la diversità dei nostri modelli.
Anche se i robot dovessero eventualmente raggiungere gli umani, dovremmo tornare di nuovo a considerare persone come Subash, e il loro sostentamento. L’industria tessile dovrebbe affrontare un grosso problema con la manodopera in comunità dove milioni di persone potrebbero rimanere senza lavoro.
Le grandi aziende di abbigliamento hanno iniziato ad osservare gli economici mercati emergenti negli anni ’80. La Cina ha istituito una Zona Economica Speciale a Shenzhen per attirare investimenti esteri e impiegare migliaia di operai. In paesi come la Tailandia e la Cambogia, le compagnie straniere hanno iniziato ad assumere casalinghe per confezionare abiti negli anni ’90. E nel 2005, le industrie tessili avevano in libro paga 1,8 milioni di persone (di cui 1,5 milioni donne) in Bangladesh.
Oggi l’industria impiega tra i 60 e i 75 milioni di persone in giro per il mondo, inclusi 3 milioni in Bangladesh. Ci sono intere comunità che sono state costruite intorno alle fabbriche di abbigliamento, e famiglie che dipendono dalla paga giornaliera per le necessità più basilari. Tra i sindacati c’è la preoccupazione molto sentita, e assolutamente legittima, che l’automazione di anche solo parte del processo manifatturiero possa lasciare senza lavoro non solo persone, ma interi quartieri.
“Se l’automazione dovesse effettivamente avvenire, ci sarebbero enormi conseguenze per milioni di persone, visto che al momento l’industria tessile fa uso di una enorme quantità di forza lavoro non specializzata,” ha detto Leigh McAlea, una portavoce di TRAID, un’organizzazione per il patrocinio del commercio equosolidale. “E nei paesi più poveri, c’è una grande abbondanza di persone disposte a lavorare per salari estremamente bassi, al limite della sopravvivenza.”
E paesi come l’India guardano poco all’automazione. In realtà, l’amministrazione conservatrice di Narendra Modi ha puntato molto sulla manifattura operaia vecchia scuola.
“Stiamo preparando una forza lavoro enorme,” ha detto Sudha Rani, la CEO di Abhihaara Social Enterprise, un’organizzazione che usa fondi governativi per gestire una fabbrica di abbigliamento e istituto di formazione con 30 dipendenti.
Quando ho visitato la sua organizzazione a Hyderabad, ho trovato giovani donne che imparavano a cucire abiti – principalmente kurta e salwar kamiz in stile indiano. Rani ha detto di ricevere finanziamenti dal Ministero del Tessile per gestire il programma, che è parte di uno impegno nazionale a formare personale per industrie sostenibili.
Perché non possiamo semplicemente pagare meglio la gente?
Sfortunatamente, questo tipo di lavoro solitamente conduce alla stessa squallida situazione: industrie irregolari con paghe basse e condizioni di lavoro non regolamentate. A meno che le persone non riescano ad avviare le loro attività secondarie o laboratori artigianali, o lavorino in posti come Abhihaara, che impiega alcuni dei loro operai in formazione con orari meno pesanti, rimangono vulnerabili ai pericoli delle industrie. Pericoli che possono portare a incendi, malattie, e crolli di fabbriche, come il tristemente noto crollo della Rana Factory in Bangladesh.
Poi c’è, ovviamente la questione dell’abbigliamento equosolidale, e Abhihaara sta cercando di vendere i propri prodotti in questi spazi. Mi sono chiesta spesso, nella mia caccia all’abbigliamento etico: perché non possiamo semplicemente pagare meglio la gente e iniziare a comprare (meno) vestiti più costosi?
Ci sono molte imprese che sono saltate fuori grazie a questa premessa, con diversi gradi di successo. Everlane, per esempio, è un rivenditore online che predica la trasparenza in merito alle fabbriche di cui fa uso, alcune delle quali sono in Cina. E compagnie più grandi, come H&M, hanno tentato di ripulire la loro reputazione di pessimi datori di lavoro con la promessa di salari migliori.
Ma la maggior parte di questi sforzi sono limitati alla piccola scala, e queste attività molto di rado riescono a influenzare in qualche modo l’abbigliamento maggiormente acquistato dai ceti medio-bassi in occidente. Alcune delle aziende che dichiarano di avere prassi migliori e più sicure, come TOMS shoes, finiscono per fare le stesse cose che fanno gli altri – fanno le loro scarpe in Cina, per i soliti salari, perpetuando un sistema industriale inefficiente.
Allo stesso tempo, ci sono sporadiche prove a sostegno dell’importanza del consumatore coscienzioso. Come discusso da Alden Wicker su Quartz, i consumatori che tentano di fare scelte più consapevoli in merito ai loro acquisti hanno poco, se non nessun impatto. “Prendere una serie di piccole decisioni etiche sui propri acquisti, ignorando gli incentivi strutturali ai modelli d’impresa non sostenibile delle industrie, non cambierà il mondo tanto velocemente quanto vorremmo,” scrive Wicker.
Leila Janah, un’imprenditrice sociale, è la CEO di SamaSource, una compagnia che collega comunità a basso reddito in giro per il mondo ad occupazioni migliori, spesso nel digitale. Ha anche una compagnia chiamata LXMI, che ha portato makeup equosolidale e artigianale in vetrine più grandi, come Sephora. I prodotti sono realizzati da donne nella regione del Nilo che ora guadagnano fino a tre volte lo stipendio medio.
SamaSource ha combattuto direttamente con questa questione per anni – l’impresa sociale lavora con i più poveri in paesi come l’Etiopia e il Kenya per portare le persone lontano da lavori gravosi e sottopagati, e indirizzarle verso il lavoro specializzato. Janah crede che la tecnologia potrebbe sicuramente portare via certe tipologie d’impiego, ma che non ha senso lottare contro quel tipo di progresso.
“Tutto ciò che non fa sviluppare alcuna abilità – tutto ciò che è emotivamente gravoso e spossante; se possiamo automatizzare questi impieghi inappaganti, tanto meglio,” ci ha detto.
Questo non funziona senza dei cambiamenti sistematici. Compagnie senza operai umani, ha detto Janah, dovrebbero pagare tasse più alte, che sostengano obiettivi sociali più umani, come reti di sicurezza, formazione professionale continua, e un reddito di base universale. E le persone dovrebbero essere reindirizzate verso impieghi che possano essere fatti con dignità – ha citato come esempio il design artigianale, il lavoro digitale e la cura degli anziani.
L’industria manifatturiera è pronta a questo tipo di cambiamento di manodopera umana, ha detto Bourne, della Carnegie Melllon, che ha lavorato sia sull’aspetto ingegneristico sia su quello economico dell’industria tessile. La sua visione per questa industria include i robot che sta aiutando a creare, ma anche gli esseri umani.
“Quello è il genere di cose in cui la gente è davvero brava.”
Bourne ci ha detto che il modello giusto sarebbe quello in cui le fabbriche vengono completamente decentralizzate, creando dei piccoli centri manifatturieri in giro per il mondo. In questo modo, le persone potrebbero ordinare vestiti online vicini alle proprie case, e questi vestiti verrebbero prodotti prevalentemente da robot e persone in questi centri. I robot, in queste situazioni, potrebbero svolgere alcuni dei processi di taglio e cucito più in larga scala, mentre le persone si occuperebbero dei dettagli più piccoli, del servizio clienti, e della modellazione.
“Alcuni di questi passaggi non sono questioni interessanti per la robotica, e forse non lo saranno mai,” ci ha detto. “Sono sicuro che in vent’anni saprò fare robot da $100000 che possano anche fare altro. Ma quello è il genere di cose in cui la gente è così brava.”
Il modello descritto da Bourne sembra quasi una utopia, ma potrebbe fare ciò che molti paesi, inclusi gli Stati Uniti, stanno cercando di fare: stabilizzare l’economia locale, combattere le condizioni di lavoro pericolose, e lasciare spazio all’innovazione umana. L’ultima parte è un qualcosa in cui continuavo a imbattermi nelle fabbriche tessili che ho visitato. Spesso pensiamo che portare via del lavoro sia una pratica miserabile, un vicolo cieco. Ma aiutare le persone a sviluppare la capacità di portare le loro qualifiche in nuovi progetti potrebbe essere una soluzione.
Permettere di automatizzare alcune mansioni dell’industria tessile non vuol dire permettere di cancellare gli operai: vuole piuttosto dare più spazio all’idea che dovremmo investire in innovazione e ingegno. E ciò funzionerebbe solo con un consapevole e massiccio cambiamento nell’industria.
Ad Hyderabad ho visitato una piccola fabbrica tessile chiamata SQube Fashions, gestita da Suresh Yedla, un ragazzo smilzo sulla trentina che si è lasciato una vita di stenti nel suo Villaggio alle spalle per cercare di avviare una carriera nel design. Con l’aiuto del laboratorio sartoriale di suo padre e borse di studio governative, Yedla ha frequentato il National Institution of Fashion Technology e ha poco dopo iniziato a lavorare nell’industria tessile. Ma si è stancato presto della produzione di massa di centinaia di abiti, e del meticoloso lavoro in fabbrica.
Quando è riuscito a mettere da parte un po’ di soldi, Yedla ha ottenuto un prestito governativo per avviare il suo piccolo negozio, che gestisce l’outsourcing di compagnie come Zara, impiega circa 30 operai, e produce dai 200 ai 300 indumenti al giorno.
Sebbene le mansioni quotidiane tengano in piedi il negozio, Yedla ha detto che il suo obiettivo non è mai stato sfornare indumenti a ripetizione, ma era invece quello di creare design innovativi. Il suo visibile sfinimento, dovuto al gestire la stanza piena di operai, è svanito completamente quando mi ha mostrato alcune delle cose che ha fatto tuniche per le persone in sedia a rotelle, pigiami ospedalieri più alla moda per i malati terminali.
“Appena riesco ad avere un attimo libero dalla gestione dell’azienda, inizio a confezionare i miei prodotti,” mi ha detto. “È quello che avrei sempre voluto fare.”
Coincidenza vuole che quel lavoro non sia adatto a un robot.