David Golumbia è un professore associato di Inglese alla Virgin Commonwealth University, dove insegna digital studies and theory.
La cosiddetta rivoluzione dei social media si è trasformata in ciò che non ci aspettavamo diventassi. Siti come Twitter e Facebook sfruttano emozioni come la rabbia e la paura — e questa dinamica non aiuta in nessun modo lo sviluppo della democrazia.
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Circa dieci anni fa, in particolare dal 2009 fino al 2011, numerosi opinionisti si sono affollati a commentare ciò che loro definivano la “rivoluzione di Facebook, la rivoluzione di Twitter” o semplicemente la “rivoluzione dei social media.” Non erano mai troppo chiari su cosa significasse davvero questa rivoluzione. Ma qualunque cosa dovesse infine essere riguardava i social media e si stava consumando ovunque, o almeno in qualunque posto che non fosse l’Occidente: in Iran, in Moldavia, in Tunisia, in Egitto, e in tutto il Medio Oriente attraverso un movimento che è stato rinominato “Primavera Araba.” (È quantomeno interessante notare come le attuali proteste in Iran si stiano consumando benché il governo iraniano abbia apparentemente bloccato molti siti social media e app di messaggistica, e senza vedere alcun commento trionfale sulla tecnologia, come quelli che si vedevano nel 2009.)
Grazie all’avvento dei social media, la storia sembrava filare: i tiranni sarebbero caduti e la democrazia avrebbe trionfato. Le comunicazioni sui social media dovevano tramutarsi in una rivoluzione politica, anche se al tempo nessuno aveva ancora troppo chiaro che aspetto avesse una rivoluzione politica positiva. Il processo, però, diventa eccessivamente emotivo: il sentimento di rabbia si traduce direttamente, grazia alla magia dei social media, in una “ribellione” che diventa una governance democratica.
Ma i social media non hanno aiutato a far diventare queste rivoluzioni delle democrazia durature. I social media parlano direttamente con le parti più reattive e meno riflessive delle nostre menti, chiedendoci di stare allerta anche quando le parti più calme di noi ci dicono di rilassarci. Non è una sorpresa che questo tipo di social media sia particolarmente efficace nel promuovere l’odio, la supremazia della razza bianca e l’umiliazione pubblica.
Uno dei motivi perché i social media sono così utili ai propagandisti è da ritrovarsi nella loro capacità di sfruttare le grandi quantità di dati che piattaforme come Facebook raccolgono per poi trasformarli in delle armi attraverso delle tecniche di bersagliamento psicologico.
I social media soprassiedono troppo facilmente la parte razionale, o perlomeno quella ragionevole, delle nostre menti, quella parte da cui la sfera democratica dipende. Invece, parla alle parti più emotive e impulsive di noi, quelle parti che vengono gratificate da immagini e da click che appaiono soddisfacenti e che nutrono il nostro ego e che ci fanno pensare di essere degli eroi. Ma troppo spesso queste sensazioni finiscono per danneggiare la nostra capacità di ragionamento, di pianificazione e di interazione su cui le politiche democratiche sono costruite. Ciò non significa che un dibattito ragionato non possa consumarsi online; ovviamente può farlo e lo fa già. Significa solo che c’è una forte tendenza — ciò che i ricercatori di media e tecnologia chiamano “affordance” — ad allontanarsi dai dibattiti ragionati e a spostarsi verso le emozioni forti.
L’11 febbraio 2011, al climax della Primavera Araba, il giorno in cui il Presidente egiziano Hosni Mubarak si è dimesso, l’ex direttore esecutivo marketing di Google e attivista Wael Ghonim ha detto, “Gran parte di questa rivoluzione è partita su Facebook. Se vuoi liberare la società, basta fornirle internet. Se vuoi una società libera, dai loro internet.”
Ciononostante, nel febbraio del 2016 e senza grosse fanfare, mentre stava promuovendo un progetto chiamato Parlio che ha finito per fondersi a Quora, Ghonim ha dimostrato qualche riserva sulle sue vecchie dichiarazioni. Benché creda ancora che “i social media stiano redistribuendo il potere politico,” ora è preoccupato del fatto che “la possibilità di sviluppare reti, organizzare azioni e scambiarsi informazioni su scala in un breve periodo di tempo” abbia “un drastico impatto sulla vita civica — positivo o negativo che sia.”
Benché li veda come separati, non posso fare a meno di pensare che ciò che Ghonim definisce “la gara di popolarità senza fine” dei social media sia in gran parte corrispondente allo stesso fenomeno che ha portato alla aspirazioni politiche mai completamente consumatesi della Primavera Araba.
Consideriamo per esempio se anche l’elezione di Donald Trump e il referendum per la Brexit del Regno Unito possano essere definite delle rivoluzioni dei social media. Descrivono in maniera elegante ciò che molti hanno sempre creduto essere il probabile impatto sulla società dei social media: la sostituzione di altre forme di media politici, come la televisione, i giornali o la radio.
Le elezioni del 2016 hanno rappresentato la vittoria delle politiche emotive, impulsive e “prima-io” sul razionale e sulla riflessività alla base della governance democratica. Quasi ogni giorno si vedono pubblicati articoli e ricerche che dettagliano in che modo le piattaforme social media siano state usate per propaganda e per manipolazione durante l’elezione di Trump e il referendum per la Brexit.
Uno dei motivi perché i social media sono così utili ai propagandisti è da ritrovarsi nella loro capacità di sfruttare le grandi quantità di dati che piattaforme come Facebook raccolgono per poi trasformarli in delle armi attraverso delle tecniche di bersagliamento psicologico. I data analyst sono in grado di estrapolare i comportamenti dei singoli a partire da dati apparentemente innocui come i “like” su un particolare brand di cosmetici.
Anche Donald trump stesso crede che “senza social media” molto probabilmente non sarebbe stato eletto, e molti accademici sono d’accordo con lui.
Un modo in cui spesso i social media sfruttano le nostre emozioni più semplici può essere trovato in due incontri risalenti al 2007-2008 tra l’economista comportamentale vincitore del premio Nobel Daniel Kahnmean e il vincitore del premio Pulitzer Richard Thaler e diverse tra le persone più potenti del mondo della tecnologia, che sono brevemente passate in rassegna del recente documentario di Bartlett uscito sulla BBC, Secrets of Silicon Valley.
Molti accademici affermano che il mondo è diventato meno democratico da quando internet è arrivato. È importante almeno tenere in conto di come queste due cose possano essere connesse tra loro.
Nel 2007 e poi nel 2008, Kahneman ha tenuta una lezione in “Thinking, About Thinking” a un gruppo di potenti direttori di aziende come Google, Twitter, Facebook, Wikipedia, Microsoft e Amazon (ha anche tenuto un’altra lezione su “Thinking, Fast and Slow” da Google nel 2011).
Kahneman è noto per avere creato consapevolezza sulla distinzione tra i cosiddetti sistemi di pensiero System 1 e System 2 . Il System 2 è il caro vecchio modo di pensare “con calma,” “richiede uno sforzo, è infrequente, è logico, calcolatore e consapevole.” System 2 è il tipo di modo di pensare che ci piace pensare di fare sempre. System 1 è il pensare “veloce”, combatti o fuggi, “automatico, frequente, emotivo, stereotipico e subconscio.”
Facebook e Twitter, come la maggior parte dei social media, sono costruiti sul System 1. È per questo motivo che molti direttori del mondo tech erano presenti a queste lezione. Ed è ciò che hanno imparato lì: Come creare dei media che parli al System 1 e ignori il System 2. Non devi guardarti troppo intorno per vedere degli sviluppatori del mondo digitale raccomandare che i loro prodotti parlino esclusivamente al System 1.
I social media stimolano la nostra parte “primitiva” — ci chiedono di sfruttare il modo di pensare a la System 1 su problematiche sappiamo andrebbero analizzate con il System 2. È stato così sin dall’inizio. Il precursore di Facebook creato da Zuckerberg, la versione di Harvard di “hot or not“, chiamata Facemash, faceva certamente leva sul System 1, e il News Feed di Facebook fa lo stesso oggi. Sean Parker, il presidente fondatore di Facebook, ha chiaramente dichiarato questa cosa in un’intervista risalente al 9 novembre con Mike Allen di Axios: “Il modo di pensare che abbiamo traslato in queste applicazioni, Facebook tra tutte, … era sempre riconducibile a “Come consumiamo quanto più tempo e attenzione possibile dei nostri utenti?’”
Parker continua: “Si tratta di un ciclo di feedback per la validazione sociale… La stessa identica cosa con cui salterebbe fuori un hacker come me, perché stai sfruttando le vulnerabilità della psicologia umana.” Durante lo stesso mese, l’ex vicepresidente per la crescita degli utenti di Facebook Chamath Palihapitya ha dichiarato in un talk a Stanford che le aziende di social media “hanno creato questi strumenti che stanno facendo a pezzi il tessuto social su cui si basa il funzionamento della società.”
James Williams, un ex advertising executive di Google, ha scritto che i social media e le tecnologie digitali sono “progettate per sfruttare le nostre vulnerabilità psicologiche e direzionarci verso obiettivi che potrebbero o non potrebbero essere condivisi da noi.”
Parker e Palihapitiya non sono i soli a fare questo tipo di osservazioni. Roger McNamee, un venture capitalist e uno dei primi investitori sia di Google che di Facebook, ha recentemente scritto in un op-ed che queste aziende hanno “coscientemente unito le tecniche persuasive sviluppate dai propagandisti e dall’industria delle scommesse con la tecnologia in modi che minaccia la salute pubblica e la democrazia.” In un op-ed della CNN, due esperti di giustizia criminale hanno dichiarato che “i social media hanno trasformato storie che sarebbero state scartate come teorie di complotto in conoscenza popolare” e che “Per quegli estremisti che una volta rimanevano anonimi, l’attrattiva di un feedback social quantificabile è… troppo grande.”
Nel tardo 2016, un premio internazionale chiamato Nine Dots Prize, stabilito in parte dall’Università di Cambridge, incoraggiava l’iscrizione di progetti per la sua edizione inaugurale. I giudici stavano cercando risposte alla domanda “Le tecnologie digitali stanno rendendo la politica impossibile?” Il vincitore, James Williams, un ex advertising executive di Google, ha scritto che i social media e le tecnologie digitali sono “progettate per sfruttare le nostre vulnerabilità psicologiche e direzionarci verso obiettivi che potrebbero o non potrebbero essere condivisi da noi.” In una recente intervista con il The Guardian ha ulteriormente approfondito la cosa e ha dichiarato che “l’economia dell’attenzione sta minacciando direttamente le premesse su cui si fonda la democrazia.” Williams fa parte di un piccolo gruppo di ex lavoratori della Silicon Valley che hanno partecipato allo sviluppo di tecnologie il cui scopo, come loro stessi descrivono, è “impadronirsi delle nostre menti.”
Sintetizzando la ricerca accademica sviluppatasi a partire dal 2008, la Fellow di Knight-Mozilla Sonya Song ha scritto nel 2013 che benché “le persone siano costantemente impegnate a passare dal pensiero rapido a quello veloce… sui social, le persone giocano principalmente con il pensiero veloce.” Pubblicazioni recenti di Natasha Dow-Schull (Addiction by Design: Machine Gambling in Las Vegas, 2013) e Adam Alter (Irresistible: The Rise of Addictive Technology and the Business of Keeping Us Hooked, 2017) descrivono nel dettaglio come l’industria dei social media sfrutti deliberatamente tecniche per impadronirsi della nostra mente. Il pediatra Robert Lustig ha spiegato in maniera ancora più approfondita come funzionano queste tecniche nel suo libro The Hacking of the American Mind: The Science Behind the Corporate Takeover of Our Bodies and Brains (2017).
Troppi di noi hanno implicitamente creduto che la tecnologia sarebbe stata usata esclusivamente per fare del bene. Ma non c’è alcuna ragione per credere che ciò sia vero. Molti accademici hanno affermato che il mondo è diventato meno democratico da quanto internet è stata introdotta. È importante almeno tenere in conto che queste due cose possano in qualche modo essere connesse: che le promesse di democrazia fatte da internet non siano, alla fine, ciò che sembravano.
I gadget che utilizziamo e i social media con cui interagiamo sono tutti progettati per obbligarci a fare attenzione corto-circuitando le parti più razionali del nostro cervello. Perché dovremmo pensare che questi circuiti possano pensare a dinamiche più democratiche se la storia del mondo mostra come il pensiero di System 1 abbia portato a violenza e autoritarismo?
Coloro che hanno celebrato la rivoluzione di Facebook e Twitter stavano celebrando la sostituzione di riflessioni relativamente calme con le politiche dell’impulsività e della passione. Questa dominazione del System 2 attraverso il pensiero di System 1 è la vera “rivoluzione” dei social media. La questione che rimane aperta è la seguente: le democrazie hanno la volontà e i mezzi per poter riportare il buon senso alla politica o le tecnologie digitali hanno reso questa inversione di tendenza impossibile?