Era il febbraio del 2010 quando Tomaso Bruno e Elisabetta Boncompagni, all’epoca 25 e 37 anni, si sono ritrovati coinvolti una tragedia che si è trasformata in un calvario lungo cinque anni. In seguito alla morte di Francesco Mortis, amico dei due, Tomaso e Elisabetta vengono accusati di omicidio e condannati all’ergastolo in primo e secondo grado. Nonostante l’infondatezza dell’accusa, tra attese, intasamenti e continui rimandi, passano ben cinque anni prima che i due vengano dichiarati innocenti e possano tornare in Italia.
Dal 2015 Tomaso è tornato a una vita normale, e recentemente la sua storia è diventata un documentario. Più libero di prima, del regista Adriano Sforzi, racconta infatti la vicenda dall’interno, tramite le lettere che il protagonista scriveva dal carcere e ritraendo l’attesa snervante della famiglia. Il film è stato presentato in occasione di Cinevisione—un festival organizzato all’interno del carcere Dozza di Bologna.
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Proprio in quell’occasione, ho ripercorso con Tomaso la vicenda e parlato con lui delle carceri indiane, del rapporto che ha instaurato con gli altri detenuti e di come sia scoprire di essere indagati per omicidio quando si è innocenti.
VICE: Ciao Tomaso. Partiamo dalle ore immediatamente successive alla morte di Francesco. Cosa è successo? Come vi siete trovati a essere accusati di omicidio?
Tomaso Bruno: Come ci siamo trovati a essere accusati di omicidio ancora ora non riesco a capirlo. Io so che una volta tornati in albergo dall’ospedale, davanti all’edificio abbiamo trovato la polizia, che ci ha fatto un colloquio. Ci hanno detto che una volta fatta l’autopsia ce ne saremmo potuti andare, e ci hanno preso i documenti—cosa che col senno di poi capisco non avremmo dovuto permettere. Così noi, che intanto avevamo già avvertito la famiglia e l’ambasciata, ci siamo trovati chiusi in albergo ad aspettare, senza documenti.
Il giorno dopo sono arrivati altri poliziotti, e poi altri ancora. A quel punto ho chiamato l’ambasciata abbastanza piccato, e mi hanno detto di trovarci un avvocato perché volevano accusarci di omicidio.
Ti ricordi come hai preso la notizia?
Era talmente assurdo che non ho avuto paura, sono sempre stato convito, e questo dall’inizio alla fine, che in qualche modo ne saremmo usciti. Anzi, all’inizio c’era solo il lato dell’avventura, una cosa in più da raccontare.
Anche dopo la sentenza in secondo grado, non ho mai pensato di dover scontare l’ergastolo. Ricordo solo un momento di vera paura: il trasferimento dall’ospedale al carcere. Ci hanno fatto delle visite mediche e poi ci hanno messo su una camionetta diretta al carcere. Non sapevamo niente, nessuno ci informava di quello che sarebbe successo. Una volta sceso, la voglia di salvarmi la pelle ha avuto la maglio.
Tornando ai motivi per cui siete stati accusati (e condannati in primo e secondo grado), inizialmente si parlava di “delitto passionale”.
Esatto. Non conoscendo la cultura del posto abbiamo fatto degli errori. Il primo è stato quello di dormire tutti insieme, due ragazzi e una ragazza. Nella cultura indiana si tratta di una cosa inaccettabile—soprattutto nelle campagne la si vede immediatamente in modo sessuale. Ovviamente noi non conoscevamo il posto e l’unico intento era quello di risparmiare, ma abbiamo pagato quest’ingenuità.
In Italia a un certo punto è venuto fuori che avevate fatto uso di droghe la notte del decesso e c’è chi ha cominciato a diffidare di voi o a disinteressarsene, dipingendovi semplicemente come dei “tossici”.
Sì, io ho ammesso di aver fatto uso di droghe in un video de Le Iene, sono cose che dico senza problemi perché non ho nulla da nascondere. Da lì per una parte della stampa e delle persone sui social siamo diventati dei tossici che non meritavano davvero che fosse fatta giustizia. Mi ha dato molto fastidio, ma in fondo me lo aspettavo.
In India, invece, è l’essere italiani che ha influito di più durante l’incarcerazione.
In quali modi?
Da una parte, con gli occhi di tutto il mondo puntati addosso, non ci hanno permesso di usufruire di quel sistema di corruzione che caratterizza il carcere lì. Nella mia esperienza, coi soldi in carcere si esce o si vive bene. Per noi tutto questo non è stato possibile.
Dall’altra ovviamente gli stessi occhi hanno permesso che venissimo sempre trattati bene—cosa che non si può dire per gli altri detenuti. In più se cinque anni per una sentenza definitiva possono sembrare un’infinità, capita soprattutto ai cittadini indiani che ci vogliano anche vent’anni per uscire, in casi analoghi.
Com’era il carcere? Puoi descrivermelo?
Il mio era un carcere transitorio, in cui si trovavano persone che erano in attesa della sentenza. La cella è una baracca, in cui stanno un centinaio di persone. Come letto hai una coperta, che spesso dividi con altri detenuti.
Per il resto, l’india è un paese sporchissimo, ma l’igiene personale è molto importante, i detenuti si lavavano tre volte al giorno e se un nuovo arrivato non si lavava la prima cosa che facevano era metterlo sotto la doccia. Ovviamente non c’è acqua corrente. Insomma rimane un carcere composto da baracche, ma non sono sicuro, almeno per quello che ho visto io, che i detenuti italiani se la passino molto meglio.
Come è stato l’impatto con il carcere, e com’era il rapporto con gli altri detenuti?
Sono molto bravo a farmi i cazzi miei, ed è una qualità che in carcere si è rivelata particolarmente utile. Agli inizi avevo paura soprattutto delle violenze fisiche. Ne ho viste: ogni tanto le guardie carcerarie passano a riscuotere dei soldi e se non ne hai ti danno una bastonata, o gli stupratori vengono picchiati dagli altri detenuti quando entrano. Ma niente di eclatante, e me non mi ha mai toccato nessuno.
Ho trovato il mio posto piano piano, capendo gradualmente come funzionavano le cose: che ogni baracca aveva il suo “capo”, quali erano le persone con cui potevo o non potevo parlare, come rispondere. Ma ho stretto anche dei rapporti molto profondi. In particolare sono ancora in contatto con un ragazzo tibetano che mi ha fatto da guida, in senso pratico e spirituale. Una parte di me è ancora dentro con lui. Una volta che ho imparato l’indiano, tutto è stato più facile.
Il fatto che tu fossi innocente ti faceva sentire diverso dagli altri detenuti?
Assolutamente no, non ci ho mai pensato. Quando si è dentro si è tutti uguali. Magari mi capitava di chiedermi cosa avesse fatto una persona, ma ragionare così sarebbe stato impossibile. Ho deciso di dividere il dentro dal fuori: ti conosco da quando ti conosco, quello che hai fatto prima non mi interessa.
Come passavi le tue giornate in carcere?
Come dico anche nel film, ho imparato a seguire una routine ferrea, che nella vita non avevo assolutamente. Diciamo che la maggior parte del tempo la passavo a leggere e scrivere, le Gazzette che mi mandava mia madre ed altro, altra cosa che posso dire non facessi molto prima di quell’esperienza.
Ti sei sentito aiutato dalla politica?
Solo in parte. Le cose le hanno accelerate gli avvocati, non la politica. C’è stato molto interessamento da parte di alcuni rappresentanti, specialmente l’ultimo ambasciatore. Diciamo che la lettera o il panettone a Natale fanno piacere, ma in quei casi serve un aiuto pratico, che da parte delle istituzioni non c’è stato.
Sono passati cinque anni, come è stato tornare alla vita regolare e come ricordi quell’esperienza?
Il ritorno in Italia è stato molto strano. Il primo mese l’ho passato tra amici e parenti, poi mi sono trovato a dover lavorare da subito e questa cosa mi ha aiutato a tornare alla vita normale, come è servito a chi mi stava attorno. Non riesco ad avere particolari sentimenti per quell’esperienza, la vedo come una cosa lontana, per cui non serbo alcun rancore. Certo mi hanno tolto cinque anni, ma non credo siano stati completamente buttati.
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