Quello qui sopra è un ex shuttle russo, coperto di polvere e dimenticato in un hangar in Kazakistan. Si tratta di quello che rimane del Progetto Buran, lo sforzo sovietico di costruire space shuttle riutilizzabili. Il progetto, basato su piani trafugati alla NASA, è stato attivo dal 1974 al 1993 ed è riuscito soltanto a mandare in orbita uno shuttle, nel 1988.
Dopo il crollo dell’URSS il programma è stato messo in stand-by e gli space shuttle incompiuti sono stati abbandonati. Uno di questi è andato distrutto nel 2002, quando l’hangar che lo ospitava è crollato durante una tempesta, mentre un altro prototipo si trova in un museo in Germania. I due shuttle rimasti al cosmodromo di Baikonur, in Kazakistan, sono probabilmente gli ultimi che restano.
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L’autore di questo articolo è un fotografo che ha voluto rimanere anonimo. Pochissime persone sono riuscite a entrare a Baikonur e a uscirne senza problemi, e lui è uno di loro. È europeo, fa il fotoreporter e non ha voluto farsi identificare in alcun modo per paura che farlo potrebbe rendergli difficile viaggiare. Ci ha spiegato come ha fatto a entrare nel cosmodromo, come ha fatto a uscirne e come, da quel giorno, è convinto di avere degli agenti segreti russi sulle sue tracce. L’intervista è stata editata per chiarezza e lunghezza.
Quando ho scoperto l’esistenza del Progetto Buran ho pensato subito che dovevo andare a vedere di persona. Mi sembrava il mostro finale, per un appassionato di esplorazione urbana come il sottoscritto. Il meglio del meglio. Così nell’ottobre 2015 sono andato per la prima volta in Kazakistan.
Il cosmodromo di Baikonur è enorme. È uno spazio di 70 km per 90 in pieno deserto, con centinaia di postazioni di lancio abbandonate dai tempi della guerra fredda. Alcune in realtà sono ancora attive—da lì partono i razzi per la Stazione Spaziale Internazionale. Ma la vera sfida che mi trovavo di fronte era che l’hangar si trova a 40 km dalla strada principale. E l’altro problema è che, dato che è tutto deserto piatto, non c’è posto per nascondere una macchina. E in più ci sono jeep di pattuglia che fanno costantemente il giro lungo il perimetro del sito.
Durante il mio viaggio del 2015 sono rimasto solo a osservare da fuori, cercando di capire il come e il quando dei movimenti delle pattuglie. Non avevo un piano. Ho solo raccolto dati cercando di capire come evitare le pattuglie e come attraversare il deserto senza un’auto, finché non ho avuto l’illuminazione: una bicicletta! Dovevo solo coprire la distanza dalla strada principale a una di quelle interne, che è circa 20 km.
Così sono tornato a casa e ho cominciato a fare progetti. Ho comprato una bici pieghevole e iniziato a seguire attentamente le date dei lanci. Il calendario è pubblico, si trova su internet, e io volevo scegliere il momento migliore, con meno attività possibile. Ho scoperto che durante l’agosto del 2016 non erano previsti lanci e che a metà di quel mese ci sarebbe stata la luna piena, che avrebbe reso più facile viaggiare di notte.
Sono arrivato in Kazakistan di venerdì. All’inizio è stato facile. Ho trovato un posto dove nascondere la macchina—una pila di vecchi pneumatici, tappeti e immondizia in mezzo al deserto. Mentre coprivo la macchina di tappeti e vecchie gomme, una pattuglia di guardie mi è passata vicino. Mi sono spaventato, ma devono aver pensato che fossi un abitante della zona che scaricava la pattumiera come ho visto fare ad altri.
Comunque, sapevo che avrebbero cambiato giro per tornare sul posto e vedere che cosa stavo facendo. Così ho capito che dovevo cambiare piano e ho guidato ancora un po’, per fermarmi sette km più a est. Lì, la notte successiva, ho trovato un cimitero in cui parcheggiare senza che nessuno venisse a disturbarmi.
Da lì ho cominciato a pedalare per raggiungere la prima strada interna. E qui ho incontrato il primo vero problema. Pensavo che le strade fossero asfaltate—e invece no, erano fatte di sabbia e ghiaia. Ma non avevo scelta. Ho cominciato a pedalare in mezzo alla sabbia.
Avevo calcolato che quella parte del viaggio sarebbe durata 5 ore e invece ce ne ho messe 9. Quando sono arrivato all’hangar ero esausto e mi sono trovato davanti un altro problema ancora.
Pensavo che l’hangar sarebbe stato aperto e invece era chiuso. Ho risolto accatastando una serie di barili di benzina, arrampicandomici sopra e raggiungendo la scala antincendio fino al secondo piano. Il secondo piano era aperto e verso le 6.30 del mattino sono entrato nell’hangar. Era completamente buio. C’era solo una fila di finestre che mandavano una luce molto soffusa all’interno, sembrava di stare in un’enorme cattedrale. E in basso potevo vedere questi due enormi space shuttle.
Era come un museo. Sono rimasto seduto due ore immobile a guardarli. Ho cercato di dormire un po’ ma il mio corpo era così pieno di adrenalina che non ci sono riuscito. Alle 10, quando la luce è migliorata, ho fatto un po’ di foto.
Era una domenica tranquilla al cosmodromo di Baikonur. Ho passato tutta la giornata ad arrampicarmi in giro cercando di ottenere le foto migliori. Gli shuttle erano palesemente rimasti lì per 25 anni ed erano coperti di escrementi di uccello. Era tutto a pezzi. Nei dieci anni in cui ai kazaki non era stato molto chiaro quello che succedeva a Baikonur, l’hangar era stato spogliato di ogni cosa di valore. Penso che prima o poi collasserà com’è successo all’altro.
Dopo aver passato la giornata a fare foto sono andato a vedere un altro hangar lì vicino. È quello che ospita l’enorme razzo Energia, a 400 km di distanza dall’hangar principale. Ci sono strisciato dentro e ho fatto altre foto. E proprio quando stavo per andarmene ho visto tre pastori tedeschi che venivano verso di me. Ho preso una sbarra di ferro e ho tirato fuori il mio spray al peperoncino, che mi ero portato apposta in caso avessi dovuto fronteggiare un cane. Ho usato lo spray. I cani se ne sono andati e sono rimasto solo di nuovo.
A quel punto era buio e dovevo tornare indietro. Non sarebbe stata una buona idea rimanere lì di lunedì mattina per cui dovevo raggiungere la macchina prima dell’alba. Ho camminato per otto chilometri fino alla bici e ho cominciato a pedalare. E quando mi sono stancato di pedalare ho iniziato a camminare. Alla fine sono arrivato alla macchina.
Quando sono tornato a casa ho fatto una mostra delle foto che avevo scattato sul posto ed è venuta un sacco di gente. È stato un affare: ho venduto un sacco di stampe. Il viaggio mi è costato circa 1000 euro e ne ho guadagnati 20mila.
Poi però, quattro giorni dopo, sono arrivato a casa e ho trovato la porta aperta. Mi avevano portato via soltanto la Nikon—quella con la memory card e molte delle foto che avevo fatto—e il portatile. Nient’altro, nemmeno la borsa degli obiettivi e la macchina fotografica di riserva, una Sony A7. Ho chiamato la polizia, gli agenti sono arrivati e ho sporto denuncia. Più tardi la polizia mi ha richiamato e mi ha detto, “Guarda, non ha senso che abbiano preso solo la tua macchina fotografica e il tuo computer. Pensiamo che sia stato un avvertimento.”
Mi hanno detto di stare attento. Hanno pensato, e io penso ci abbiano visto giusto, che sia stata una questione di onore. Se qualcuno come me riesce a entrare nel loro spazioporto segreto su una bicicletta pieghevole, i russi ci perdono la faccia. E in più gli Stati Uniti pagano decine di milioni di dollari ogni volta che devono usare Baikonur per mandare qualcosa o qualcuno sulla Stazione Spaziale Internazionale. Quindi non è neanche una buona pubblicità per gli affari. Da allora ho cercato di star lontano dai media, un altro dei motivi per cui ho chiesto di restare anonimo.
Non ho paura. Non mi guardo costantemente le spalle. Sono una persona molto ottimista—devi esserlo per fare questo lavoro. È una bella storia e l’ho già raccontata a un po’ di amici. Immagino che la cosa principale che ho imparato sia quant’è importante arrivare preparati. Avevo lo spray al peperoncino e il giubbotto antiproiettile. Avevo imparato come si dice in russo “mani in alto.” Ma non avevo un piano B per quando non ho potuto parcheggiare nel primo punto in cui avevo deciso. Avrei dovuto avere un piano B e seguirlo invece che improvvisare.
Quindi bisogna essere sempre preparati. E se qualcuno volesse andare lì oggi gli direi di non farlo. Mi è stato chiesto di tornarci, un canale tv mi ha chiesto di portarli lì facendogli da guida, offrendomi anche un sacco di soldi, ma ho rifiutato. Non ci torno nemmeno per soldi. Faccio quello che faccio solo per la fotografia, non per altro.
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