L’entrata in vigore del GDPR ha letteralmente fatto esplodere le nostre caselle di posta elettronica. Questa, però, è stata solo la prima ondata: gli effetti più devastanti, infatti, hanno interessato tutta internet.
Nei giorni precedenti il 25 maggio qualunque servizio internet a cui ci siamo iscritti negli anni ha voluto ricordarci della sua esistenza, chiedendo più o meno disperatamente il nostro consenso per trattare i nostri dati — tutto ciò si traduce nel rimanere iscritti alle newsletter o continuare a utilizzare i servizi offerti, come nel caso dei social network.
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Non tutte le aziende, però, sono riuscite a gestire il mondo post-GDPR allo stesso modo — alcune hanno persino sospeso i loro servizi per tutti gli utenti che si connettono dall’Europa, come nel caso di Instapaper:
La stessa soluzione è stata adottata da alcune testate americane, come il Chicago Tribune e il Los Angeles Times:
Ma siccome nel 2018 ogni oggetto è dotato di una connessione a internet, alcuni utenti hanno visto persino le proprie lampadine smart smettere di funzionare, proprio perché in qualche modo raccolgono e gestiscono dati personali:
Questi sono solo alcuni degli esempi raccolti da un utente sul sito GDPR Hall of Shame, che riassume bene il problema che si è creato con questo nuovo regolamento: allo stato attuale, grossa parte di internet non è in grado di gestire correttamente i dati personali dei suoi utenti.
Se leggendo queste informative sulla privacy sembra che la colpa sia del GDPR, dovremmo in realtà guardare tutta la questione nella direzione opposta: le aziende che usano internet non sono state in grado di — o non hanno avuto interesse a — modificare il loro comportamento. E hanno avuto a disposizione 2 anni per farlo: il nuovo regolamento è stato introdotto nell’aprile del 2016.
Il GDPR ha quindi finalmente mostrato come l’attuale modello di internet sia fondamentalmente insostenibile se si vuole salvaguardare la privacy e la dignità umana. Perché proprio di questo si tratta: il regolamento vuole rimettere gli utenti in controllo dei propri dati che, seppur dispersi sotto forma di bit, sono né più né meno parte costitutiva della nostra persona.
Alcuni siti hanno cercato di mostrare una via percorribile, come nel caso dell’emittente radiofonica NPR che ha voluto fare direttamente un salto negli anni ‘90 offrendo una versione del suo sito puramente testuale — questa versione, però, non è una reazione al GDPR, come vorrebbe sembrare, poiché era già stata segnalata 8 mesi fa su HackerNews.
In realtà non serve dire addio alle immagini e alle grafiche per i siti: la semplice riduzione dei codici javascript per il tracciamento degli utenti e per le pubblicità permettono di rispettare il GDPR e migliorare persino l’esperienza di navigazione (addio, pagine lente).
Come ha mostrato su Twitter Michael Donohoe, le versioni di alcuni siti di giornali che rispettano il GDPR sono fino al 38% più leggere rispetto alle versioni per gli utenti americani, che non possono godere dei benefici del regolamento europeo — la versione testuale di NPR, per esempio, pesa solo 209KB.
Questo è il mondo post-GDPR: non c’è più spazio per codice javascript che rallenta la navigazione, cookies che ci tracciano in ogni pagina e profilazione massiva delle nostre attività
USA Today, però, ha dato il miglior esempio per un internet post-GDPR e ha mostrato definitivamente come i siti web siano pieni di codice spazzatura. Gli utenti europei, infatti, sono accolti sul sito dalla descrizione della cosiddetta “European Union Experience” secondo la quale non vengono raccolti dati che identificano gli utenti né viene effettuato alcun tipo di tracciamento o monitoraggio dell’attività online.
Come ha sottolineato su Twitter lo sviluppatore Marcel Freinbichler, il sito di USA Today è passato da una velocità di caricamente di 45 secondi a soli 3 secondi. Da 5.2MB a 500KB.
Questo è il mondo post-GDPR: non c’è più spazio per codice javascript che rallenta la navigazione, cookies che ci tracciano in ogni pagina e profilazione massiva delle nostre attività. L’Europa ha imposto degli standard da cui non si può tornare indietro.
Invece, per tutti gli appassionati di Internet of Things che si sono visti recapitare le informative sulla privacy direttamente sugli schermi dei loro frigoriferi, purtroppo, ho solo un consiglio:
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