Foto di Jamie Taete.
Un tempo, il lavoro era un’attività portata avanti per finanziare il resto delle cose che si facevano nella vita. Era la rottura di palle che dovevi sorbirti per otto ore al giorno, cinque giorni la settimana, tutte le settimane all’anno tranne due o tre o più, per riuscire a pagare le tue bevute, il regalo di Natale per tuo padre, la cena e un funerale dignitoso. Il lavoro era il lavoro, il tempo libero era il tempo libero, la vita era la vita. Da quel che posso ricordare, eravamo tutti abbastanza soddisfatti di questo patto.
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Oggi però le linee di demarcazione non appaiono più così chiare. La recessione ha portato via le nostre pause pranzo di un’ora, le foto su Facebook e i tweet da sbronzi hanno rivelato la vera natura delle nostre “visite d’emergenza dal dentista” e gli smartphone hanno trasformato le settimane di vacanza in settimane di lavoro. Il lavoro sta attentando alle nostre vite private.
Basta dare un’occhiata alla sezione “lavoro” sui siti di annunci per trovare tutta una sfilza di orrori che vi faranno venir voglia di prendere il primo aereo per un’isola deserta prima ancora di ottenere un colloquio. La disoccupazione giovanile è in crescita praticamente in tutta Europa, i salari sono bassi e nemmeno i bastardi hanno più una vita facile.
Per me, però, il dato più significativo è emerso qualche mese fa, quando un sondaggio ha rivelato che il 72 percento dei lavoratori britannici matura 10 ore di straordinario non pagato a settimana. Ho creduto al risultato di questo studio? No, considerato chi l’aveva commissionato. Ma poi ho letto un altro studio, questa volta condotto dal leggermente più rispettabile Trades Union Congress, che sostiene che in media un normale lavoratore inglese fa sette ore e 18 minuti di straordinario non pagato. È una statistica terrificante che rivela che abbiamo tutti accettato un codice segreto di condotta lavorativa: stai in ufficio più di quello che devi, con meno soldi, meno vantaggi e un occhio di riguardo per il mantra dell’azienda. E ho la netta sensazione che ciò non accada solo nel Regno Unito.
Qualcosa non torna. Tutto intorno a me vedo persone che si trasformano in custodie umane con le spalle incriccate, con le vene talmente piene di caffeina che ogni interazione sociale sembra una conversazione con un uomo affetto da DPTS durante uno spettacolo di fuochi d’artificio. Come se non bastasse, in alcuni paesi si inizia a parlare di alcol-test sul lavoro. L’obiettivo di questo programma non è tanare gli ubriaconi—che, diciamocelo, sono abbastanza facili da individuare—ma anche coloro che si sono concessi un paio di drink la sera prima. L’iniziativa proposta (arrivata dagli Stati Uniti) è una sorta di equalizzatore sociale destinato a instillare la paura nei cuori martoriati di tutti i lavoratori, dall’operaio che lavora sulle impalcature al vostro media solution manager.
Foto di Jake Lewis
Ovviamento lo stanno spacciando come un modo per prendersi cura dei propri dipendenti. Ma dopo averli spinti a fare sette ore e 18 minuti di straordinario non pagato alla settimana, vi sembra che alle aziende interessi qualcosa dei dipendenti? Evidentemente il motivo è da ricercarsi nel fatto che i lavoratori con un dopo-sbornia sul lavoro sono meno efficienti. Ma chi se ne frega? Forse se lavori su una gru o sei un pilota EasyJet è giusto, ma se non puoi bere un drink a fine giornata per anestetizzare il tedio del tuo lavoro d’ufficio, allora cosa puoi fare? È una forma di puritanesimo buono solo ad aumentare i profitti.
Mi rendo conto che non è esattamente una lettura marxista della situazione, e che ci sono ottimisti convinti che non dobbiate riempirvi di alcol ogni sera per dimenticare la dolorosa fatica della vostra esistenza quotidiana. Ma sto cercando di essere realistico, e per me questa è la prova del fatto che i vostri datori di lavoro vogliono avere il controllo della vostra vita privata, oltre che di quella lavorativa.
Per me il problema principale di questa storia è l’intrusione delle aziende nelle nostre vite, e la mancanza di rispetto che nutrono verso di esse. Ho sentito ogni sorta di aneddoti personali su call center che cronometrano le pause per pisciare o sul congelamento della paga per assenze causate da gravi malattie.
Le ragioni dietro questo declino nei luoghi di lavoro non sono del tutto chiare. Io vivo a Londra e parlo per la mia realtà, ma non credo che altrove sia poi così diverso. E per quanto mi riguarda, la situazione non è del tutto estranea al fatto che i computer siano diventati più economici degli esseri umani, così che i datori di lavoro hanno smesso di trattare i dipendenti come persone reali e hanno cominciato a vederli come gadget ad ossigeno progettati per massimizzare le loro tendenze megalomani. È sempre stato così nel settore dei media, dove gli impieghi erano scarsi e i lavoratori disposti a spingersi al limite per poter raggiungere un qualche livello che giustificasse l’erosione delle loro vite reali. Ma ora che la gente è costretta a ballare Get Lucky per lavorare in un negozio di elettronica, e 4.000 persone si mettono in fila davanti ad un nuovo centro commerciale dell’Hampshire nella speranza di trovare lavoro, è diventato normale trattare tutti come merde, perché ehi, se non ti va bene così c’è sempre qualcuno che lo farà al posto tuo per un salario più basso.
Mentre i capi parlano ancora di “lavoro di squadra” alle gare di paintball aziendali del weekend, molte persone sono incoraggate a farsi le scarpe a vicenda ogni volta che possono. Il moderno ambiente di lavoro britannico è simile alla serie The Office in un remake degno di Machiavelli.
Che poi non siamo nemmeno così disposti a questo tipo di scontro a sangue. È palese che la mia generazione stia precipitando verso un esaurimento di massa—una morte generazionale, se vogliamo. Un tempo si pensava che solo i più stressati, quelli più deboli mentalmente, i più fiaccati dall’alcol e dalle droghe, lasciassero il lavoro per aprirsi un’azienda agricola con allevamento di oche nelle campagne del Sussex. Adesso sembra essere il sogno di tutti quelli che conosco. Forse i miei amici sono troppo presi da loro stessi per realizzare davvero questo sogno, ma credo anche che una percentuale enorme di giovani lavoratori sia talmente disillusa dalle prospettive future e dall’ambiente di lavoro moderno che nessuno aspiri più neanche a diventare capo di qualcosa. “Faccio qualche mese e poi vedo come va” sembra essere il motto di tutti al giorno d’oggi. Ironia della sorte, in una società così ferocemente capitalista l’ambizione sembra essere in clamoroso declino.
Foto di Jamie Taete
Questo non solo ci rende profondamente infelici e stressati, ma ci sta facendo diventare anche un po’ pazzi. Pensate alle attività ricreative della maggior parte dei lavoratori della vostra età e capirete come le persone non cerchino solo di rilassarsi, ma anche di sfogarsi. Una volta prendevamo per il culo il ragazzo dell’ufficio che all’aperitivo dava di testa con il completo impregnato di sudore perché le ore di lavoro a settimana erano il doppio di quelle di sonno. Adesso, quando arriva il venerdì, siamo tutti quel ragazzo, intenti a reinterpretare Un giorno di ordinaria follia con la Smirnoff invece che con gli uzi.
Le persone devono rivendicare le loro vite e ricordare ai capi che sono pagati solo per le ore previste. Non dovete chiedere la luna, solo un po’ di decenza.
Più di ogni altra cosa, dobbiamo smettere di definirci in base al lavoro che facciamo. I vostri amici e parenti non parleranno delle vostre stupende presentazioni power point quando qualcuno vi metterà sotto farmaci. Perché non c’è LinkedIn nell’aldilà. Non sto dicendo che dovete assalire il vostro capo e spedirlo in un campo di lavoro siberiano, ma ricordatevi solo che il lavoro è lavoro, e la vita è la vita.
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