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Ilir Lluka è uno dei pionieri dell’elettronica sperimentale albanese

Dove andate in vacanza quest’estate? Io penso di saperlo: scommetto che andrete in Albania. Secondo varie riviste di settore, infatti, il turismo europeo e soprattutto italiano si sta letteralmente riversando in questo paese, che sembra già da un paio d’anni una meta alternativa per chi vuole un mare da sogno senza spendere troppo.

Ok, questo è quello che pensa l’occidente opulento che ha interesse solo nel capitale e a come spenderlo, ma la situazione nel paese è ben diversa: non solo mete alternative balneari, ma anche musica alternativa. Non solo è emergente il turismo, ma lo è anche e soprattutto la cultura che si scrolla di dosso le macerie di un passato ingombrante. Insomma, c’è da imparare più che da prendere, e le forme di quello che per molti di noi è scontato, in Albania vengono rivelate come perennemente in trasformazione. Tanto che si riescono a percepire a occhio nudo sia i meccanismi perversi di un certo sistema culturale e artistico, sia gli aspetti emozionali sia, lontani da sovrastrutture, trovano terreno vergine per venire alla luce in modo più diretto e forte come un fiore che cresce con del vero concime anziché col chimicone.

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Ecco, per dirla tutta, è un mondo che potrebbe dare una nuova direzione all’arte sperimentale. Di ritorno da una mia recente missione alla Biennale Mediterranea dei giovani artisti a Tirana con il gruppo di Radio Anarti, mi sono fermato a chiacchierare con uno dei massimi esponenti della musica elettronica sperimentale di questa città, ovvero Ilir Lluka. Ilir, personaggio particolarissimo, ha di recente vinto il premio ONUFRI, il più importante premio internazionale d’Albania, cosa in qualche modo inedita fino a ora per le caratteristiche della sua proposta.

Con lui ho cercato di fare il punto fra quello che c’è, quello che c’è stato e quello che ci sarà nella musica sperimentale albanese vista come specchio in cui presto l’Europa elettronica dovrà contarsi i brufoli.

Dunque Ilir, tu hai vinto da poco il premio ONUFRI: si può dire che è la prima volta che questo premio è consegnato giustamente e che in un certo senso la tua vittoria è un evento che farà storia?
Beh, non so se è un evento che farà storia, ma grazie comunque del complimento [ride]. Sì, è vero che si tratta della prima volta che questo premio è dato a un lavoro di simile natura, in cui s’intrecciano diverse discipline nel tentativo di creare una poesia audiovisiva in cui tutti gli elementi siano connessi in modo tale che mancandone uno, tutta l’opera avrebbe perso il suo senso e il suo contesto. A dire la verità preferirei non chiamare il mio lavoro “digitale”, perché in maggior parte si tratta di elementi visuali – fotografici e video che ho fatto nel “mondo reale” e che poi manipolo digitalmente, però sempre mantenendo la natura organica del materiale base.

Di che si tratta nello specifico?
Si tratta di un’installazione audiovisiva in tre pannelli, in cui s’intrecciano poesia, musica e video manipolati (riprese di luoghi di Tirana in contrappunto ad altre riprese all’interno di un ambiente molto minimalista con elementi astratti di natura CGI in un morphing tra digitale e analogico). È un lavoro che parla della solitudine dell’individuo moderno confrontando la solitudine dell’individuo con se stesso e nella società di cui fa parte. Ho cominciato a lavorare al video partendo dalla poesia di Ervinas Halili e poi l’ho esteso fino al risultato finale presentato in su vari schermi sincronizzati tra loro.

Tornando al premio ONUFRI: non so con quale criterio siano stati dati i premi delle edizioni passate, non ho avuto la possibilità di seguire l’evento regolarmente. Sono contento principalmente del fatto che il pubblico albanese abbia apprezzato il mio lavoro e spero che anche nel futuro s’interesserà a opere audiovisive di questo genere.

Tu sei in pratica un pioniere, se non l’unico esponente, dell’elettronica isolazionista—Illbient—sperimentale di Tirana. Da quando hai cominciato a fare questa musica? E perché?
Sono sempre stato un amante (anzi, direi più un ossessionato) della musica, e anche se solo come ascoltatore è sempre stata la mia energia vitale, non potrei vivere senza. Il mio profilo accademico si è sviluppato fuori dal mondo dell’arte e solo verso il 2010 ho preso sul serio l’idea di creare la mia musica, idea con la quale avevo flirtato diverse volte: ma si trattava di un “lusso” che non potevo permettermi, nel senso materiale della parola.

Mi sono diplomato in scienze politiche, l’opposto di una carriera d’arte e musica, ma non rimpiango quella scelta, il mio interesse si estende in varie discipline accademiche e non solo in musica. Per esempio da un paio d’anni sto studiando fisica, quindi non penso che sia una perdita di tempo perché mi considero uno studente permanente e affamato di imparare nuove cose nel campo sociologico, scientifico e artistico.

Nel 2010 mi trovavo in un periodo d’inquietudine e sovraccarico mentale che ha mi ha portato una marea d’idee musicali e alla fine mi sono arreso ai miei istinti e ho cominciato a studiare tecniche e metodi di sound design e programmazione audio, studi che proseguo in modo costante e che penso non finiranno mai.

Com’è il tuo modo di comporre e che set usi di solito?
Sono un “software guy” più che hardware. Di solito lavoro con patch, ma in certi casi anche con linguaggi di programmazione come Supercollider, CSound o Pyo. Anche se l’approccio con codice scritto è uno dei metodi più potenti e illimitati che esistono nel creare musica elettronica, specialmente quella astratta, io non lo preferisco perché non lo trovo molto intuitivo e lo faccio solo quando ogni altro metodo fallisce e quindi scrivere o valutare un codice rimane l’unico modo per dare vita a un suono o a un’interfaccia specifica.

Mi sento a mio agio lavorando con diagrammi e signal flow tra moduli. I framework che uso per il sound design dipendono da quello che voglio realizzare in quel momento, qualche volta ho bisogno di lavorare con Max o Pure Data, qualche volta integrando Reaktor, Audiomulch e Bidule specialmente nei casi di live performances. Altre volte ho bisogno di lavorare con Open Music, Ixi Quarks o Cecilia, ecc. Seguo molto attentamente le evoluzioni dei software e cerco sempre nuovi metodi e mezzi per creare la mia musica. E se non li trovo, allora cerco di crearli da solo.

In un certo senso il tuo è il suono di una città: cresce all’interno di un limite. È in qualche modo lo specchio di quello che sta succedendo a Tirana, ma anche nel resto dell’Albania. C’è un cambiamento che fatica a esplodere, in un certo senso il tuo modo di intendere la musica mi ricorda il grafico della copertina di Unknown Pleasures dei Joy Division, è una sensazione esistenziale abbastanza chiara ma molto peculiare del posto in cui vivi. Come entra Tirana nel tuo mondo musicale?
Il background dove sviluppiamo la nostra esistenza, la nostra personalità e le nostre emozioni è sempre la città, anche se lo diamo per scontato e non ci rendiamo conto in ogni momento la città è la dimensione dove le nostre percezioni umane si evolvono. Tirana ha avuto un ruolo importante per me specialmente nei primi anni in cui ero molto interessato alla musica concreta e il materiale musicale che producevo veniva da field recordings catturati per la città. Più che ai rumori urbani di Tirana sono sempre stato interessato alla gente, a pezzi di dialoghi, a pezzi di memorie, situazioni, surrealismi contestuali. La città tocca l’individuo (direttamente o indirettamente) da una parte con l’elemento sociale e dall’altra con quello architettonico.

In Albania c’è una tradizione della musica elettronica? Nelle mie ricerche ho trovato degli esempi soprattutto nella musica da film degli anni Novanta, in cui ci sono autori eccezionali che però non hanno mai avuto il piacere di ritrovarsi registrati su supporto. Quali sono, diciamo, i tuoi padri spirituali?
La scena elettronica in Albania esiste ufficialmente dall’inizio del 2000. Ci sono produttori Albanesi nella scena techno: anche se non molti, quelli che esistono sono abbastanza bravi ma sono stati in pochi quelli che hanno avuto il supporto necessario per esportarsi. La maggior parte rimane nella scena locale o al massimo in quella della regione balcanica. La scena techno, anche in relazione al pubblico albanese, è abbastanza attiva, quella sperimentale non ancora, però il pubblico si sta rendendo conto sempre di più delle discipline astratte e non-convenzionali e che il termine “musica elettronica” si estende oltre la dance o la techno.

Ovviamente c’è molto da fare, bisogna creare il background per la scena così che artisti futuri che saranno interessati in queste discipline abbiano una piattaforma dove presentare le loro idee senza finire isolati come mi sono trovato io personalmente quando ho cominciato. Per quanto riguarda i padri e le madri spirituali che mi hanno ispirato, menzionerei compositori internazionali più che locali: Giacinto Scelsi, Morton Feldman, Iannis Xenakis, Akira Rabelais, Eliane Radigue.

La musica elettronica è particolarmente viva? So che c’è una grande scena black metal, ma ovviamente non è il campo di cui stiamo parlando.
Sì, il black metal esiste come scena da molto prima dell’elettronica. Anch’io personalmente ascolto il black metal con molto piacere, è da molti anni che sono un fan della scena Norvegese della “second wave” del black metal, band come Burzum, Darkthrone, ecc. Adesso comunque sto notando che negli ultimi anni la scena black metal qui in Albania sembra caduta in una sorta di stato apatico, non ci sono nuove band e anche gli eventi sono pochi. Manca l’organizzazione e il supporto.

L’elettronica qui in Albania è orientata più verso la techno e le sue derivazioni, adesso nel periodo estivo si organizzano festival di musica elettronica nella zona costiera del Sud a cui prendono parte DJ e producer locali e dall’estero. Per quanto riguarda Tirana, la scena si è trasferita nei club, mentre gli eventi in aree urbane, come per esempio nei capannoni, adesso sono più rari. Il boom dell’underground albanese vero e proprio è stato tra il 2003 e il 2010, quando gli eventi venivano organizzati più spesso e la scena underground aveva molto più successo tra noi giovani. Adesso con il cambiamento delle generazioni la scena sta muovendosi sempre di più verso i club e il commerciale.

Ecco: come vedi questa cosa? Credi che la techno tamarra o l’hip hop possano aiutare a rendere maggiormente sintetica la realtà della nuova Albania o a peggiorare la situazione?
Beh, la commercialità è indispensabile perché senza di lei non esisterebbe la scena alternativa. È vero, l’interesse maggiore del pubblico rimane sempre fissato nella musica commerciale, house, pop, hip hop, però, d’altro canto, c’è anche una crescita d’interesse anche alla scena sperimentale, ovviamente in modo limitato ma penso che sia inevitabile. Lo sviluppo di tale scena si muove anche a piccoli passi, altrimenti sarebbe impossibile esportare sempre di più quest’arte musicale che amiamo.

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In molta musica tradizionale c’è questa tendenza al drone, al bordone, che riscontro anche nelle tue tessiture sonore. Segno che forse la musica tradizionale albanese è in un certo senso madre di quella sperimentale. Che ne pensi? Trovo ci sia una grande continuità fra quello che fai tu e la storia della musica albanese.
Non penso che ci sia una continuità diretta tra la musica albanese è quello che faccio io. In Albania la musica vera e propria e quella che valuto di più è la musica leggera albanese, specialmente quella che si sviluppò negli anni Settanta e Ottanta. Poi, dopo la caduta del comunismo, c’è stato un boom del rock e specialmente delle ballate rock, con autori e cantautori molto bravi come Elton Deda, Bojken Lako, Redon Makashi. D’altro canto l’Albania, come anche il resto dei Balcani, è stata sempre orientata verso il folk e noi abbiamo sempre avuto una scena folk molto ricca. Anche se non entra nei miei gusti musicali, sono cosciente dell’importanza del folk e il suo legame con la cultura Albanese.

Adesso però in tutti i Balcani si trova una specie di modernizzazione della musica folk che si chiama turbofolk, molto popolare nella regione, una combinazione tra folk e dance (o qualcosa di simile). A molta gente piace, per quanto mi riguarda la considero abominevole, ma rimane una questione di gusti. La scena elettronica sperimentale è ancora nella sua infanzia: è un territorio vergine e da esplorare e, specialmente negli ultimi due anni, ho notato una crescita d’interesse da parte del pubblico. Noi artisti, in questa scena, siamo in pochi.

Una delle caratteristiche della musica albanese diciamo “leggera” del periodo Settanta era quella di scrivere canzoni subliminali, in cui magari tessendo le lodi della patria si diceva tutt’altro, cercando di dribblare la censura e sabotando dall’interno il sistema che poi, effettivamente, è caduto. Credo che in un certo senso anche la tua musica erediti questa caratteristica.
La musica leggera di quegli anni rimane la mia musica albanese preferita. È bellissima, veramente. E infatti hai ragione, in certi casi esprimeva idee più profonde in modo indiretto e molto intelligente. Direi che anche per me l’intenzione principale rimane sempre la trasmissione di contesti emozionali più profondi di quelli che si trovano nella superficie dei suoni. Direi che questa è l’unica caratteristica che abbiamo in comune anche se in contesti diversi.

A Berlino c’è una scena molto viva che però secondo me si muove su canoni ben definiti, fin troppo. Spesso non si rischia: si mantiene una qualità alta, però a volte si rasenta la maniera. È un po’ un paese dei balocchi in cui la forma a volte supera la sostanza. Ecco, invece Tirana—definita da molti la piccola Berlino—ha una scena elettronica di pochi nomi a quanto mi dici. Quanti sono a fare quello che fai tu? Che analogia riscontri fra Berlino e Tirana?
Nella scena sperimentale in totale siamo forse in 3-4 artisti. Posso menzionare Bledi Boraku, un musicista elettroacustico che combina chitarra elettrica e altri strumenti anche classici con elementi astratti digitali e ha pubblicato di recente un album su Nebular Silence; Julian Trushi, il quale ha prodotto dei singoli nel campo dell’elettronica sperimentale e della techno, lui fa anche il DJ con set di hard techno. Ci sono anche artisti fuori dalla disciplina sperimentale con i quali ho avuto diverse collaborazioni: posso menzionare qui Mardit Lleshi, un violoncellista che compone musica per film (ha un portfolio che include tredici film fra corti e lungometraggi) col quale ho collaborato in due dei miei album Ajòre e Shell e dal vivo al To Be Continued Festival. Poi abbiamo Rasim Seifollari (a.k.a. Rasimski), il quale è coinvolto nella scena albanese della techno come DJ e producer (ha pubblicato un EP l’anno scorso su Fungheto Crew) e col quale ho collaborato in diversi singoli che mescolano la techno con l’elettronica sperimentale.

Poi ci sono gli artisti albanesi che vivono all’estero, come la contrabbassista Linda Rukaj: lei vive a Parigi studia contrabbasso e ha la sua band con la quale sono molto attivi nella scena jazz parigina; con lei ho collaborato per un brano di contrabbasso ed elettronica incluso in una compilation sull’etichetta Nostress Netlabel. Anche se lei non vive a Tirana, è attiva anche nella scena jazz albanese con diversi concerti ogni anno. Nella scena techno e derivati ci sono più producer e maggior interesse. A Berlino non sono mai stato, pero quella scena rimane per me una delle più importanti nella musica elettronica e spero di avere la possibilità di suonare lì in futuro.

E’ vero che essendo Tirana ancora un work in progress totale com’era la Berlino che fu, da esterni c’è la sensazione che ci siano diverse cose da creare dal nulla, un maggiore stimolo creativo che potrebbe dare il via a un suono originale. Tu come la vedi? Quali sono i locali e i posti in cui proporresti questo tipo di musica?
Dipende da quello che si vuole creare. Le possibilità di location ci sono, a partire da locali che organizzano eventi musicali di natura elettronica (orientati più verso l’elettronica commerciale), gallerie d’arte e anche in capannoni e strutture decadenti urbane dove, infatti, sono stati organizzati gli eventi più memorabili della scena techno.

Ci sono anche ostelli che organizzano eventi di musica elettronica (parliamo sempre di techno e derivati). Quindi le location ci sono, serve solo l’interesse della gente, che è la cosa che dà l’accento a una scena più che un’altra. Io personalmente ho suonato sia in gallerie d’arte qui a Tirana, sia in spazi culturali come il Museo Storico Nazionale, ho suonato anche in spazi urbani, quindi penso che la varietà di posti ci sia. Quello che importa è da una parte l’interesse del pubblico e dall’altra l’interesse degli organizzatori e host di eventi nell’investire nella scena della musica sperimentale. A differenza dalla scena commerciale che rimane strettamente legata all’aspetto finanziario, quella della musica elettronica sperimentale si sviluppa in un ambiente in cui l’unica cosa che ci fa andare avanti è la passione individuale.

Ultimamente a Tirana sono successe un bel po’ di cose: la biennale dei giovani artisti per esempio, il gay pride e manifestazioni del genere prima impensabili. Sta cambiando qualcosa questo tentativo di mettere in contatto varie realtà europee e mondiali con la tua città? A vederlo sembrerebbe un’apertura verso l’esterno piuttosto inedita, nel bene e nel male.
Sì, le cose si stanno muovendo in quella direzione, c’è un’integrazione in crescita nella cultura internazionale, anche se siamo ancora nell’infanzia di tali scene culturali (di questo dobbiamo ringraziare Enver Hoxha, ovviamente lo dico in senso amaramente ironico), penso che si svilupperanno sempre di più. Al momento ci sono ancora molte difficoltà, il supporto verso gli artisti in Albania rimane legato strettamente al mondo della politica, le entità che controllano le direzioni culturali e artistiche sono ancora in maggior parte burocrati che non hanno niente a che fare con l’arte—e sono loro quelli con il potere di supportare o meno un artista secondo i loro interessi.

Hai inciso per una serie di etichette italiane. Come ti sembra il rapporto fra la scena italiana e quella albanese? Per inciso, a volte mi sembra ci sia, soprattutto nel mondo dell’arte contemporanea, un atteggiamento post colonialista: veniamo a imporvi il nostro sapere, ma di metterci nei vostri panni neanche se ne parla. Trovo sia miope.
Non so come possa essere la situazione con le altre discipline, ma riguardo alla musica io personalmente ho avuto un’esperienza positiva e interazioni molto amichevoli con le netlabel in Italia. Ho trovato supporto per la mia musica. Sia professionalmente sia nel rango umano rispetto quella scena con entità che hanno come parte integrale della loro esistenza la passione per la musica più che ragioni di denaro, la trovo una grande fonte d’ispirazione.

Come funziona il tuo modo di lavorare e a chi t’ispiri quando ti metti al computer? Il tuo suono è particolarmente digitale, ti vedrei bene sulla Mego. Però mi dicevi che l’ibridazione tra analogico e digitale è il tuo obiettivo.
Anche se sono orientato di più verso software, cerco di creare un suono di natura organica e per questo che uso molto spesso field recordings (ovviamente manipolati all’estremo fino alla perdita della loro identità d’origine lasciando solo una percezione sfumata della loro reale natura). Anche nei casi in cui non uso field recordings o strumenti acustici e lavoro solo con suoni digitali cerco di creare un suono di natura più organica che digitale e questo lo posso fare senza limitazioni in software.

Di solito l’idea è già nella mia mente, è completa almeno come struttura, e mi rimane solo da sedermi davanti al computer cercando di portarla in vita. Molto spesso un’idea su un lavoro m’ispira a creare altre cose fuori dall’idea d’origine, e i lavori s’intrecciano in modo complesso. Ci sono casi in cui sperimento senza avere un’intenzione ben precisa e creo vignette, patch e samples sintetizzati che salvo nella mia libreria musicale per usarli in lavori futuri. Dipende tutto dal contesto, della mia vita in quel momento e delle mie emozioni e personalità, dal flusso d’idee e percezioni.

Tu collabori anche spesso e volentieri con l’ambito poetico, diciamo che anche il campo della poesia sonora digitale stile Erratum fa parte delle tue corde. Mi parli un po’ di questi tuoi progetti e del modo in cui ti approcci alla materia?
Io sono un amante della poesia surreale. Fino a ora mi sono trovato molto legato a due poetesse albanesi, Jonida Prifti ed Ervina Halili. Con Jonida abbiamo fatto un album intitolato RES che abbiamo pubblicato con l’etichetta Italiana Ozky ESound: il lavoro su quell’album era abbastanza complesso: la voce di Jonida veniva tradotta in note MIDI le quali venivano implementate come input su diversi sintetizzatori virtuali. Il risultato è stato un’ibridazione tra poesia e musica, non come accompagnamento l’uno dell’altro ma come parte integrante di un corpo musicale singolo, dove la musica non poteva fare a meno della poesia e viceversa. Mentre con Ervina Halili ho collaborato per il lavoro che ha appunto vinto il premio ONUFRI: i dettagli li ho menzionati prima e abbiamo nuovi progetti in corso. Lei scrive poesie meravigliose e anche lei, come Jonida, rimane sempre aperta alla coniugazione della sua arte con altre discipline come la musica e l’arte visuale.

Come pensi che si evolverà il suono di Tirana? Ci sono dei margini per cui l’elettronica diventerà di maggior fruzione nella tua città? Pensi che l’individualismo sia fondamentale oggi in Albania dopo anni di comunismo forzato e che forse questa sia la giusta chiave per interpretare il futuro, vista la difficoltà di aggregare una scena vera e propria?
Quando c’è una scena questo non vuol dire che non ci sia individualismo. La scena deve esistere come struttura in cui l’individualismo possa trovare un terreno. Penso che la scena sia in evoluzione e spero che ci sarà maggior interesse e supporto. L’ostacolo principale in questi momenti è la burocrazia e la politicizzazione delle risorse o degli individui coinvolti.

Quali sono i progetti ai quali stai attualmente lavorando?
In questo periodo sto lavorando a molti progetti allo stesso tempo. Ho finito due nuovi EP e sto lavorando su un album colonna sonora per un’opera di Ismail Kadare. Ho progetti per diversi lavori di natura visuale che appena pronti vedrò di esibire in galleria qui in Albania o all’estero, poi musica per un documentario, un progetto con la poetessa Ervina Halili, un’altro con la musicista albanese Orkida Braculla per un duo elettroacustico, poi sono all’inizio di una collaborazione con l’artista fotografo Julius Ebb.

Per concludere: come definiresti in due parole il suono di Tirana?
Da esplorare e da nutrire. Ok… sono cinque parole, ma mi sento più completo cosi [sorride].

Demented è su Twitter: @Demented_Thement.

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