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Come mai l’indie italiano è andato a finire così?

tommaso paradiso i cani

Nel 2011, l’uscita del Sorprendente Album D’Esordio dei Cani ha causato un terremoto nella allora inesistente “scena musicale” italiana. Se quel disco non fosse uscito, è probabile che saremmo rimasti con le erbacce in giardino per chissà quanto tempo ancora.

Ma cosa è cambiato nella musica italiana da quel lontano 2011? Cosa è cambiato in noi, che ascoltiamo la musica (e ne scriviamo)? Retrospettivamente, I Cani sono un gruppo da tenersi stretti per la loro capacità di fotografare la fine di un’epoca illuminata, o si tratta invece di un progetto furbissimo e studiato a tavolino da quell’architetto cinico e brillante di Niccolò Contessa?

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Ho detto che nel 2011, quando io avevo sedici anni, una vera e propria scena musicale italiana non esisteva, ma penso di aver mentito. Una scena musicale italiana esisteva, ma si trattava di una scena residuale, composta da artisti e band che hanno mosso i primi passi negli anni Novanta. Per fare qualche nome: Afterhours, Verdena, Marlene Kuntz, Baustelle, Zen Circus, Tre Allegri Ragazzi Morti, Pierpaolo Capovilla (che, prima di essere voce del Teatro Degli Orrori, dal 2005, era il frontman dei One Dimensional Man, già attivi dalla metà degli anni Novanta). Intorno a quegli anni qualcuno rinasceva: nel 2009, un gruppo che fino ad allora aveva cantato solo in inglese, i Fine Before You Came, faceva uscire il suo primo album in italiano intitolato Sfortuna.

il sorprendente album d'esordio dei cani
La copertina de ‘Il Sorprendente Album D’Esordio dei Cani’, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Tutti artisti e gruppi, insomma, che di solito venivano rubricati sotto la voce “alt rock italiano”, versando in una sorta di culto carbonaro che ne rende difficile una precisa collocazione di mercato: nessuno rompeva le classifiche o scalava le radio, ma tutti avevano fan abbastanza affezionati da riempire senza troppe difficoltà posti come il Teatro Tendastrisce o l’Atlantico di Roma.

Nel 2011, noi sedicenni italiani e curiosi scoprivamo la musica sui forum (utenti di GamesVillage, sezione Music Hall, battete un like se ci siete). Fu proprio su Gamesvillage che venni per la prima volta a conoscenza di questi pezzi caricati su SoundCloud a nome de I Cani, per la precisione in una discussione dal titolo “[Indie ITA] – E non è dolce essere unici”, che naturalmente prendeva il nome dall’anthem non codificato di quella scena residuale, la canzone “Male di miele” degli Afterhours, dal critico Federico Guglielmi definita la “Smells Like Teen Spirit” italiana (con le dovute proporzioni, certo, ma è un’analisi che mi sento di condividere: anche perché, a tanti anni dalla sua uscita, l’album che la conteneva, Hai paura del buio?, conservava ancora l’aura mitica di “disco italiano importante degli anni Novanta”, come oltreoceano lo fu proprio Nevermind).

(Apro un’altra parentesi, perché la storia della musica è fatta di note a piè di pagina: a proposito di SoundCloud, qualcuno si ricorda dei forse parodistici, sicuramente pionieristici Gatti, che facevano Cambogia prima di Cambogia?)

Torniamo ai Cani. Quasi subito Il Sorprendente Album D’Esordio mi si pianta nella testa con la forza di un classico, perché racconta la Roma che vivo (il mio liceo è vicinissimo a quella Piazza Vescovio dalla quale sgorgano tutti uguali pariolini di diciott’anni in divisa, giacche a vento Spiewak o Northface, jeans Jeckerson, ai piedi Stan Smith, con le mani saluti romani—e tuttora in quella piazza c’è una celtica enorme e nera pulsante su un muro…), dà forma all’invidia sociale che subisco come uno scarto insuperabile (“ho un po’ più di anni / ma non so che cosa invidio”), descrive con precisione chirurgica le cose che succedono tra le persone (“lui le ha fatto conoscere il gruppo, ed essendo più alto la abbraccia da dietro”) e poi tra queste e le proprie candide e velleitarie aspirazioni, nutrite con iniezioni di minimum fax e David Foster Wallace (“andrò a New York a lavorare da American Apparel, io ti assicuro che lo faccio…”).

I Cani parlavano di me. E di te, insomma di noi.

Che lo si sappia o no, la nuova scena musicale italiana è appena nata e questo disco ne è la pietra angolare; grazie al linguaggio che adotta, alla contemporaneità dei suoi riferimenti, persino, secondo alcuni, per via di una certa ambiguità e paraculaggine sottesa a tutto il progetto; in un’intervista a Contessa su VICE, per esempio, Valerio Mattioli adotta un’interpretazione della musica dei Cani che insiste molto sui layer—come li avremmo chiamati qualche anno dopo: secondo Mattioli, I Cani fanno musica ironica, di un’ironia che è il parto spontaneo di un cortocircuito tra testo e musica. Si tratta di una visione che Contessa rigetta fermamente, ma su cui dovremo tornare in seguito per parlare di un gruppo che, apparentemente, con I Cani ha molto poco a che fare.

Disco dopo disco (letteralmente, perché I Cani hanno fatto solo altri due dischi: Glamour, 2013, e Aurora, 2016) Contessa si allontana dal minimalismo ombelicale del primo. La cosmogonia di Aurora, per ora, è il tassello finale del progetto I Cani, escludendo una partecipazione alla colonna sonora del film Troppa grazia con la canzone (dal titolo eloquente) “Nascosta in piena vista“. Il primo terremoto, quello sorprendente dell’album d’esordio dei Cani, rese possibile altre due scosse telluriche davvero sconvolgenti per la musica italiana: e i tre epicentri, tutti insieme, costituiscono i vertici di quella grande area che adesso chiamiamo itpop.

dark polo gang crack musica
La copertina di ‘Crack Musica’ della DPG, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Terremoto numero due: nel 2015, la Dark Polo Gang pubblicava su YouTube (e in anteprima nazionale su Noisey) la canzone “Cavallini”. Quando fui mandato dal caporedattore di allora a indagare su “questa cazzo di Dark Polo Gang” per capirci qualcosa, ne uscì fuori un’intervista che ci può aiutare a capire cos’era allora la Dark Polo Gang per riflettere su cosa siamo diventati tutti noi adesso.

A Gennaio 2016, scrivevo: “I ragazzi potrebbero aver inconsapevolmente oliato le consolidate dinamiche di questo stupido gioco del rap (italiano), esaltando ed esplicitando la componente ludica, fino a costringere un’intera città a sbattere la testa contro tutte le ipoteche culturali che si è faticosamente costruita nel corso degli anni”; timidamente e con una punta di scetticismo improvvisavo anche un pronostico, che nel giro di un paio d’anni si avverò: “Magari questo nuovo pubblico, il pubblico di Sfera, del nuovo Achille Lauro, di Ghali, ha già iniziato un processo di modificazione dei gusti generali e magari nel giro di un altro anno ribalta del tutto il mercato del rap italiano, che ne sai?”

Secondo alcuni, come abbiamo visto, non si capiva bene se I Cani portassero avanti un discorso ironico o meno. Con la Dark Polo Gang (e gli artisti che inizialmente le vennero accostati, penso a Bello Figo) i dubbi erano gli stessi, ma come ingigantiti da una diffusione rapida e incontrollabile come quella di un virus, laddove I Cani erano invece un segreto molto meglio custodito. In sostanza, la domanda che ci agitava era questa: ci fanno o ci sono? La risposta più gettonata, e quella che permette alla Dark Polo Gang di arrivare ad un target ibrido e variegato (dal tuo ex compagno di scuola che ascolta solo prog e Led Zeppelin fino al b-boy cresciuto a pane e Sangue Misto), era un’altra domanda: che importanza ha? A cadere è la distinzione tra realtà ed intrattenimento.

Una distinzione che, per la scena hip hop di allora, quella che si muove tra forum e concerti in locali piccoli e poveri, è tutt’altro che scontata o ingenua: è anzi la ragion d’essere della stessa esistenza di quella scena, in un periodo in cui critici, commentatori su YouTube e nomi storici della vecchia guardia sono tutti uniti nella grande battaglia contro la musica commerciale, rendendo la vita difficilissima ai vari Emis Killa, Club Dogo e Fabri Fibra. La Dark Polo Gang, rimescolando le carte, è in grado di parlare molto efficacemente a questi b-boy frustrati e delusi, cresciuti con la schiena troppo dritta e le palle troppo piene, che si sono rotti il cazzo di stare dietro ad una guerra che è finita (e che abbiamo anche perso).

Il crollo della distinzione tra intrattenimento e realtà fa comodo anche ai mematori, che apprezzano la zona grigia in cui si muove la Dark Polo Gang e iniziano presto a sfruttarla per produrre contenuti da ripostare.

Volendo ricostruire la genesi del rapporto tra Dark Polo Gang e meme, possiamo dire che si è trattato di un processo di feedback mutuali: la comunità di mematori e shitposter italiana si accorge che esiste la Dark Polo Gang e inizia a creare pagine e gruppi (su tutti Dark Meme Gang); a sua volta, la Dark Polo Gang capisce il suo potenziale memetico e inizia ad affinare la sua scrittura, piegandola alle sue nuove esigenze e rendendola meno spontanea, ma più accattivante e rivolta esplicitamente ai fan (“GTA San Andreas” è un pezzo emblematico di questo processo: “Vestito rosa / penso di essere Jigglypuff”); i meme allora aumentano e così via, in un loop circolare e molto remunerativo in termini di ascolti e visibilità.

calcutta mainstream
La copertina di ‘Mainstream’ di Calcutta, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Il terzo tassello veniva fuori sempre in quei mesi, quando i nostri newsfeed furono travolti dalle canzoni di Mainstream, secondo disco del cantautore laziale Calcutta uscito a novembre 2015.

Trainato dai singoli tutto minimalismo e singalong “Gaetano”, “Frosinone” e “Cosa mi manchi a fare”, l’album fu un autentico trionfo di critica (ci fu persino un pezzo di approfondimento su minima et moralia) e soprattutto di pubblico. Fast forward: nel 2019, dopo appena quattro anni, ” Cosa mi manchi a fare” ha quasi 19 milioni di visualizzazioni su YouTube e Calcutta riempie l’Arena di Verona. Quello di Calcutta è un successo che tutti abbiamo contribuito a segnare ed alimentare, condivisione dopo condivisione e attraverso il passaparola a scuola, in università, in ufficio; in effetti l’orizzontalità diviene presto una delle caratteristiche distintive dell’itpop, e si concretizza nel potere di scegliere chi può salire e chi non può attraverso gruppi di pressione su Facebook, meme e concerti. Una cosa è certa: Calcutta, di tutta la cricca dell’itpop, è l’artista che meno indulge nell’ironia, a favore invece di un intimismo urlato, sincero e senza compromessi di sorta.

Ma dove e quando nacque l’itpop, che quando succedevano tutte queste cose non si chiamava ancora così? Secondo alcuni, la genesi dell’itpop va ricercata in Luca Carboni; secondo altri bisogna spingersi ancora più indietro, analizzando i primi solchi di quel Vasco Rossi che fu pionieristico nell’attingere all’infinito calderone tematico della provincia italiana. In ogni caso, Luca Carboni e Vasco Rossi sono le due riconosciute fonti di ispirazione primarie di Tommaso Paradiso, ex frontman di uno dei gruppi che più di tutti hanno contribuito a plasmare l’estetica e l’attitudine retromaniaca dell’itpop: i Thegiornalisti.

I Thegiornalisti nascono e crescono nel periodo I Cani: il primo disco, Vol.1, esce nel 2011. Inizialmente sono un gruppo di nicchia ma non un gruppo qualunque, e questo è più chiaro ad alcuni che ad altri, tipo Federico Fiumani. Poi succedono delle cose: “Fine dell’estate”, “Mare Balotelli”, “Il tuo maglione mio”, “Completamente”, poi riempiono il Palalottomatica. Un altro fast forward: 7 settembre 2019, i Thegiornalisti riempiono il Circo Massimo come i Rolling Stones qualche anno prima. 17 settembre 2019, Tommaso Paradiso sancisce il suo addio ai Thegiornalisti per buttarsi in una carriera solista che lo vede lanciato come la prossima grande popstar italiana.

thegiornalisti completamente sold out
La copertina di ‘Completamente Sold Out’ dei Thegiornalisti, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Sul lungo periodo, probabilmente, Tommaso Paradiso si rivelerà il successo commerciale più significativo dell’itpop, persino più di Coez e Calcutta (per I Cani vale un discorso a parte: Contessa ha sempre fatto il produttore nelle retrovie, consolidando la sua immagine di architetto schivo e geniale), e questo per via di un’attitudine che nella penisola non ha eguali.

Al netto di doti canore non particolarmente brillanti, infatti, Paradiso è in grado trasportarti nel suo viaggio unicamente con la forza dirompente del suo carisma stellare e di una presenza scenica che gli permette di bucare il palcoscenico. Paradiso è kitsch, certo: è così sentimentale da superare a destra persino il sodale Calcutta, e con la presunta ironia dei Cani non ha niente da spartire. Paradiso è un autore che non si prenderebbe mai tanto sul serio da reputare lo sguardo altrui più importante del proprio: e allora vaffanculo, sembra dire Tommaso, io la canzone dedicata a Dr. House la faccio eccome e la faccio di un’onestà e un candore commoventi per il fatto stesso di averla incisa, una canzone così.

Dedicare una canzone a J.D. di Scrubs parlandogli in stile “Carissimo Pinocchio” non sembra esattamente un’idea vincente ed è una cosa che oggi definiremmo cringe, se ciò che genera il cringe è l’incapacità di vedere sé stessi dall’esterno e rendersi conto di essere ridicoli agli occhi altrui. Non uscirà mai una canzone simile sotto il nome de I Cani: c’è troppa compostezza, troppo autocontrollo nei Cani.

Paradiso, anche grazie alla forza della sua scrittura ingenua, è destinato ad essere ricordato come un modello a cui guardare, una sintesi ideale che supera gli avvitamenti ironici e le secche dell’ermetismo per arrivare davvero a tutti, lasciandosi alle spalle ogni etichetta settoriale: come quella itpop, appunto, che forse non riusciva più a contenere tutta la sua ambizione. Tommaso Paradiso è il Ronald Reagan del pop italiano: una calamita di consenso, affascinante e conservatore, in grado di ammaliare e convincere anche suoi i detrattori con il fascino magnetico della sua presenza scenica. E forse non poteva che essere così.

Solo il tempo e il distacco critico che porta con sé ci sapranno dire se quella delll’itpop sia stata una delle stagioni più feconde della musica italiana oppure un semplice ripiegamento intimistico ed escapista di una generazione privata di coscienza e rappresentanza politica; di sicuro, al suo interno hanno trovato posto artisti bravissimi e plagiari clamorosi, dischi che sono già pietre miliari (un solo nome: Polaroid di Carl Brave e Franco126) ed altri nati logori e stanchi. Forse, l’artista che meglio in assoluto ha saputo esprimere ciò che l’itpop significa per le generazioni nate dopo la mia è stato Pippo Sowlo nella canzone “Ridatemi l’itpop“, dove l’itpop in questo caso è un mero oggetto transizionale che serve per inquadrare meglio una giovinezza che si lascia intravedere solo attraverso il riflesso negativo della vecchiaia, una vecchiaia che ci ha tolto il lato salvifico della musica: “mi hanno rimandato, oh no / sticazzi, tanto c’ho l’itpop”.

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