Cittadella (PD), festa dei veneti. Tutte le foto di Filippo Massellani.
A leggere i media stranieri, sembra che il 16 marzo 2014 il Veneto abbia iniziato a staccarsi dall’Italia. Dico sul serio: “Il ‘Sereno’ referendum: una regione italiana vota per restaurare la Repubblica Veneta” (Russia Today); “Anche l’Italia ha la sua Crimea”? (Km.ru); “La ricca Venezia indice un referendum per staccarsi da Roma” (Daily Mail); “Venezia si prepara a un referendum per secedere dall’Italia” (The Telegraph); “Come un voto a Venezia può cambiare il volto dell’Italia” (Daily Express); “Venezia vota in un referendum per separarsi da Roma” (BBC). E questi sono solo alcuni titoli.
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Cosa sta succedendo, dunque? Perché i media nostrani sono completamente all’oscuro del fatto che un pezzo d’Italia sta dichiarando l’indipendenza da Roma? Ma soprattutto: dopo averla invocata ed evocata per decenni, il Veneto ha finalmente imboccato la strada della secessione? La risposta, ovviamente, è no. Ma andiamo con ordine.
Da qualche mese un comitato, chiamato “Plebiscito 2013” e guidato dal “venetista” Gianluca Busato, ha indetto per il 16 marzo una sorta di consultazione online pomposamente ribattezzata “Referendum di indipendenza del Veneto”. “Plebiscito 2013” nasce—in perfetta sintonia con la tumultuosa storia del movimento indipendentista veneto—da una scissione interna al micro-partito Indipendenza Veneta ed è sostenuta economicamente da alcuni imprenditori riuniti sotto la sigla “Veneto Business”.
In un video promozionale caricato su YouTube diversi mesi fa, Franco Rocchetta (una delle figure storiche dell’indipendentismo veneto) dichiarava che con questo referendum “si torna indipendenti, si torna liberi: il Veneto come la Svezia e la Danimarca, una nazione libera e un popolo libero.” Il comitato ha anche fornito diversi sondaggi che attesterebbero la travolgente volontà del popolo veneto di proclamare l’indipendenza.
Ieri, appunto, sono iniziate le “operazioni di voto” online e telefoniche che dureranno fino al 21 marzo. Gianluca Busato non ha nascosto il suo entusiasmo: “I primi risultati di affluenza sono molto incoraggianti e testimoniano la volontà ferma dei veneti di pronunciarsi in modo sovrano sul proprio destino. Se la tendenza di affluenza al voto sarà confermata, credo proprio che il percorso verso la dichiarazione unilaterale di indipendenza del Veneto sia una cosa naturale che si compierà [sic] in un tempo molto breve.”
Come facilmente immaginabile, la consultazione non ha il minimo valore legale. Sebbene la tentazione di bollarla come un’emerita pagliacciata sia fortissima, non sarebbe comunque del tutto giusto. Il referendum del 16 marzo, infatti, è solo l’ultima di una serie d’iniziative indipendentiste che negli ultimi tempi hanno avuto abbastanza risalto in Veneto.
All’inizio di marzo, ad esempio, la Lega Nord ha affermato di aver raccolto “centomila firme” pro-indipendenza nei 549 gazebi allestiti nella regione. Sempre ieri, in un’intervista a Libero, il governatore leghista del Veneto Luca Zaia—che più volte si è espresso a favore dell’indipendenza—ha detto che “il fermento indipendentista è sempre più forte, e non dipende dalla gente del Nord sempre più strozzata, dipende da Roma. […] Ormai siamo al Big Bang delle istituzioni, le rivoluzioni nascono dalla fame; e ci siamo, alla fame. Il Veneto può scappare. Perché siamo incazzati: abbiamo perso 85mila posti di lavoro, siamo quelli che ogni anno lasciano a Roma 21 miliardi di tasse, e ci ignorano…”
Nel corso dell’ultimo anno, inoltre, 168 comuni e quattro province hanno discusso e approvato un ordine del giorno per sostenere il progetto di legge regionale 342/2013, che dovrebbe proclamare un (vero) referendum consultivo sull’indipendenza della Regione. Ed è proprio nel Consiglio Regionale del Veneto che, da almeno due anni e nel silenzio pressoché totale dei media, si stanno perdendo giorni e giorni in sedute straordinarie sulle possibilità legislative e giuridiche—palesemente incostituzionali, tra l’altro—di staccarsi dall’Italia.
Queste pulsioni, del resto, non nascono dal nulla. La data d’inizio del moderno indipendentismo veneto può essere fatta risalire al 9 dicembre del 1979, ossia l’esordio ufficiale della Łiga Veneta, considerata la “madre di tutte le Leghe”. “Oggi per i Veneti è giunto il momento,” disse all’epoca il “venetista” Achille Tramarin, “dopo 113 anni di colonizzazione unitaria italiana, di riappropriarsi delle loro risorse naturali e umane, di lottare contro lo sfruttamento selvaggio che ha portato miseria, emigrazione, inquinamento e sradicamento della propria cultura.” Quattro anni più tardi, alle elezioni politiche del 1983, la Łiga Veneta ottenne delle percentuali strabilianti alla Camera (4,3 percento) e al Senato (3,7 percento), eleggendo un deputato e un senatore e rastrellando consensi da tutti i partiti della Prima Repubblica.
Dopo quel successo, tuttavia, il partito autonomista si è “suicidato” attraverso un’incredibile serie di furiose lotte interne (anche fisiche), scissioni, tradimenti e rotture—questo almeno fino all’irrompere sulla scena della Lega Nord, che ha incentrato le rivendicazioni indipendentiste sulla Padania. Per quanto fosse patologicamente incapace di tramutarsi in un “serio” progetto politico, il richiamo alla gloriosa storia della Serenissima è continuato a riecheggiare nella provincia veneta più profonda, quella perennemente sospesa tra capannoni, stakanovismo e campagne.
Le campagne della provincia di Verona, per esempio.
Ed è proprio dalle campagne che, il 9 maggio del 1997, è partito il famigerato commando dei “Serenissimi”. Quel giorno otto militanti del “Veneto Serenissimo Governo” sbarcarono a Venezia con il leggendario “Tanko” e issarono indisturbati il gonfalone veneto sul campanile di San Marco, suscitando sbigottimento nel mondo politico (persino nella Lega Nord) e causando la durissima reazione dello stato. Tutti i membri del commando vennero arrestati e processati con capi d’accusa pesantissimi; i sondaggi, tuttavia, mostrarono che la maggioranza dei veneti simpatizzava con il gesto degli otto.
A questo proposito, uno dei Serenissimi ha raccontato nel 2012 che “la gente nelle campagne aveva capito il senso del nostro gesto. Era una rivendicazione di identità. Era il nostro modo di dire che, se togli la storia alla gente, crei spaesati.” In effetti, come ha scritto Paolo Rumiz ne La secessione leggera, l’“assalto” dei Serenissimi era “il segnale di un movimento tellurico profondo” che mostrò all’Italia intera (e non solo) che in Veneto c’era qualcosa che non andava.
Nel 2009, molti anni dopo la presa del campanile, un’indagine della procura di Treviso rivelò l’esistenza di un altro tipo di “associazione paramilitare di stampo separatista.” È il caso (approdato a rinvio a giudizio solo il 5 marzo 2014) della cosiddetta “polisia veneta”, una specie di banda “venetista” formata da appartenenti a un’organizzazione denominata “Autogoverno del Popolo Veneto-Movimento di Liberazione Nazionale.” Le indagini portarono al ritrovamento di tute mimetiche, armi (nove pistole semiautomatiche e due fucili a pompa) e munizioni. In un’intercettazione, uno dei “polisiotti” si produsse in questo autentico delirio indipendentista: “Bisogna morire per i bambini, per le future generazioni, per dare la svolta e interrompere l’incubo di questa Italia di merda.”
Cerea (VR), rievocazione delle Pasque Veronesi.
Farneticazioni simili si ritrovano anche nelle parole del venetista Luciano Franceschi, “protagonista” di un tentato omicidio ai danni del direttore della Banca Padovana Credito Cooperativo di Campodarsego (Padova). La mattina dell’11 febbraio 2013, Franceschi entra in banca armato di pistola ed è, come riporta il Mattino di Padova, “disposto a morire come martire della causa di liberazione del popolo veneto.” Una volta in carcere, il venetista (che versava in condizioni economiche non eccellenti) spiega così i motivi del suo gesto: “Siamo in guerra e siamo pronti a sparare. La situazione ormai è intollerabile, soprattutto per gli artigiani e per i titolari delle piccole e medie imprese. […] La nostra battaglia non può essere fermata. E non accetteremo mai più rappresentanti politici che non facciano parte del popolo veneto.”
A parte questi casi eclatanti, le cronache locali sono costellate di piccoli episodi di “venetisti” che vanno in giro con la patente di una fantomatica Repubblica Veneta e non riconoscono l’autorità dello stato italiano, oppure di veneti che si rifiutano di parlare italiano a scuola.
Tutto ciò, insieme al referendum promosso da “Plebiscito 2013”, dimostra come il mito di San Marco riemerga periodicamente e continui ad esercitare una forza “identitaria” e attrattiva impareggiabile—a maggior ragione in un momento di crisi come questo, contrassegnato dal terrore di perdere il benessere accumulato nel boom economico degli anni Novanta.
Vicenza, festa di chiusura della campagna elettorale per le regionali.
Per quanto possa sembrare folle e antistorico, l’indipendentismo veneto—con tutto il suo carico di rancore antistatale, ossessione tributaria e sgangherata mitopoietica “etnica”—è un fattore politico e culturale che non solo ha accompagnato la vorticosa evoluzione socio-economica della Regione, ma che in questi anni è riuscito a passare dai tavoli dei bar di provincia ai banchi istituzionali del Consiglio Regionale.
Insomma, è un fattore con cui la politica nazionale, se non è troppo impegnata a ignorarlo del tutto o a soffiarci sopra (come recentemente ha fatto Beppe Grillo), prima o poi dovrà seriamente fare i conti. Anche perché se è vero che costituzionalmente il Veneto non può “scappare” dall’Italia, da un punto di vista mentale una parte di Veneto si è già staccata dal resto della penisola parecchi anni fa.
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Saluti dal Veneto: