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“La bugia è un’incongruenza molto chiara tra ciò che viene detto e il come.”
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Alessandra Monasta, fiorentina 46enne, è da più di vent’anni perito fonico forense per il ministero di Grazia e Giustizia.
È la persona che analizza ore e ore di conversazioni per capirne la natura, stanare le menzogne, e aiutare così le indagini. E nella sua già lunga carriera, ha analizzato alcune delle intercettazioni più influenti della recente storia criminale italiana.
“Mi addentro nella privacy di una persona, capisco quali emozioni vive, come si muove, le sue relazioni più importanti.”
C’è chi al telefono – per esempio – non fa mai riferimento al reato per cui è indagato; chi cambia tono in base all’interlocutore con cui si confida; chi sotto pressione si schiarisce continuamente la voce.
Come racconta nel libro “La cacciatrice di bugie,” edito da Longanesi, il suo compito è proprio ascoltare e trascrivere le intercettazioni e le deposizioni di chi è coinvolto in un crimine, riuscendo nel difficile compito di individuare chi mente.
Il suo curriculum da perito fonico annovera casi come quello di Olindo Romano e Rosa Bazzi, accusati della strage di Erba; quello del “mostro di Firenze” Pietro Pacciani (“Un uomo ignorante, burbero, ma anche capace di provare imbarazzo”), mafiosi come Totò Riina e Giovanni Brusca (“le loro voci mostrano completo distacco per il male che hanno fatto”).
Ma non mancano anche falsari, narcotrafficanti, politici—”non solo furbi, ma anche schiacciati dalla responsabilità e dalla paura di non essere all’altezza.”
VICE News ha raggiunto Alessandra Monasta per chiederle come funziona il suo lavoro, e cosa ha imparato in anni di analisi di intercettazioni telefoniche per conto della giustizia.
Quanti periti fonici forensi ci sono in Italia?
Una ventina circa: ascoltano e trascrivono intercettazioni, interrogatori e deposizioni. Solo altre due sono donne, una nella mia stessa città e una al sud. Per questo lavoro non esistono scuole ufficiali, si viene scelti.
Da chi, nel tuo caso?
Quando ancora ero una studentessa di Giurisprudenza, ho fatto da baby sitter ai figli di una collega di mio zio, sposata con un magistrato dell’antimafia di Firenze. Fermandomi spesso a cena con loro ho conosciuto altri magistrati e, attraverso di loro e alcuni poliziotti della Digos mi hanno proposto questo lavoro perché – a loro dire – ne avevo le caratteristiche.
Quali sarebbero queste caratteristiche?
Orecchio musicale – a sei anni ero già davanti al pianoforte – empatia e intuizione. Ossia la capacità di ascoltare oltre il contenuto di un discorso, anche “come” viene espresso, tenendo conto – per esempio – di silenzi, balbettii e cambi di tono.
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A che punto entrano in gioco queste competenze? Quando sono richieste?
Occupandomi del materiale audio nel corso di un processo penale – in particolare relativo alla voce delle persone – intervengo in risposta a tre diverse richieste: di un Pm durante le indagini – che è il lavoro che preferisco; di un giudice in fase di processo di primo grado – sono un perito super partes che talvolta depone anche in aula; o di un gip al termine delle indagini preliminari.
I periti fonici sono consulenti esterni, liberi professionisti per obbligo, equiparati alla figura del perito medico-legale o balistico, e lavorano su incarico e “a quesito,” e cioè in risposta a ciò che la magistratura intende o meno appurare.
Com’è fatta la tua postazione?
Ho uno studio con sei computer, alcuni portatili e un fisso molto capiente, perché ho bisogno di archiviare i vari file audio e tutti i rapporti che scrivo, spessi anche 20mila pagine. A volte lavoro anche sui tabulati: fino a qualche anno fa, quando erano cartacei, passavo pomeriggi interi per terra in salotto, a cercare i numeri di telefono incrociati.
Qual è caso di cui ti sei occupata che ha avuto l’eco mediatica più importante?
La strage di Erba. Sono entrata nel grado dell’appello e ho lavorato per l’avvocato di parte civile, per rendere comprensibili le parole di Mario Frigerio, l’unico superstite, che risvegliatosi in ospedale poco dopo il massacro disse: “è stato Olindo” a chi gli domandava: “Chi è stato? Lo hai riconosciuto?”.
Quella frase, per esempio, lui la dice con la gola tagliata, sotto morfina e sotto choc, in un ambiente con molti rumori di fondo. Cavalcando questi elementi l’avvocato dei coniugi Romano ha tentato di rendere non credibile la dichiarazione dell’uomo.
In quel caso ho fatto una perizia fonica, lavorando su altri audio di interviste che Frigerio aveva successivamente fatto alla stampa, confrontando la musicalità del suo modo di parlare con la pronuncia di quella singola parola. La mia perizia è stata decisiva per la condanna di Rosa e Olindo.
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Nel libro i casi sono “romanzati.” L’unica citazione in riferimento alla cronaca, però, è quando scrivi “come per Erika e Omar.” Hai partecipato anche alle indagini di Novi Ligure?
No, non me ne sono occupata. A partire da quella citazione, però, nel libro racconto come si fa a mettere le persone sotto pressione, facendo delle domande durante l’interrogatorio e poi lasciandole libere di parlare in una saletta a parte, come è stato per Erika e Omar.
La confessione avvenne così: i poliziotti immaginarono che, essendo i ragazzi molto giovani, avrebbero finito col parlarefra loro. Mentre nel caso di cui scrivo – un ragazzo che uccide per gelosia un giovane di colore – racconto di come in Procura fu costruito l’interrogatorio incrociato dei genitori che continuavano a “coprire” il figlio. Nel frattempo furono messe le microspie all’interno dell’auto: appena risaliti in macchina tutt’insieme, fra di loro, confessarono.
Le persone non sospettano di essere ascoltate?
Incredibilmente no. Anche chi può avere il dubbio di essere ascoltato dopo qualche minuto semplicemente se ne dimentica. Anche per la pressione emotiva, immagino.
Qual è caso che più avresti voluto raccontare, ma su cui hai dovuto mantenere il massimo riserbo?
Probabilmente il caso di un’intercettazione durata tanti anni, dove ho ascoltato in tempo reale un uomo infiltrato sotto copertura in un’organizzazione di narcotraffico internazionale.
Diciamo che le indagini su cui devo mantenere di più il silenzio sono quelle in cui il processo è ancora in corso. La riservatezza è d’obbligo per non influenzare il corso delle indagini. In quel caso il processo, durato due anni, è ormai concluso, ma è la storia già scritta del mio prossimo libro e presto diventerà un film. Quindi non posso dire di più.
Ti è mai capitato di intercettare un’indiziata donna?
No, non ho mai incontrato donne a capo di organizzazioni criminali, o semplici assassine. Mi è successo però di ascoltare donne coinvolte in reati vari. Prevalentemente però io ascolto uomini: sono loro che in linea di massima compiono più crimini.
Qual è il caso che ti ha fatto sentire più “utile” alla causa?
La mia soddisfazione dipende da quanto posso essere utile nell’assicurare una persona alla giustizia, sia da colpevole che da innocente. Una delle storie in cui mi sono sentita più utile è quella del procedimento nei confronti dei Carabinieri per la morte di Riccardo Magherini, deceduto in strada in Borgo San Frediano la notte del 3 marzo 2014, dopo esser stato fermato dalle forze dell’ordine in preda a crisi di panico.
In questo momento, con il processo ancora in corso, posso solo dire di aver lavorato giorno e notte per ascoltare le intercettazioni e le testimonianze delle persone coinvolte, ed essere il più rapida possibile nelle consegne delle perizie. È un caso molto delicato da un punto di vista emotivo, per la sofferenza che provoca.
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Totò Riina, Giovanni Brusca. Ha ascoltato anche loro?
Ce se siamo occupati in molti, perché sono collaboratori che rientrano in tante indagini. Personalmente li ho sentiti a lungo. Sono persone molto sicure di sé, particolarmente distaccate dalla loro parte emozionale. Attraverso il modo di parlare si sente forte il senso di potere che provano e che cercano di trasmettere.
Hanno una voce senza particolari timbri che cambiano, a livello d’intensità, di velocità, di suono. Brusca per esempio ha raccontato di come ha ucciso e sciolto nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo senza un’esitazione. Vogliono farsi rispettare, al di là di qualsiasi cosa dicano.
Sembrano essersi in qualche modo pentiti, almeno dalla voce?
Mi è stato chiesto spesso se, come perito fonico, abbai effettivamente sentito un reale pentimento. L’unica cosa che tengo a dire è che nella maggior parte degli uomini di Cosa Nostra quello che emerge è che diventano collaboratori di giustizia per ottenere una riduzione di pena—essere pentiti è un’altra cosa. Altri invece li ho sentiti anche piangere. Parlando di mafia però è meglio non far nomi.
Hai mai avuto paura di eventuali minacce?
Finora no, perché il mio lavoro è sempre stato abbastanza riservato. Quelle volte poi in cui esco di più allo scoperto, durante le deposizioni in aula per esempio, le persone ce le ho davanti e finora non ho mai incontrato reazioni eccessive o violente.
Tuttavia, ho un ricordo indelebile di quella volta – era il 1996, avevo 27 anni – che nell’aula bunker per il processo delle stragi del 1993 a Firenze, Riina dalla gabbia degli imputati mi salutò, come aveva già fatto con altre persone, chiamandomi per nome e cognome.
Come faceva a saperlo?
Era il modo per farmi comprendere che poteva sapere tutto di me.
Hai mai il dubbio di essere intercettata?
Ho avuto da una parte il dubbio e dall’altra, in certi casi, la speranza, perché ascoltando io le conversazioni di determinati soggetti criminali l’idea di esser intercettata mi dà sicurezza e senso di protezione.
Le persone temono di essere intercettate perché parlano con l’amante, o ammettono di fare un lavoro in nero, o commentano negativamente la figura di un politico. Non sono questi gli argomenti per cui uno viene messo sotto controllo. Le intercettazioni inoltre svolgono una funzione protettiva, perché permettono anche di capire se una persona è estranea a un reato.
Siamo tutti facilmente intercettabili?
Assolutamente no. Le intercettazioni hanno bisogno di firme di più magistrati, di autorizzazioni, di motivazioni che siano serie, ossia per certi tipi di reati e non coinvolgono assolutamente tutti.
Nella vita privata si paga un prezzo alto per la capacità di scoprire le bugie?
Abbastanza. La prima sensazione che ho quando capto la menzogna è grande rabbia. In passato mi allontanavo dal rapporto senza dire niente. Ultimamente invece cerco il confronto, perché preferisco un legame autentico a uno poco trasparente. L’uomo che frequento ora è una persona che mi mente raramente, quando lo fa, magari per non dovermi dichiarare un suo stato d’animo, sa che lo becco di sicuro e di questo ridiamo.
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