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Che cos’è un ‘Habeas Data’ e perché dovremmo pretenderlo a tutti i costi

sorveglianza habeas data intervista con cyrus farivar

Nell’Inghilterra del Dodicesimo Secolo si iniziò a discutere del concetto di “habeas corpus”, il principio per il quale il responsabile della detenzione di un prigioniero fosse anche tenuto a rendere noto il giorno e la causa dell’arresto. Nel 1679, con la promulgazione da parte di Carlo II d’Inghilterra dell’Habeas Corpus Act, quell’idea fu finalmente codificata e tutt’ora certifica la possibilità di vagliare se la detenzione di una persona debba essere considerata valida, oltre a sancire il principio dell’inviolabilità personale nel complesso.

Quello dell’”Habeas Corpus” è un principio fondativo anche della giurisprudenza contemporanea e costituisce una delle basi più importanti dei diritti democratici.

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Nella seconda metà del Ventesimo Secolo, sulla scia della crescente digitalizzazione della società, è emerso progressivamente anche il concetto di “Habeas Data,” inteso come la possibilità data ai cittadini di accedere alla propria proiezione digitale e ai dati personali conservati sul loro conto da istituzioni di varia natura, sia pubbliche che private.

Il giornalista americano Cyrus Farivar — ex-editor di Ars Technica, ora giornalista investigativo per NBCNews — ha dedicato a questo tema il suo ultimo libro, Habeas Data. Privacy Vs. the Rise of Surveillance Tech, edito da Melville House, con l’intento di spingere il concetto oltre la sua definizione e poterlo utilizzare come strumento per “rivelare in pubblico le grandi quantità di dati in possesso dei governi, affinché possano essere sottoposte a scrutinio.” In sostanza, per fare dell’”Habeas Data” uno strumento di trasparenza dove l’applicazione della tecnologia di sorveglianza è sempre più vasta.

Il libro di Farivar esplora i vari modi in cui l’adozione di alcune tecnologie per scopi di sorveglianza abbia favorito violazioni della privacy dei cittadini da parte dei governi e delle autorità pubbliche negli Stati Uniti, mostrando come alcuni casi legali cruciali siano diventati poi la base legislativa per gli attuali programmi di sorveglianza USA. Nonostante il taglio molto statunitense, il libro è una panoramica su come la sorveglianza contemporanea sia principalmente guidata dalla tecnologia, i cui sviluppi sembrano sempre più spesso destinati a essere implementati e sfruttati a scopo di controllo, con la legge lasciata a seguire e i cittadini costretti a difendersi da possibili nuove intrusioni e abusi, spesso senza la minima trasparenza.

“Se le persone avessero davvero consapevolezza di quanto i dati siano importanti, li venderebbero in cambio di soldi”

“Penso che dovremmo tutti pensare a che cosa stiamo rinunciando quando approfittiamo dei vari servizi che sono certamente molto utili in qualche modo — anche quando si tratta solo di video di gattini — in cambio dei nostri dati personali,” ha spiegato Farivar, raggiunto da Motherboard. “Se le persone avessero davvero consapevolezza di quanto i dati siano importanti, li venderebbero in cambio di soldi invece che cederli per avere accesso alle varie piattaforme online.”

Le tecnologie per il riconoscimento facciale, in particolare, si stanno ritagliando uno spazio sempre più ampio tra le priorità di governi e forze di polizia. La città di Londra, ad esempio, sta lanciando (di nuovo) un programma di test in questo senso in alcune delle location più affollate della metropoli; la polizia italiana si è dotata di tecnologia simile già lo scorso anno; e persino Taylor Swift non ha resistito all’idea di sottoporre il pubblico di un suo concerto a un po’ di scanning facciale, forse senza pensare per un secondo a quanto potesse essere una cattiva idea.

“La Cina guida lo sviluppo delle tecnologie di riconoscimento facciale. E l’idea di utilizzarle anche in casi molto piccoli, come il furto di patate, è preoccupante,” ha spiegato ancora Farivar. “Nel mio Paese, un parte sostanziale della popolazione degli Stati Uniti è già parte di un database di informazioni raccolte con il riconoscimento facciale e per lo più non lo sappiamo nemmeno. Questa tecnologia, come molte altre, sarà certamente migliorata e la sua diffusione è destinata ad aumentare. Presto, ad esempio, tutte le videocamere da portare attaccate al corpo, come quelle indossate dalla polizia USA, avranno delle capacità di riconoscimento facciale.”

A sua volta, regolamentare e porre limiti all’adozione e all’implementazione su larga scala di tecnologie di sorveglianza di varia natura, è ancora un problema. Per Farivar, una potenziale soluzione è però offerta dal modo in cui alcune città hanno deciso di iniziare ad affrontare il problema almeno da un punto di vista di accountability pubblica.

“La città di Oakland in California, dove vivo, sta cercando di regolamentare l’acquisizione e l’uso delle tecnologie di sorveglianza, ma è molto difficile. La maggior parte dei legislatori non è esperta di tecnologia, anche qui nella Bay Area, e saranno di conseguenza sempre un passo indietro rispetto agli sviluppi del settore,” ha spiegato il giornalista. “Questa è una delle ragioni per le quali queste leggi, come quella che abbiamo qui a Oakland, richiedono che gli enti pubblici, e la polizia in particolare, prendano provvedimenti affermativi per spiegare il funzionamento di queste tecnologie a chi deve poi legiferare in materia, e in anticipo. Così è possibile collaborare per creare delle policy sensibili.”

Davvero è più semplice immaginare la fine del mondo, che un mondo senza la sorveglianza come certezza?

Come abbiamo visto con il riconoscimento facciale, proprio l’ambito metropolitano è rapidamente diventato uno dei terreni di maggior sperimentazione delle tecnologie di sorveglianza, dove è in atto sempre più di frequente una militarizzazione degli spazi pubblici e del loro controllo. “Molte città si renderanno presto conto — se già non lo hanno fatto — del potere dato dalla sorveglianza aerea, dei droni, o di altri tipi di tecnologia che consentono di monitorare facilmente i cittadini in modi del tutto nuovi,” ha proseguito Farivar. “Inoltre, sembra essere sostanzialmente inevitabile muoverci verso un mondo dove lo scanning del DNA è obbligatorio, insieme alla sua conservazione. Solo quando ci si accorge dei possibili abusi, l’ago della bilancia potrebbe orientarsi nella direzione opposta.”

Per queste ragioni, l’“Habeas Data” è un principio che prevede un ribaltamento della nostra idea del valore dei dati personali e una rivendicazione per riequilibrare la bilancia tra privacy e sorveglianza, quando si tratta delle azioni dei governi e delle istituzioni pubbliche. “Penso che uno dei modi in cui i cittadini possono comprendere meglio queste questioni è scoprire quale tecnologia è utilizzata presso le loro comunità,” ha spiegato Farivar. “La polizia locale ha dei droni? Usa gli Stingray (uno strumento che finge di essere un’antenna telefonica la fine di intercettare i telefoni cellulari, nda)? Lettori di targhe? O qualsiasi altra cosa che possa sollevare importanti questioni di privacy? Questo è il primo passo: rendersi conto di cosa esiste già, per poi capire quali sono i prossimi passi da intraprendere.”

Molti degli sviluppi recenti in questo settore sembrano invece andare nella direzione del “realismo della sorveglianza,” la condizione per la quale l’onnipresenza della sorveglianza è non solo normalizzata, ma anche percepita come ineluttabile, un concetto che la ricercatrice Lina Dencik ha mutuato dal “realismo capitalista” di Mark Fisher. Davvero è più semplice immaginare la fine del mondo, che un mondo senza la sorveglianza come certezza?