Immagine per gentile concessione di Alec Dudson
Gli stage non pagati possono essere descritti in una grande quantità di modi, da ’“arricchente” a “degradante”. Le mie esperienze passate sono state piuttosto interessanti, ma non per tutti funziona così: un gruppo di stagisti non pagati che avevano lavorato per Il cigno nero di Darren Aronofsky, ad esempio, ha portato in tribunale la casa di produzione statunitense per aver violato le leggi federali sul lavoro. La sentenza a loro favore ha spinto molti altri stagisti a fare lo stesso, con cause che coinvolgono realtà come NBC Universal e Condé Nast.
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Alec Dudson, un 29enne di Manchester, ha deciso di entrare nel dibattito sul lavoro non pagato tramite una nuova rivista, non a caso chiamata Intern, “Lo Stagista” (senza alcun legame, per quanto ne so, con The Intern Magazine, un sito di lifestyle per “il gentleman urbano”). Alec ha lanciato una campagna su Kickstarter per far sì che la rivista si traduca in una pubblicazione cartacea in due numeri l’anno. Sulle pagine di Intern sarà possibile trovare esperienze di stage, fotografia, design e articoli di varia natura scritti da persone che sperano in un futuro nell’industria creativa. Per adesso ha raccolto 3.200 sterline delle 5.500 necessarie, che spera di mettere insieme entro il 7 agosto.
Ovviamente Alec ha un passato come stagista. Dopo aver conseguito un master in sociologia all’Università di Manchester ha deciso di entrare nel settore dell’editoria. Ha lavorato come stagista non pagato per due riviste mentre faceva il barista part-time, senza mai avvicinarsi ad una posizione retribuita.
In quanto stagista non pagata di VICE destinata a trascorrere l’estate su un divano a New York non potevo non essere interessata al tema, quindi ho chiamato Alec per una chiacchierata.
VICE: Negli ultimi anni il dibattito su stage e stagisti è finito più volte al centro dell’attenzione. Quando hai deciso di fondare questa rivista?
Alec Dudson: È stata una decisione frutto della mia esperienza. Nel 2012 ho fatto lo stagista presso due riviste—la prima era Domus, una rivista di architettura e design con sede a Milano. Ho fatto qualche mese da loro e poi sono andato da Boat, a Londra. È stato alla fine dell’esperienza a Boat che la realtà della mia situazione ha cominciato ad avere delle ricadute pesanti. Mi ha fatto considerare il tutto in una prospettiva più ampia. Mi ero divertito durante gli stage, ma rimaneva il fatto che un anno di lavoro non pagato non mi aveva portato per nulla vicino al mio impiego ideale.
Mi sembrava fosse una questione di compromessi: se lavori sodo ottieni la tua esperienza; e se sei abbastanza bravo alla fine dell’arcobaleno c’è un pentolone pieno d’oro. Quando ho cominciato a pensare che forse non è così che funziona, ho capito che c’era spazio per altro. Non sapevo esattamente per cosa, all’inizio: qualcosa che se fosse esistita un anno prima sarebbe stata una risorsa, quando pianificavo il mio assalto all’industria dell’editoria.
Quindi, qual è l’idea alla base della rivista?
La rivista si pone due obiettivi di base. Prima di tutto, intende essere una vetrina per alcuni giovani talenti. Voglio permettere loro di esporre il proprio lavoro, di farsi notare. Dall’altra parte, vorrei avviare un dibattito sullo stage. È fondamentale che gli stagisti abbiano una voce e che sia loro concesso di esprimersi. Quello che non mi interessa, è pubblicare una serie di testimonianze di stagisti che sentono di essere stati maltrattati. In questo modo non si arriverebbe a dibatterne, ma a urlare le proprie lamentele. Quindi ci saranno articoli di pezzi grossi dell’industria che guardano al proprio passato da stagisti.
Ho un po’ articoli in cantiere, in cui persone in importanti posizioni del settore raccontano la loro esperienza. Per dare al tutto significato e valore, ogni lato ha la possibilità di descrivere il proprio vissuto. Si tratta di invogliare le persone del settore a riflettere sulla situazione che stanno contribuendo a creare. Uno dei nostri primi dibattiti riguarda il fatto che quando si offre del lavoro gratuito si va a creare uno scenario per cui non tutti possono permettersi di lavorare gratis—a maggior ragione quando le posizioni più ambite sono in città come New York o Londra, posti non esattamente economici.
No, per nulla.
La creatività non è un diritto che si acquisisce alla nascita—la logica non dovrebbe essere quella per cui solo se la tua famiglia è benestante hai la possibilità di essere creativo. Se sei creativo e hai un vero talento, la classe sociale di appartenenza non dovrebbe rappresentare un ostacolo. Non vedo come queste situazioni possano giovare a qualcuno, salvo per il lavoro sottopagato, che è moralmente sbagliato.
Pur dovendo mantenere un certo grado di imparzialità proprio per il modo in cui la rivista è strutturata, è chiaro che non vado pazzo all’idea che molti non vengano pagati per i loro stage. Ma non posso schierarmi su uno dei due lati della barricata, perché non sarebbe un dibattito equilibrato.
Avviare una rivista cartacea è piuttosto coraggioso in questo periodo, nonché costoso. Sei preoccupato riguardo al futuro di Intern?
Lo sbaglio più grosso che si può fare con una rivista nuova e indipendente è mirare troppo alto. Boat è al suo quinto numero, ad oggi, e penso che solo ora stiano cominciando a capire la portata della loro distribuzione.
Gestendo un business abbastanza piccolo e tentando di non assumere ulteriori membri dello staff quando non richiesti, sono in una situazione in cui penso di poter far funzionare le cose, a meno che non voglia espandermi in maniera più aggressiva. I collaboratori sono già stati pagati, e la persona che fa tutto il lavoro sono io. Quindi, almeno sotto questo punto di vista, penso sia una condotta etica.
Lesley Thulin è una stagista di VICE. Non ci ha fatto causa. Per ora.
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