Il vero vampiro non è un aristocratico pallido e immortale, vestito con merletti impolverati. Non è nemmeno, come penseranno i più razionali, una razza di pipistrello ematofago. È un contadino slavo dal ventre gonfio e putrescente: un cadavere mezzo decomposto, con tutto il corredo di liquami, gas e altre cose disgustose che invadono i nostri corpi dopo la morte. A spiegarcelo è un’autorità in materia: l’antropologo e archeologo forense Matteo Borrini, professore alla John Moores University di Liverpool.
Già dall’aspetto, Borrini non potrebbe incarnare meglio la figura del vampirologo: capelli lunghi e lisci, pizzetto curato e lungo impermeabile. Ma non si tratta di un look scelto ad hoc per interpretare al meglio un moderno Van Helsing. In tempi non sospetti, a dargli il soprannome del famoso studioso e cacciatore di vampiri fu il suo mentore, Piero Mannucci, che, scherzando sull’aspetto del suo allievo, si è rivelato in qualche modo profetico.
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Prima del 2006, infatti, Borrini di vampiri sapeva ben poco (e poco gli importava): il suo lavoro ha tuttora a che fare soprattutto con antichi omicidi e con persone scomparse. “È stato il vampiro a trovare me,” ha spiegato l’antropologo a Motherboard per telefono. “Come nelle leggende in cui è lui a bussare alla tua porta e sta poi a te permettergli di entrare oppure no.”
Abbiamo chiesto a Borrini cosa lo ha portato a occuparsi dei mostri più aristocratici di Hollywood e come sono i vampiri che ha incontrato nella realtà.
MOTHERBOARD: Innanzitutto, in cosa consiste la tua professione?
Matteo Borrini: Sono antropologo e archeologo forense, cioè applico le tecniche dell’antropologia biologica, come lo studio morfometrico (forma e dimensione dello scheletro), per dare un’identità a persone morte in circostanze tali per cui il loro corpo non è stato ritrovato subito, ed è stato quindi impossibile applicare le normali tecniche investigative e di medicina legale. Vittime di reati, di disastri accidentali e naturali (come un aereo che precipita o uno tsunami), ma anche persone che semplicemente sono morte da così tanto che ne è rimasto solo lo scheletro.
Indaghi anche sulle circostanze della morte?
Certo. Oltre a stabilire l’identità della vittima, queste tecniche permettono di ricostruire l’ultimo capitolo della sua vita: le ossa ci raccontano la storia della persona a cui sono appartenute, sono in grado di congelare un momento nel tempo. Le tracce che restano impresse sullo scheletro rimangono molto a lungo. Tanto che, per esempio, sono stato in grado di ricostruire l’omicidio di Giuliano de’ Medici, fratello di Lorenzo il Magnifico, a distanza di 500 anni. E quello di Ötzi, la mummia del Similaun, a distanza di ben 5000 anni.
Mi incuriosisce soprattutto Ötzi: lo potremmo considerare il primo giallo della Storia. Come è morta la mummia del Similaun?
Ci ho lavorato nel 2007: la mummia era stata parzialmente scongelata per permettere alcuni esami, tra cui una mia analisi con la fonte di luce alternativa ALS ( alternate light source) che mi ha permesso di vedere bene ciò che caratterizzava l’epidermide al di là degli artefatti della mummificazione: tatuaggi, ecchimosi, lividi da emorragie sottocutanee e anche il punto di ingresso della freccia mortale. Nel caso Ötzi, la cosa più interessante è stata ricostruire non solo la dinamica omicidiaria, ma anche il contesto e le ragioni. In pratica si è trattato di un omicidio rituale, il sacrificio umano di un capo villaggio arrivato all’età del “pensionamento.”
La mummia, infatti, aveva circa 50 anni e qualche problema di salute. È quindi verosimile che non fosse più in grado di guidare la tribù. Come figura investita di poteri politici ed economici, però — e in possesso di conoscenze medico-sciamaniche e metallurgiche, quindi sacre —, il nostro Ötzi era considerato un personaggio a metà tra il mondo umano e quello divino, che dunque non poteva essere semplicemente messo a riposo come un uomo qualunque. Doveva essere sfidato dai giovani interessati a prendere il suo posto, per poi essere, in caso di sconfitta, giustiziato e seppellito, in modo da sancire il definitivo passaggio di consegna. Ed è ciò che è accaduto alla nostra mummia.
Arriviamo ai vampiri. Tu dici che il vero vampiro è molto diverso dallo stereotipo che abbiamo in mente. In che modo?
Dunque, il cliché del vampiro è quello della “Formula Ruthven,” che nasce con Il vampiro di Polidori: bello, affascinante, ipnotico ed eterno. Una formula di enorme successo letterario e cinematografico, da Dracula al vampiro espressionista Nosferatu fino agli efebici e sberluccicanti epigoni di Twilight. Un guscio fallace costruito sopra una figura folclorica reale, quella del “non-morto,” presente in molte culture con varie declinazioni, ma in particolare nella cultura slava a partire dall’anno mille. È però solo tra il XVII e l’XVIII secolo che il mito del vampiro si diffonde, con tanto di vere e proprie cacce al non-morto, anche se le prime testimonianze scritte sono precedenti. A questo proposito, è importante dire che i resoconti sui vampiri non provengono da fonti leggendarie o favolistiche, al contrario: sono cronache redatte da professionisti come medici, preti e funzionari. Persone, cioè, considerate colte e attendibili.
Puoi farci un esempio di queste cronache?
Prendiamo ciò che scrive Henry More nel suo An Antidote Against Atheism. Racconta la riesumazione di un vampiro avvenuta in Slesia il 18 aprile 1592: “Il corpo era sotto terra da quasi otto mesi, dal 22 settembre 1591 al 18 aprile 1592, quando la tomba fu aperta (…) trovarono il corpo intero e non intaccato dal disfacimento, ma gonfio come un tamburo, (…) le membra erano ancora tutte attaccate insieme. Esse non erano — fatto notevole — irrigidite come quelle delle persone morte, ma si potevano muovere con facilità. La pelle dei piedi si era sfaldata, e ne era cresciuta un’altra.”
Da queste frasi ci rendiamo conto che l’impressione era di avere a che fare con un corpo ancora vivo (le membra flessibili), e che anzi si stesse rigenerando con un serpentesco cambio di pelle. Un corpo che, invece di consumarsi e di scheletrirsi, si gonfia come se si fosse nutrito. In altre testimonianze si parla anche di rivoli di sangue fresco che escono dalla bocca del cadavere. Davanti a queste evidenze, anche i più scettici finivano per sposare la leggenda del non-morto che si nutre dei vivi.
Come si spiega tutto questo?
Oggi la spiegazione è semplicissima. Quella salma descritta come intatta è in realtà in piena decomposizione e tutti i dettagli riportati sono compatibili con lo stadio enfisematoso di un qualsiasi cadavere. L’addome è gonfio e teso a causa della pressione dei gas putrefattivi. Il corpo si riempie di liquami e se forato (per esempio dal famoso paletto) questi liquami fuoriescono, prestandosi ad essere interpretati come i resti non ancora digeriti di un pasto a base di sangue. Lo stesso vale per i fluidi che defluiscono dall’esofago sporcando la bocca del defunto. Infine, le membra sono flessibili perché il rigor mortis è scomparso (dura soltanto 80 ore) e sono presenti segni di epidermolisi, con la cute di mani e piedi che si scolla esponendo gli strati sottostanti e suggerendo l’idea di una falsa rigenerazione dei tessuti.
Se i segni di vampirismo erano normali manifestazioni di un corpo qualunque in decomposizione perché nessuno se ne accorgeva?
La dimestichezza con i cadaveri che si aveva all’epoca era limitata a un breve periodo successivo al decesso — che comporta il raffreddamento del corpo e la rigidità muscolare — o, al contrario, ai corpi già ridotti a scheletri. Questo perché i morti venivano seppelliti in fretta e gli stadi intermedi della putrefazione restavano occultati dalla sepoltura. Per molti secoli, il cadavere è stato per tutti un corpo rigido e freddo oppure un mucchio di ossa sbiancate.
Come sei venuto in contatto con il tuo primo vampiro?
Era il 2006 e stavamo lavorando ad alcuni scavi nella laguna veneta. Ci trovavamo presso l’isola del Lazzaretto nuovo, all’interno del camposanto che racchiudeva le fosse comuni delle due pestilenze che colpirono Venezia nel 1576 e nel 1630. A un certo punto qualcosa ha attirato la nostra attenzione: uno scheletro con un mattone nella bocca, proprio in mezzo alle fauci spalancate. Si vedeva che era stato inserito con la forza, fino a rompere alcuni denti. Non avevamo idea di cosa volesse dire; sul posto eravamo in grado di determinare solo due cose: che la tomba era stata riaperta quando il corpo era già in decomposizione e che il mattone era stato messo nella bocca intenzionalmente. Solo dopo qualche tempo ho scoperto la leggenda dei vampiri masticatori e portatori di peste e ho capito che lo scheletro di Venezia non era altro che un vampiro nachzehrer, il cui sudario era stato sostituito con un mattone in modo da fermare il masticare mortifero che causava la diffusione della peste.
Cosa faceva credere che ci fosse un rapporto tra epidemie e vampiri?
Nell’Europa del XVII secolo era una credenza abbastanza diffusa. Un tipo particolare di vampiro, il nachzehrer appunto (detto anche “il masticatore di sudario” o “divoratore della notte”), era considerato responsabile di diverse epidemie. Si trattava di una sorta di vampiro allo stato larvale, un baby vampiro il cui mito risale alla Polonia del ‘300. Come nel caso descritto da More, le persone pensavano di riconoscere i nachzehrer dallo stato del corpo del defunto: se appariva intatto e con il sudario consumato all’altezza della bocca, non c’erano dubbi e bisognava agire di conseguenza.
Come si decideva quali cadaveri riesumare, cioè quali defunti erano potenziali vampiri?
In genere a essere riesumato era quello che si riteneva essere il “paziente zero.” Oppure si trattava di pura casualità: in tempi di epidemia, le sepolture recenti erano spesso riaperte per aggiungere altri cadaveri e questo facilitava l’incontro con corpi non totalmente decomposti, il cui aspetto alimentava il terrore e la superstizione della popolazione. Con la scomparsa del rigor mortis, infatti, la bocca tendeva ad aprirsi, ed essendo una zona ad alta concentrazione di batteri, il sudario appariva più consumato e sprofondato nella cavità orale. Da qui alla “bulimia funebre” del vampiro — l’orrendo masticamento che diffonde l’epidemia — il passo è breve.
Che cosa siete riusciti a scoprire del vampiro di Venezia?
Parecchio. Ci siamo comportati come in qualsiasi altro caso di antropologia forense. Innanzitutto, la morfologia del cranio ci ha permesso di capire che si trattava di una donna (di nuovo in barba al cliché dell’affascinante gentiluomo alla ricerca di vergini fanciulle). Grazie a una valutazione radiografica dei denti siamo poi riusciti a determinarne l’età, circa 61 anni. Si trattava di una donna europea che, in vita, più che di sangue, si era nutrita di verdure e grano. Una donna del popolo, quindi; forse una fioraia o una fruttivendola. Una povera anziana signora che oltre ad essere stata falcidiata dalla peste aveva anche subito un macabro quanto inutile rituale.
Le avete anche dato un volto…
Abbiamo elaborato una ricostruzione facciale partendo da una scansione laser del cranio stampata in 3D. Abbiamo poi modellato i tessuti in base ai segni lasciati dai muscoli sulle ossa. A questo punto bisognava darle un nome. Ho scelto Carmilla, come la vampira protagonista del racconto di Sheridan Le Fanu, e anche in omaggio a mia sorella Camilla, la prima in assoluto ad essersi imbattuta in questo particolare scheletro. Restava solo un problema: come raccontare tutto questo alla comunità scientifica. Tra me e me mi dicevo: “Come faccio a dir loro: ‘Signori, ho un vampiro tra le mani’?” Ho deciso di essere schietto e non girarci intorno. Sono andato all’American Academy of Forensic Sciences e ho introdotto la mia relazione sul caso di Venezia dicendo: “Signori, io credo nei vampiri, e questo è uno di loro”.
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