Tutte le foto di Mattia Zoppellaro/Contrasto.
Contrasto è il punto di riferimento per il fotogiornalismo in Italia. Da 30 anni rappresenta alcuni dei migliori fotografi e fotoreporter italiani ed esteri, oltre a diverse agenzie internazionali come la Magnum. Quella che state leggendo è la rubrica in collaborazione tra Contrasto e VICE Italia, in cui intervisteremo alcuni dei nostri fotogiornalisti italiani preferiti per farci raccontare le storie e le scelte dietro il loro lavoro. In questa puntata abbiamo raggiunto Mattia Zoppellaro, fotografo 38enne famoso per i suoi ritratti e per le sue serie su quelle che di solito chiamiamo “sottoculture”.
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Ho incontrato Mattia Zoppellaro in un bar della Circonvallazione di Milano un pomeriggio che iniziava a fare freddo, e abbiamo cominciato a parlare di feste, sottoculture e luoghi malfamati di Milano prima ancora che io iniziassi a registrare l’intervista.
Mattia è infatti da sempre affascinato da quella che chiama “la tensione che si crea tra l’individuo e il gruppo nel momento in cui il primo si sforza per entrare a far parte del secondo.” Dopo un periodo alla Civica di Cinema di Milano, quando la fotografia era ancora un hobby, Mattia si è reso conto che la sua strada era un’altra: “il cinema comportava una componente troppo razionale, un lavoro di squadra e la capacità di programmare una mossa dopo l’altra. La fotografia mi diverte di più.”
Ed è così che ha finito per occuparsi di quest’ultima, inizialmente soprattutto all’interno della scena musicale. Dirty Dancing è il primo progetto che Mattia ha dedicato a una sottocultura, e possiede già in nuce molti degli elementi che accompagnano gli altri: la partecipazione mimetica e viva alla scena, la curiosità e un punto di vista unico—che in questo caso l’ha spinto a usare il bianco e nero.
ologna, 1998.
VICE: Molti tuoi lavori sono incentrati su sottoculture, su quelle che potremmo chiamare tribù—da Dirty Dancing fino al recente Irish Travellers. Da cosa nasce questa esigenza?
Mattia Zoppellaro: Tutte le volte che intraprendo una di queste ricerche sono incuriosito dal soggetto e dal rapporto che c’è tra il singolo e la tribù […], dal capire cosa spinge le persone a voler far parte di un gruppo. Penso che l’individualità sia peculiare all’essere umano, per questo trovo affascinante il fatto che qualcuno vi rinunci in parte per entrare in un gruppo.
Dirty Dancing è il primo progetto di questo tipo che hai sviluppato?
Sì. Ero andato con un amico una sera a una festa a Bologna e sono rimasto affascinato e incuriosito dalla scena: era tutto bello, una sorta di materializzazione di ogni mia fantasia estetico-musicale. Mi sembrava di essere al posto giusto nel momento giusto. Poi ho continuato a frequentare i rave, ma ora è diverso: sono stato all’ultimo l’estate scorsa e mi è quasi sembrato una sorta di movimento vintage, retrò. Ogni scena dovrebbe essere bandita quando c’è qualcuno che può millantare un periodo migliore.
Ma tu prima di cominciare a scattare frequentavi la scena rave?
No, ho iniziato prima a fotografare che a partecipare: infatti all’inizio quando fotografavo venivo visto piuttosto male. Il progetto è cominciato nel 1997—quando i telefoni non esistevano e le macchine digitali non sapevamo nemmeno cosa fossero—ed è durato fino al 2004-2005.
Paradossalmente, ho smesso di avere voglia di fare foto proprio nel momento in cui mi sono sentito integrato nella comunità—perché la mia esigenza di fare foto viene dalla volontà di conoscere. È il mio rapporto con la fotografia: prima di tutto voglio capire e di conseguenza dire qualcosa, sebbene non voglia imporre la mia visione sugli altri.
Come prendevano le persone il fatto che le fotografavi?
All’inizio venivo guardato davvero male, mi minacciavano, ho rischiato che mi spaccassero la macchina. Perché ero visto come un estraneo—soprattutto alle prime feste a cui andavo con Lacoste, jeans e scarpe da tennis. Poi mi sono un po’ introdotto.
Inoltre in quel periodo leggevo libri in cui i fotografi spiegavano come riuscivano a introdursi in un mondo estraneo, per esempio come ha fatto Bruce Davidson per East 100th, il suo lavoro su Harlem. Ho seguito il suo metodo: ho stampato le foto delle prime feste e le ho portate alle persone ritratte, instaurando un rapporto. Alle prime feste a cui andavo non c’era nemmeno internet, ma quando hanno iniziato a emergere siti tipo Shockraver ho cominciato a mandare le foto ai siti che le pubblicavano, e ottenevano un ottimo feedback.
Bologna, 1997.
Dirty Dancing immortala rave in tutta Europa. Dove sei stato?
Ho girato le capitali d’Europa e poi qualche festival, soprattutto in Austria, Repubblica Ceca, Francia, Inghilterra—a Londra ne potevi fare anche tre o quattro a sera, nei weekend—Spagna e Portogallo. Sono stato un bel po’ in giro con la tenda, che serviva a poco, più che altro come una sorta di salotto.
Hai trovato differenze nel modo di vivere la cultura rave nei diversi stati Europei?
Ho sempre trovato la Francia molto più matura e sensibile, dal punto di vista di chi va alla festa—ti parlo soprattutto di rave nel sud della Francia, che è un po’ il cuore del movimento tekno, Marsiglia, Tolosa, Tolone, Montpellier. Ho trovato meno maturità in Inghilterra, probabilmente per il fatto che Londra è una metropoli talmente grande che alle feste ti ritrovi chiunque.
In Italia mi è sempre piaciuta la zona torinese, mentre a Milano ricordo le feste che facevano a Breda nel ’98-’99. Preferisco sempre le TAZ ai locali, ai centri sociali, alle cascine. Con le TAZ, la gente andava lì, apriva, occupava, faceva la festa, poi arrivava la polizia e le interrompeva.
Quanti rave hai fatto, più o meno?
Sai che non lo so, non me la sono nemmeno fatta questa domanda. Direi sopra il centinaio, tieni conto dal 1997 fino al 2004 ci andavo almeno 20 volte all’anno. Per un periodo ho frequentato Fabrica: lì funziona che dal lunedì al venerdì hai quasi orari d’ufficio. Io avevo iniziato per loro un documentario sui rave, quindi in un certo senso mi giustificavo con il progetto, e mi andava sempre bene: anche se magari facevo il weekend al rave e il lunedì ero ancora alla festa, martedì tornavo dicendo che la polizia mi aveva arrestato per evitare altri guai.
Come mai hai scattato in bianco e nero? L’ho trovato strano perché la scena rave per me è sempre stata molto colorata, come associazione.
Una volta scattavo solo in bianco e nero, adesso ho cominciato anche a scattare a colori, dipende dall’associazione. La scena rave l’ho sempre vista monocroma, anche se capisco cosa intendi. Il concetto di rave è una sorta di unione tra essere punk ed essere hippy: la comunità, la psichedelia sono concetti forti nei rave. Nella mia visione il punk ha avuto la meglio, avrò scattato quattro o cinque rullini a colori in tutto il progetto a fronte di centinaia e centinaia in bianco e nero. Mentre per esempio il lavoro sugli Irish Travellers l’ho subito pensato a colori.
Sei in qualche contatto con i raver e i rave?
Non è strano per me pensare a spin off dei progetti: mi piacerebbe fotografare oggi i ragazzi a cui ho fatto un ritratto ai rave.
Quali sono le altre sottoculture di cui ti sei occupato?
Ho fatto diversi progetti per varie riviste, per esempio una serie su Velvet sui movimenti occidentali nei paesi che occidentali non sono: sono stato in Senegal a fotografare i rapper senegalesi che volevano essere occidentali; in Messico ho fotografato la scena dei ragazzi che volevano essere emo losangelini. Mi piace la tensione tra essere in un posto e voler essere in un altro, oltre che il rapporto tra l’individualità e il gruppo.
Per vedere altre foto di Mattia, vai sul suo portfolio sul sito di Contrasto.
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