Questa intervista è stata pubblicata originariamente nel numero di VICE Magazine “Un sacco di risate” del novembre 2010, interamente dedicato alla comicità. La riproponiamo per ricordare Paolo Villaggio, grande attore, comico e autore mancato questa mattina.
Un’ora e quaranta con Paolo Villaggio, in presenza di una fotografa, nel salottino-studio di una villetta di fronte a Villa Ada, Roma nord. Alle pareti, incorniciate, le fotografie con gli amici—Tognazzi, Pozzetto, e, per ragioni misteriose, diverse con Liza Minelli. La moglie, con cui ho parlato spesso al telefono visto che mi hanno dato buca tre volte all’ultimo minuto prima di ricevermi, non si presenta. Villaggio è seduto alla sua scrivania tipo megadirettore, con dietro i suoi libri in una libreria, e indossa una tunica antracite scuro, mi pare, ha la barba e un’aria sana ma incompleta, interlocutoria. Molto attiva la domestica latina con il tè alla menta in bicchierini arabi e con l’apparecchio acustico, che il comico quasi ottantenne si fa portare perché ho la voce troppo bassa. Qui riporto prevalentemente monologhi, perché non ho osato fare vere e proprie domande a un uomo che ogni tanto vedo svalvolare in televisione vestito in tunica e giacca rosa, uno che parla di Giuda e di sodomia nella TV del pomeriggio.
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Alla fine lo trovo ambiguo, pazzo, stronzo, piacevole, persuasivo, ottuso, avido, onesto, imbarazzante, disonesto, educato, sensibile, impostore. Prima è burbero, poi molto disponibile; ora racconta la verità sulle falsità della televisione, ora pontifica a casaccio sulla società per fare bella figura. A un certo punto, decide anche di farmi capire una volta per tutte che è un iconoclasta e con vero genio parla della propria competitività e dei fricchettoni (temi peraltro tipici di Cartman, il che mi fa pensare, ora che sto lavorando al pezzo, che Villaggio sia il Cartman italiano). Il tutto prima del vero capolavoro, il discorso sui poveri. In definitiva rimane uno scrittore, l’autore degli articoli del Rag. Fantozzi negli anni Settanta sull’Europeo: una voce narrante, un pensiero monologante maniacale, un esperto di aneddoti.
Da notare, per gli appassionati, un uso personale del tema Berlusconi—visto sia come certificazione del rimbambimento televisivo degli italiani, sia come unico politico in grado di governarli—aneddoti che parlano di violenza sui poveri, scienza e ateismo e Fabrizio De André come persona divertente.
Paolo Villaggio: Cos’è quello?
VICE: È un registratore, le dispiace?
No, è magnifico. Fammelo vedere.
[Gli mostro l’iPhone. Cominciamo con molti problemi perché non ci sente; io sono imbarazzatissimo] Quando mi hanno affidato l’incarico di intervistarla mi sono andato a vedere un po’ di video su internet…
[Cerca la moglie via interfono] Senti, chiama lei [la domestica], che non so come si chiami e dalle le due protesi che ho messo sulla scrivania e fammele portare… le orecchie, come le chiami tu! [A me] … E quindi?
E alla fine ho trovato più video tristi che allegri, quindi volevo…
Vabbe’, quello che vuoi.
Eh, no, cioè, adesso le devo dire un po’ di cose che mi sono segnato: lei quando va in televisione dice spesso cose tristi. Per esempio l’altra sera a Canale 5 ha parlato di Moana Pozzi.
Sì, no, me l’han chiesto loro.
Sì, vabbe’, però a parte la battuta che Moana aveva Io stesso odore di Tatti Sanguineti… che un po’ mi ha fatto ridere… poi ha detto, “Moana era frigida e aveva rancore per chiunque avesse orgasmi.” E a un certo punto ha raccontato questa scena di Moana che le dice che non farà mai l’amore con lei.
Sì, me lo ricordo.
Poi ha detto, “E io che di solito fingo la commozione ora mi commuovo.” E si è commosso. Allora questa cosa mi ha turbato. Lei molte volte in televisione dice, “Io non fingo mai la commozione” e dopo si commuove, oppure, “Io di solito fingo la commozione, ma ora mi commuovo…” Cioè, poi si commuove veramente? Come si fa a parlare di queste cose in televisione? Mi dica cosa passa per la sua testa…
Non ho una risposta valida. [Si fa serissimo] Non c’è un motivo, dai, sono tutte istrionate, pagliacciate, qualcosa di… sensazionalismo, per stupire, per rimanere… non Io so… Era così stupida la domanda, era così di bassa lega anche Tatti Sanguineti, che sinceramente non merita una risposta, non lo so…
E però lei, di fronte a una domanda che non merita risposta, risponde molto seriamente.
Sì, be’, per il gusto di stupire… Non lo so. Sai, non non è che cambi la mia vita, poi, quella cosa lì…
Però lei continua a dare queste risposte, perciò lei fin da, fin da… non so avevo visto un altro filmato…
Tu dimmi cosa… dove vuoi arrivare, che ti do una mano…
[Umiliato e nel pallone, rispondo con urgenza] Io dove voglio arrivare? Voglio arrivare a capire se le si possono fare domande, capire di cosa può parlare…
Sì, si può, si può.
Allora, ho visto dei filmati di lei da giovane: a volte si metteva a litigare con il pubblico, in televisione. Non mi ricordo come si chiamava la trasmissione, c’era lei con una camicia a fiori…
Era Arbore. Si chiamava L’altra domenica [in realtà, dai miei appunti risultava essere Speciale per voi]. Una ragazza del pubblico mi ha detto, “Lei non mi fa ridere!”… Ho una memoria…
Ammazza, sì.
La ragazza ha detto, “Lei però non mi fa ridere.” Le ho risposto, “Io sinceramente sono abbastanza lusingato, rallegrato dal fatto che mi dica che non la faccio ridere… perché è appunto alla gente come lei che non voglio far ridere, anzi dare un po’ fastidio.” Mi ricordo un’altra volta, a Quelli della domenica: in prima fila c’era una vecchia, una che noi chiamavamo “la Nonnina di Sette voci” che era una trasmissione di Pippo Baudo. Era una di prima fila, una vecchia carogna tutta truccata che veniva imbeccata dai dirigenti e interveniva in trasmissione, parlava in dialetto milanese… era diventata una star. Allora, prima della trasmissione mi dicono, “Senti, la prima cosa che devi fare: devi andare dalla vecchia, inginocchiarti, dire Nonnina tu hai portato fortuna a Pippo, cerca di portare fortuna anche a me, a Cochi e Renato che stiamo veramente… stiamo tremando, abbiam paura…?’” Insomma, mi chiedono di fare una cazzata così. Esco: ciak, motore, via, si parte. Cioè, senza ciak perché è televisione… Dopo cinque minuti io dico una cosa come, “Non ho nessuna voglia di ridere perché questo tipo di televisione di cartapesta è ripugnante.” La vecchia fa, “Eheheheh,”—una risata—per essere inquadrata. Era del mestiere, del resto. Io, “Zitta lei, vecchia imbecille!” Bum, c’è stato un momento di silenzio, e io, “Ho visto che siete disorientati, voi che siete pagati per ridere a comando!” Insomma, una rivoluzione. E Quelli della domenica è stato un autentico colpo di stato, eravamo fortunatamente a Milano—e non a Roma dove c’era la DC ancora che regnava—tra gli autori c’era quel genio di Marcello Marchesi, Enrico Valine che era carino, Terzoli, io mi ero trascinato dietro Costanzo da Roma… quindi è stato un colpo di stato vero, avevamo un pubblico di fascia medio-alta che è impazzito.
Quindi si può dire che questo pubblico lo abbiate cresciuto voi.
No, lo abbiamo catturato, più che altro, è stato un segnale, come a dire: vedete è tutto finto. Io dicevo delle cose tipo, “Mi dispiace per voi, cari amici in ascolto: vi aspetta Caterina Caselli, spegnete, dai, è una cosa agghiacciante…” Capito?
E adesso questo pubblico che avete intercettato c’è ancora?
Adesso è successa purtroppo una tragedia, dal punto di vista culturale questo paese si è un pochettino omologato: dal basso sono saliti a un livello medio-basso, ma dall’alto son scesi allo stesso livello. È venuto fuori un signore, Berlusconi, che si inventa una televisione commerciale dove quello che conta di più è il numero, l’ascolto. Hanno scoperto che gli sponsor pagano in proporzione al numero degli ascoltatori, quindi più ascolti più soldi. E poi, che più abbassavi il livello più Mike Bongiorno veniva capito, che il qualunquismo di Celentano suscitava grande ammirazione… cioè, più abbassavi il livello del linguaggio più l’ascolto aumentava, e i soldi di conseguenza.
Mi spieghi bene questa cosa di Celentano. Nel senso: Bongiorno è facile da capire, quella di Celentano va un po’ spiegata.
Ma te lo dico in una parola: era populismo. Diceva di credere in Dio, cioè intuiva a istinto, perché era un uomo abbastanza ignorante, qual era il livello medio del pubblico, e per lui era facile capire cosa fare per alzare l’ascolto.
Be’, gli veniva anche naturale.
Qualche volta sì. Non era una persona di cultura, però mi sembra che poi alla fin fine avesse capito qual era la strada.
E quando Pozzetto è andato a fare i film con lui, come l’ha presa?
[Arriva finalmente l’apparecchio acustico ma la domestica, ribattezzata “amore mio”, ha inserito la pila nel modo sbagliato. Viene spedita di là a rimediare] Cosa vuoi che abbia provato, una delusione?
Che ne so, succede di litigare con gli amici oppure essere delusi dalle loro scelte, a me capita.
Vabbe’, sono rimasto deluso ma solo perché avevo chiesto a Corbucci, che era il regista, di esserci anch’io, e quello aveva rifiutato. Erano tipo i cinepanettoni dell’epoca, cose abbastanza grosse. Io poi ho fatto dei film, con Corbucci, sei addirittura, di un livello abbastanza detestabile… Per me erano frutto di una via di mezzo tra cialtroneria e avidità, e un lusso che mi potevo concedere.
Cialtroneria, avidità e lusso erano suoi?
Sì: tutto mio. E di chi altri, scusa? Era necessario rimanere sulla cresta dell’onda, fare box office e guadagnare, per poter fare poi delle scelte… delle altre cose.
Qualcosa di diverso, tipo Fantozzi?
Lì mi è scoppiata in mano una vicenda nella quale non credevo: erano collaborazioni sul settimanale dell’ Europeo di Tommaso Giglio, l’ Europeo grande che tu forse non ricordi usciva di mercoledì, ma si chiamava La domenica di Fantozzi: un pezzullo che praticamente commentava soprattutto i disagi del consumismo. C’era il povero Fantozzi, sfortunato, il traffico… usavo delle misure paradossali: per andare a Ostia la domenica Fantozzi impiegava due ore per andare e due ore per tornare. Tutti giù a ridere. Pensa che adesso quella è una misura realistica, può capitare, capita sempre sulle tre ore la domenica ad andare e tre a tornare, rimani infognato. Comunque, quella rubrica era diventata un evento, c’era un linguaggio completamente nuovo… la gente mi diceva, “Sembra un mio zio.” Il mio vicino di destra. Visto il successo, il vecchio commenda Rizzoli mi fa fare un libro che vende un milione e mezzo di copie. A quei tempi la gente leggeva. Poi, sempre Rizzoli ha detto, “Facciamo un film.” “E chi lo fa?” gli rispondo. Gli dico che ci vuole un attore molto comico, un clown, lo stile era paradossale, che avrei domandato a Renato Pozzetto che aveva appena fatto Per amare Ofelia di Mogherini, un trionfo. Oppure a Tognazzi, che aveva appena fatto La grande abbuffata… Allora il vecchio commenda mi ha detto che dovevo farlo io. E io, non Io so, come mestiere faccio altre cose, scrivo…
Lei era già in televisione.
Sì, ma non facevo tanto il comico… Comunque, l’ho fatto: il film è uscito al Barberini di Roma, per dirti, dopo Pasqua e siamo andati avanti fino a Natale, cerca di capire… Pasqua, tutta l’estate fino a Natale. Morale: io ho fatto in tutto dieci Fantozzi libri, dieci Fantozzi film… Lentamente è diventata un’operazione terapeutica, perché mentre all’inizio mi dicevano, “È il mio vicino di destra, è uguale a uno che abita sotto casa mia…” Poi hanno iniziato a essere confortati dal personaggio, nella loro incapacità a essere competitivi. Siamo tutti così. La funzione della cosa era: non preoccupatevi, se non ce la fate, se siete mediocri… Insomma, la funzione terapeutica del comico. [Segue spiegone mostruosamente complesso sul senso della comicità.]
Fantozzi è, comunque, molto più di questo.
Fantozzi era impacciato, senza sesso, soprattutto molto sfigato. Allora: l’uomo del Medioevo credeva nell’Aldilà, e quindi sulla Terra, la valle di lacrime, accettava di tutto perché sapeva che se seguiva le regole dopo avrebbe avuto il premio del Paradiso. Altre culture, tipo quella americana, sono più ciniche, credono solo nell’aldiquà. L’equazione fondamentale è: non esiste l’aldilà, esiste solo l’aldiquà, quindi anche se rubi… In America la politica è feroce, e lo sta diventando anche da noi però a un livello più basso, provinciale, portineria: un livello medio-basso, ma molto medio basso. La televisione parla solo di escort, di Berlusconi che va a puttane, e del delitto di Avetrana… Lo capisci il livello, no?
Però lei è arrivato a questo dicendo che l’uomo del medioevo credeva in Dio.
Esatto, e l’uomo di adesso crede solo nell’aldiquà, nel successo, e quindi chi non ha successo adesso diventa violento. Pensa ai brigatisti, agli ultrà… Cioè, i brigatisti avevano fatto alcune letture da giovani ed erano incazzati come delle bestie, si travestivano da apostoli della libertà e dell’eguaglianza. La curva, invece, la curva… si parla la domenica sera, i commentatori dicono, “Pochi isolati teppisti.” Be’, non sono isolati, sono organizzati, sono incazzati come delle belve, quando la squadra del cuore vince sfasciano il treno del ritorno perché lasciano un segno della loro esistenza, cioè di loro si parla solo se fanno quella cosa lì. Tirano i razzi, ammazzano uno tipo Paparelli. Si ammazzano: ma perché? Perché vogliono essere visibili, la loro ansia è quella di non essere visibili, loro sono teppisti perché è l’unica via percorribile.
Gli impiegati sfigati erano invisibili come gli ultrà, prima che uscisse Fantozzi?
Lo sono anche adesso. Quella è la categoria più sfortunata, è la più pericolosa, è quella che ha paura di tutto: ha paura degli arrabbiati, ha paura della povertà, delle megalopoli dove di notte ti inculano, strappano le borse alle vecchie. E quelli vogliono solo il fascismo. Ecco la paura che hanno gli anziani, adesso che ci sono più anziani che giovani: hanno paura, sono tutti cristianissimi e amano il loro prossimo, ma tranne i negri, gli ebrei… e gli omosessuali… Adesso Berlusconi si permette di dire che a lui piacciono le donne, e sembra che abbia centrato il giudizio dell’italiano medio che dice, “Fortunatamente non sono gay.” [Nota anti-obsolescenza: Berlusconi ha detto, “Meglio essere appassionati di belle ragazze che di gay.”] Lì si capisce che il politico non dice mai la verità, ma finge sempre di intuire—come Celentano, no?—, di intuire il linguaggio medio. Sa seguire.
Parlando di Berlusconi alla radio, a un certo punto ha detto, “Ma che Bel Paese? Un paese di merda, molto triste.” Poi si è messo a discutere di Berlusconi, ha detto, “Povero vecchio, sessualmente scarso, lasciamo illudere i suoi adepti che lui sodomizza a destra e a manca, lasciamolo morire in pace.”
Non me lo ricordo però può darsi… L’altro giorno da Chiambretti ho detto che era un grandissimo imprenditore, forse l’unico europeo degli ultimi cinquant’anni che in un clima di sinistrismo è riuscito a fondare un impero partendo da zero. Gli Agnelli, i Rizzali, i Pirelli hanno ereditato. Che cosa vuol dire? Che in fin dei conti, se noi dobbiamo affidare a qualcuno le sorti del paese in un momento così difficile… Perché non è un momento difficile in Italia: è tutta la cultura occidentale che sta vacillando. Mao per 70 anni ha tenuto bloccati i cinesi, adesso sono già i primi al mondo. Poi ci sono i giapponesi, verranno gli indiani… Quindi, dicevo, Berlusconi in questo momento è l’unico a cui affiderei il timone della nave.
Sul serio?
A chi lo vuoi affidare? Lui lo conosco bene. Non lo affiderei né a D’Alema, a Buttiglione, a Veltroni, ho fatto i nomi dei possibili… Quelli, dico, sono dei politici. Lui invece nasce come grande imprenditore, e poi è andato in politica per difendere quello che ha costruito.
Quindi l’unico in grado è chi è entrato in politica per difendersi.
Sì, esatto, ho detto questa cosa da Chiambretti e mi ha chiamato lui in persona, la mattina dopo. Mi ha detto, “Uè grazie, sei stato l’unico a difendermi. Vedi, che armi usano? Fango, fango, merda, fango.”
Una cosa che mi piace molto di quando la vedo in televisione, e che ritrovo anche nei suoi personaggi, è che lei parla spesso della morte. La tira sempre fuori, la morte, cosa che in TV non si può fare: per esempio una volta in un’intervista, mi sembra con Lamberto Sposini, a un certo punto parlando di De André lei si commuove, e parla dei suoi amici che l’hanno lasciato: Tognazzi, Moana… É una scena inquietante, perché Sposini cerca di farla smettere, e lei insiste su quell’argomento.
Vabbe’ perché Sposini ha paura, quella è censura, è perbenismo televisivo.
Però lei continua ad andare in televisione.
Per denaro. Mi danno ancora molti soldi: per andare da Sposini, che è anche simpatico, e stare lì mezz’ora ti danno 10.000 euro, ti vengono anche a prendere, è in via Teulada, cinque minuti da qui, dieci minuti di macchina, poi mi diverto. Tutto considerato, nel mio mestiere la vanità conta più dei soldi, e quindi ecco io ho fatto anche un errore nella vita… Mi faccio delle domande anche io: perché ho fatto i film di Corbucci e Vanzina? Perché a quei tempi mi davano l’equivalente di un milione e mezzo di euri, che erano due miliardi e qualcosa. Sinceramente non mi pento, era un lusso che mi potevo concedere. Ecco, però nonostante tutto il trionfo di Fantozzi eccetera, io sono rimasto confinato nel livello del comico. Nella cultura cristiana, cattolica soprattutto, il comico è pericoloso perché si concede come il buffone di corte certe libertà, e quindi è considerato un personaggio di serie inferiore.
Lei ha sempre conservato l’aria di personaggio inferiore: si presenta sempre come più brutto, più…
Sì, ma quello è un vezzo.
Un vezzo che poco si addice a uno che ha lavorato con quelli con cui ha lavorato lei…
Mi ricordo quando mi telefonò Fellini, era la fine degli anni Ottanta, “Pronto Paolino, sono Federico Fellini, ehi guarda, io ti ho visto l’altro giorno mi sono commosso…” Poi mi ha proposto di recitare in La voce della luna, con Benigni. Altri poi mi hanno chiamato—Olmi, Wertmüller —con quei film ho vinto due David di Donatello, una Grolla e poi Pardo, Leone d’oro fino al Nastro d’argento con Olmi.
Lei alla fine faceva qualcosa di simile, ad esempio il personaggio paranoico de La voce della luna è un suo personaggio.
Era un Fellini minore, non c’era la magia…
Sì però il suo personaggio era fantastico.
Non era comico, era tragico. Poi non lo so, se erano davvero quelle le intenzioni di Fellini. Era molto difficile capire quello che voleva: tu arrivavi sul set alle sette perché lui si svegliava alle cinque. Diceva, “Che facciamo? Vabbe’, proviamo.” E ti dava dei foglietti con delle battute. Poi si metteva a filo macchina e ti suggeriva. Senti, siamo qui da un’ora, ma tu alla fine cosa mi volevi far…
Niente, volevo solo farla parlare.
In che misura ti potrei venire incontro? Potrei dirti cose sgradevoli, dimostrarti avidità, un pochettino di… qualche aspetto disdicevole, un certo cinismo… Vediamo, allora. Ti dico che io odio i santi, le santità.., perché il santo ha poche qualità in una cultura competitiva e allora sceglie una strada truccata. Ci sono i mediocri—e voi ne conoscete moltissimi—quelli che vanno in India negli ashram e diventano santi, cercano un tipo di santità perché si sentono nobilitati dal rifiuto della competizione, ma in realtà sentono di essere inadeguati e allora si rifugiano nella spiritualità.

Perché mi sta dicendo questa cosa?
Per dirti che io tutto sommato ho avuto fortuna invece, avevo delle qualità che mi potevo permettere.
E quindi poteva essere competitivo.
Lo sono stato, no? Moltissimo per i riconoscimenti, per i Leoni, per i soldi. Con il successo, sai, la vita cambia in una maniera assoluta, è imbarazzante. Prima avevi tre amici fidati e poi nei hai 1.500, con il successo…
Millecinquecento fidati?
Inaffidabilissimi. Ci sono, però, e si illudono pure di essere realmente affezionati a te perché anche loro sono attratti dalla luce che potrebbe illuminarli.
Comunque, quei soldi a cosa le servivano?
A vivere in maniera allucinante. Molto divertente: aerei privati, giri del mondo, tutto quello che io non mi potevo concedere. Perché io sono nato abbastanza povero, no.
Per questo non si vergogna di parlarne? Di solito non succede, statisticamente, che quando intervisti qualcuno ti parla della bellezza di aver fatto tanti soldi.
Ipocrisia, no? I santi… A proposito di santi, potrei raccontarti di Madre Teresa.
Sono curioso.
Allora, inizia così: vado a Calcutta in un giro del mondo che ho fatto con mia moglie vent’anni fa. Infatti ora ho paura di avere la lebbra, la lebbra ha un’incubazione di vent’anni. Comunque, a Calcutta è incredibile, è al di sopra di qualsiasi immaginazione, è terrificante… Arrivo e mi portano a fare un giro in taxi, con il tassista che era un sikh… Cosa c’è da vedere qui a Calcutta? “Ahah,” fa lui. Mi porta al tempio della dea Kalì: mia moglie si siede su un muretto e vede che portano un capretto e gli danno un’accettata, inizia a schizzare tutto del sangue schiumoso. Lei mi dice, “Non sto bene…” lo avvicinandomi inciampo in una specie di ostacolo. Penso sia una borsa, non lo so, invece guardo e c’è un tronco umano senza braccia e senza gambe, cieco, con una ciotola dove i poverissimi che erano lì gli davano pugnetto di riso…
Stava a pancia sotto?
Di fianco. Io gli ho buttato un dollaro. L’ha leccato, ma non l’ha mangiato. Questo per dirti che l’impatto con Calcutta è terribile. Tu guardi nella notte dalla finestra di questo hotel, un albergo da maragià con un appartamento da 400 metri quadri, e fuori ci sono i senza… Lì, i paria, che stanno lì con degli scopettini pronti… lì ho capito la differenza tra chiedere l’elemosina a Londra, dove ci sono quelli che fanno gli spettacolini stradali, o in Italia dove ci sono i pulitori di vetri, o quelli con i cartelli, cioè gente che in modo rozzo però in qualche modo organizza uno spettacolino… O i disabili, quelli allevati e usati poi dalla malavita per chiedere l’elemosina. Lì invece, sotto le finestre di questa reggia tutta la notte c’è un urlio terribile, tipo, “Uuuuuuh…” Ci saranno 50 persone, ciechi, non ti puoi immaginare che cos’è. Questi non ti chiedono per favore, per pietà, ti urlano, “Ehi sto morendo!” Lì senti che siamo a un livello completamente diverso dal chiedere l’elemosina in una maniera accettabile come siamo abituati noi. Lì urlano minacciosi, perché stanno morendo davvero. E allora, quando poi esci lì fuori, ci saranno un centinaio di bambine cieche che ti toccano… Ti fanno un po’ paura. Pensa che la borghesia indiana non li vede: è come la monnezza di Napoli, i napoletani ci sono abituati. La borghesia indiana non li guarda. I paria che non hanno casa dormono lì, sono tanti, infatti Gandhi si è travestito da povero pur essendo un grande leader. Comunque, fa un po’ paura quando te li trovi tutti intorno. Comunque, io ho chiesto al sikh, “Ma non si può fare qualcosa?” Quello mi risponde, “Me li dà 50 dollari? Faccio venire un mio amico.” Si parla dell’India paese della dolcezza e della tolleranza, ma è spaventoso il rapporto tra la forza e quelli fuori casta. No, dicevo, funziona così: tu dai i 50 dollari e viene un sikh, con il bastone con la canna, tipo quelli che usa la polizia. Quando esci, metti che si avventa su di te una bambina cieca: lui, pam!, la colpisce in faccia. Io quando l’ho visto gli ho detto [con la voce di Fantozzi, per la prima volta da quando abbiamo iniziato la conversazione], “Eh no, così no, non ce la faccio.” Poi, passa il tempo, e già il quarto giorno dicevo al sikh, “Mi abbatta la bambina cieca, il mutilato, poi il lebbroso…” Dopo un po’ accetti naturalmente l’unico rapporto possibile là dentro. A Calcutta, cosa c’è da vedere? Niente, spaventoso. Quando viene un alluvione nel Bangladesh, a Calcutta arrivano anche 20 milioni di disperati, è uno spettacolo incredibile, terrificante.
E Madre Teresa?
Andiamo a trovare il console italiano, lì non c’è l’ambasciatore. Gli dico che non so cosa fare, che a Calcutta non c’è niente, e lui: “Vuole vedere il lebbrosario di suor Teresa?” La faccio portare dalla macchina… Allora, l’indomani siamo lì, e arriva questa Madre Teresa. Era così, come di cuoio: piccolissima, tutta raggrinzita, in una stanza che sembrava la stanza ovale, piena di computer. Una manager che aveva 3.000 lebbrosi, che non sembrano lebbrosi perché lei li fa lavorare gratis e in un’ora fanno una giacca. Lei mi ha guardato come si guarda un rettile, perché non accetta i curiosi che vengono a spiare la sua santità. Allora chiama, “Suor Angela, tu che sei di Ancona…” Viene una suora vestita come lei ma giovane e alta, e le dice, “Fai girare questo”—non ha detto rettile, scarafaggio ma quasi—al che io comincio a fare una lunga passeggiata e vedo tutti che lavorano. Gratis, eh, però mangiano. E il lebbrosario è veramente un paradiso terrestre rispetto a Calcutta, rispetto a quello che c’è fuori. Alla fine le faccio la domanda che le avremmo fatto tutti, “Com’è la tanto famosissima santa?” E lei, “Ma non me ne faccia parlare, non vorrei insomma…” Molto imbarazzata. Io poi improvvisamente dico, “No, cacchio me Io deve dire… io mica vengo qua a vedere i lebbrosi… vengo per sapere qual è…” Mi ha risposto con una domanda, “Lei ha mai sentito parlare di noi?” E io, “In effetti, no.” Mi ha fatto capire che la santa era una molto vanitosa: ha dato al mondo l’immagine di essere sola in mezzo ai lebbrosi, ma lei i lebbrosi non li guardava neppure, e quando veniva a Roma veniva da sola.
Ma le giacche, per chi le faceva?
Lì i lebbrosi facevano giacche e pantaloni, di una qualità incredibile, devo dire la verità, lì gli artigiani ci sono ancora. Comunque, la suora mi ha fatto capire che la cosa che più mancava nella sua santità era la generosità verso gli altri.
Che rapporto ha lei, con la religione?
Un po’ mi dispiace di non vivere tra diecimila anni. Ma pure tra cento. No, perché fra cento esisterà ancora quella grande truffa di Dio… L’uomo si è inventato l’Aldilà e il Creatore perché non riusciva a capire il vero motivo dell’universo.
E quale sarebbe, secondo lei?
Eh, se lo sapessi, lo direi.
Ma ha delle aspettative?
Aspettative è molto difficile. Senti questa: ero con Margherita Hack, una sera a Trieste e ho fatto una stronzata. Ho detto, “Margherita,” dandole del tu, a una donna di una bruttezza impressionante. Vabbe’, le ho chiesto, “Margherita, che idea hai tu di Dio?” Non hai idea: eravamo in un bar al Maseo, a Trieste, e lei ha iniziato, “Mi fate tutti—urlava—la solita domanda del cazzo! Voi—ha cominciato a ruggire—lo sapete almeno qual è la visione che abbiamo noi astrofisici dell’universo? È formato da miliardi, miliardi di galassie! Che si allontanano una dall’altra alla velocità della luce… e in questa dimensione—dice—io dovrei credere?” È andata via urlando, “Io sono ateaaa!” Insomma, quello mi è sembrato eccessivo. Perché avrebbe potuto dire, semplicemente, “È difficile, perché non so darti una risposta, chi è il creatore e perché?”
Quale sarebbe la sua metafisica ideale? Qual è il suo sogno? Che ne so, dove finisce la coscienza…
Sarebbe magnifico se ci fosse l’Aldilà, il Giudizio Universale che si va tutti lì, ma a questo punto, sai, non c’è solo il Padre Eterno. C’è anche Maometto, Allah, gli induisti—e forse i buddisti sono gli unici che hanno intuito che forse l’Aldilà non esiste ma esiste l’annullamento di tutto, il Nirvana… si sono inventati anche, come si chiama, la trasformazione in un altro essere. Perché ti suggerivano naturalmente un modo per essere socievole, per essere sociale, per non essere dannoso. E noi addirittura abbiamo promesso l’aldilà seguendo determinate regole, altrimenti… Ecco quello che manca per esempio nella cultura occidentale, che sta franando, si sta sfasciando: la fede in qualcosa.
Eh, se Margherita Hack si incazza e urla! Noi non vogliamo deludere Margherita Hack, se lei dice che è atea…
Siì, vabbe’, però poteva dirmi qualcos’altro. È una domanda difficile, chiaramente… Sinceramente come si può credere, quando hai una visione così… Mi ha detto anche, “L’universo è enorme, finito ma periodico.” Capisci? È una dimensione, come si dice, “immaginaria”, quella del tempo, perché il tempo non esiste. Perché, forse, tutto sta avvenendo nello stesso istante, hai capito? Si vacilla, di fronte a concetti di questo tipo. Vedi, era bello il Cantico delle creature di San Francesco, che aveva una visione mistica, una visione romantica, molto poetica nel Ti ringrazio Signore… ti ringrazio Signore… soprattutto con tutte le tue creature, specialmente frate Sole che è la tua esatta rappresentazione… magnifico… e per sora Luna e le stelle che in cielo hai creato clorite, preziose e belle [cita a memoria, in quasi-latino]. La fede proprio, però raccontata in una maniera poetica, molto bella… e per aere e nubilo ti ringrazio et orane tempo e poi… per frate Poco e per sora Acqua… la quale molto utile e casta… Ecco, una sera l’ho detta a teatro, con una musica.
E sorella Povertà?
No, lui parla di morte.
No, lui dice anche: nostra sorella Povertà [invece ha ragione lui: probabilmente io volevo solo farglielo pesare, perché avevamo parlato così a lungo del denaro e dell’avidità. San Francesco non ce l’aveva messa, la povertà: in realtà era un mio ricordo di canti di chiesa francescani in cui c’era sorella Povertà (“La canzone di San Damiano”)]. Non vorrei fare un torto a Margherita Hack, ma adesso mi interesserebbe di più parlare del suo rapporto con Fabrizio De André.
De André è stato mio amico d’infanzia perché si abitava a cento metri. Quand’era povero—eravamo poveri—una notte, verso le tre del mattino, sai quelle notti a far tardi in casa di un paralitico, fuori un tempo terrificante…
Un paralitico amico vostro?
No, uno che andavamo tutte le notti lì, era paralizzato.
Lo aiutavate?
Non sapevamo dove cazzo andare, si andava lì.
A bere?
No.
A chiacchierare?
No. A quei tempi non c’era né droga, né alcol.
Quando è arrivata la droga?
Be’, forse negli anni Ottanta, in maniera molto violenta. E qui siamo negli anni Cinquanta.
E perché andavate da un paralitico? Gli facevate compagnia?
No, era molto simpatico.
Era un amico vostro.
Molto, sì… Comunque, c’erano anche due ragazze, il nostro pubblico per la serata: eh, esibizionisti io e Fabrizio… A un bel momento, nella notte, sentiamo un raspio alla porta-finestra, che dava su un giardinetto fetido. Io sento raspare, allora mi alzo e apro, ed entra un gatto che fa una specie di raglio e vomita. Cioè, si capiva che stava male, proprio. E vomita un topo. Morto. Masticato dal gatto. Urlo terribile: Orrore! Allora Fabrizio… A proposito, qua si vede come a lui gli abbiano costruito un personaggio un po’ monotono intorno, purtroppo, invece lui era l’opposto. Perché a sinistra succede sempre così: quando diventi un santino diventi subito monotono. Ecco, lui ha detto, “Se mi date ventimila lire me lo mangio.”
Il topo vomitato?
Sì, eh be’, certo. C’era li con noi Gigi Rizzi, quando era giovane, che era un famoso playboy genovese, gli ha detto, “Te le do io. Mettile sul tavolo,” fa a Fabrizio. Prende le 20.000 lire, le mette in tasca e shhh, silenzio… Rullo di tamburi… Poi trova un coraggio… si china… morde prima la coda del gatto, poi addenta [si indica il fianco per intendere che De André ha addentato il fianco del topo].
Madonna che schifo.
Lui era un esibizionista, in una maniera… Poi ha detto, “Non lo mangio tutto, perché non ho fame.” Alla fine m’ha detto, “Accompagnami, andiamo a mangiar qualcosa.” C’era un posto fetido dove si mangiava la fagiolata con le cotiche, una cosa, un piatto freddo, orrenda… Lui si avventa sul piatto, mangiamo. E a questo punto ha vomitato.
Era molto simpatico Fabrizio, perché era capace di qualunque esagerazione. Andavamo a Milano per vendere le prime canzoni che abbiam fatto, tipo “Carlo Martello”, le parole, alla Ricordi. A Milano dormivamo in un albergo che non c’è più, si chiamava Grand Hotel Siviglia. Ci accoglieva il facchino, portava le valigie, poi andava dietro, si cambiava e si vestiva da portiere. Era uno solo. Era uno di quegli alberghi dove andavano le battone, le puttane che c’erano intorno. Pieno, di notte. Allora, ci mettiamo lì, insonni, perché lui faceva le sette del mattino sempre, e poi dormiva fino alle sette di sera con una cattiveria assoluta. Toc toc, sentiamo bussare alla porta e… errore, c’è una di queste, “Ah, mi scusi.” E vanno alla stanza a fianco. Sentiamo tutto. Sentiamo tutto, e a un bel momento c’è uno che evidentemente non riesce… Allora, Fabrizio bussa, “Signora? Provi con una carota!” Era una tedesca, “Kratzie!” Dopo un minuto sentiamo un raglio terrificante, e lei che fa, “Kratzie per konsulentza!”