Contrasto è il punto di riferimento per il fotogiornalismo in Italia. Da 30 anni rappresenta alcuni dei migliori fotografi e fotoreporter italiani ed esteri, oltre a diverse agenzie internazionali come la Magnum. Quella che state leggendo è la rubrica in collaborazione tra Contrasto e VICE Italia, in cui intervisteremo alcuni dei nostri fotogiornalisti italiani preferiti per farci raccontare le storie e le scelte dietro il loro lavor o. In questa puntata abbiamo parlato con Simona Ghizzoni, fotografa di Reggio Emilia.
Simona Ghizzoni ha cominciato a fotografare nel 1996, mentre studiava musicologia al Dams di Bologna. Durante i pomeriggi passati in biblioteca si era imbattuta in alcuni libri fotografici, ed è quindi arrivata alla fotografia con un approccio teorico, laureandosi poi con una tesi sulla storia della fotografia.
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Fin dall’inizio ha deciso di concentrarsi sulla condizione femminile, e seguendo l’esempio di modelli come Francesca Woodman e Sarah Moon, si è dedicata sia a lavori più introspettivi comeRayuela—un racconto fotografico in forma di diario che esplora la femminilità—sia a progetti di impianto maggiormente documentaristico, come Afterdark, incentrato sulle conseguenze della guerra sulla vita delle donne.
Il suo lavoro più famoso, però, è Odd Days: un reportage condotto tra il 2006 e il 2010 che analizza la quotidianità delle ragazze che soffrono di disturbi alimentari. Per realizzarlo Simona ha passato diverso tempo a stretto contatto con le pazienti in un centro di terapia a Todi, in Umbria, cercando di ritrarre l’isolamento e gli aspetti più nascosti di questa condizione. L’ho contattata per parlare di Odd Days e di come ha influenzato il suo approccio alla fotografia.
VICE: Vorrei innanzitutto capire come è iniziato e come si è sviluppato nel tempo il tuo progetto Odd Days.
Simona Ghizzoni: È un progetto iniziato fra la fine del 2006 e l’inizio del 2007 ed è il primissimo reportage che ho fatto sulla vita delle persone, perché prima mi occupavo più di street e via dicendo. I disturbi alimentari mi hanno sempre interessato, in parte perché ho avuto una piccola esperienza personale quando ero giovane, e soprattutto perché nel 2003 è morta una ragazza che faceva l’università con me, di anoressia.
La cosa mi lasciò veramente sconvolta—aveva 23 anni, e mi sembrava impossibile che nel 2000 una persona potesse morire così. Poi nel 2007 sono riuscita a entrare in contatto con la dottoressa Laura Dalla Ragione, direttrice di un centro di terapia a lungo termine per i disturbi alimentari—il centro di Palazzo Francisci, a Todi. Così ho avuto modo di entrare in uno dei primi centri pubblici in Italia ad aver cercato di curare quasi senza medicine, e senza riempire di psicofarmaci, ma tentando una terapia basata sui lavori di gruppo e sulla ricostruzione dell’identità e della sicurezza personale.
Al di là del progetto, come hai impostato il tuo rapporto con le persone in cura?
All’inizio mi sono limitata a partecipare alle varie terapie che le pazienti seguivano, per farmi conoscere; ovviamente non le terapie personali con i terapeuti, ma quelle di gruppo: danzaterapia, giochi di gruppo.
Ci ho messo un bel po’ per iniziare a fotografare, e per i primi quattro o cinque giorni ho semplicemente spiegato alle ragazze quello che stavo facendo. Sono comunità molto chiuse, e mi ricordo che quando mi sono presentata avevo gli occhi terrorizzati di tutte che mi guardavano. Poi però, essendo il primo lavoro che facevo a contatto con le persone ed essendo timida, furono proprio loro a spingermi a iniziare: fu una ragazza a dirmi apertamente, “Ma quando cominci a fare ‘ste foto?”
Quindi ho cominciato a fotografare le attività di gruppo e piano piano ho iniziato a creare dei rapporti con le singole ragazze. C’erano ragazze con cui ho fatto amicizia, alcune più schive. Dopo un po’ si è creata una “quotidianità” fra di noi, e anche se ero un’esterna avevamo creato un’intimità. Anche perché io tornavo a intervalli regolari, cercando di non far passare mai troppo tempo. Il processo era facilitato dal fatto che conoscevo tutti i medici, gli infermieri, i terapeuti…
Quando hai iniziato il progetto avevi in mente un particolare taglio da dare al tuo lavoro? E se sì, come è cambiato nel tempo, se è cambiato?
Una delle cose che mi interessavano, avendo visto altri lavori sui disturbi alimentari, era cercare di non strutturare tutto sulle aberrazioni fisiche, o comunque sulla fisicità. I disturbi alimentari riguardano tantissimo la psicologia e quindi fotograficamente volevo che risaltasse questo—anche se al centro c’erano alcuni casi drammatici, casi in cui la malattia si esprimeva appieno nella fisicità. Mi interessava cercare di mostrare il senso di isolamento e la malinconia che vivevano queste ragazze. L’enorme difficoltà di “rientrare” nel mondo, insomma.
Poi per evitare di fossilizzarmi sull’aspetto fisico ho cercato sempre di non fotografare ragazze troppo giovani o che avessero iniziato il loro processo di guarigione da poco tempo: mi sono concentrata sempre su ragazze con un minimo di consapevolezza della loro malattia. Perché una parte spesso nascosta di questi disturbi è la voglia o il bisogno di “mostrare” il proprio corpo e la propria malattia, ed era una cosa che volevo evitare.
Ci sono state delle storie che hai vissuto con più partecipazione? O pensi che sia stato un lavoro totalmente collettivo?
La foto che è diventata poi la copertina del lavoro, fatta a una ragazza di nome Simona, è una delle più rappresentative. Infatti lei è una delle ragazze con cui poi sono rimasta in contatto. Aveva 31 anni all’epoca, ed era il caso più grave all’interno del centro: molto isolata, anche, dalle altre. Io mi avvicinai con circospezione e le chiesi se avesse voluto farsi fare un ritratto: lei mi disse di sì, ma che avrei dovuto trovare un’occasione e una situazione giusta per lei. Così il giorno dopo andai a comprare dei fiori, e siccome lei aveva delle braccia lunghissime, che mi sembravano dei rami, decisi che l’avrei fotografata come se le sue braccia stessero fiorendo. E da allora siamo diventate amiche.
Poi c’è Chiara, la ragazza con la cui foto ho vinto il World Press Photo: era molto giovane quando sono arrivata io, circa una ventina d’anni. Era molto simpatica ma anche scontrosa all’inizio, con una forma gravissima di disturbo alimentare, e mi aveva detto che non voleva assolutamente essere fotografata. Poi un giorno stavamo fumando e chiacchierando, e mi disse, “Ma perché non mi fai una foto mentre fumo?” Ci ha messo del tempo a fidarsi, ma poi siamo riuscite a stringere un rapporto molto bello.
Come decidi di intraprendere un determinato progetto? Cosa c’è alla base, sempre un interesse personale come in questo caso, oppure ci sono altre necessità?
Se si tratta di progetti a lungo termine, sì, ho sempre scelto di iniziare le ricerche da qualcosa che mi… “colpisce allo stomaco”. Per quanto si possa essere determinati, lavorare su uno stesso tema per anni è una grande fatica psicologica, fisica e spesso anche economica. Se un progetto non nasce da una necessità, spesso si arena e svanisce in fretta. Del resto, col passare del tempo normalmente—e penso io fortunatamente—si cambia, e cambia di conseguenza ciò da cui sei attratto: ad esempio dieci anni fa non avrei mai pensato di capitare nella Striscia di Gaza [ per Afterdark] e di ritrovarmi tanto coinvolta emotivamente da una situazione che mi era sempre sembrata così lontana da me.
E c’è un filo comune che lega tutti i tuoi progetti?
Sicuramente il fil rouge che ha percorso il mio lavoro fin dagli esordi è una ricerca sulla condizione della donna. Quasi senza rendermene conto, a partire da Odd Days, ho costantemente rivolto lo sguardo alle esperienze di violenza che le donne vivono quotidianamente.
La donna è sempre stata territorio su cui si sono combattute le più varie guerre di potere. Basti pensare ai disturbi alimentari, che sono, per me, la risposta anche a una violenza sociale e visuale in cui viviamo immersi da una quarantina d’anni. Del ruolo della donna si parla e si straparla, ma incredibilmente, anche oggi, la comunicazione continua a essere pervasa di stereotipi.
Adesso su cosa stai lavorando?
Sono appena rientrata da un lavoro che abbiamo iniziato quest’anno sulle mutilazioni genitali femminili in Africa e in Europa. Un lavoro piuttosto complicato che prevede dei viaggi e delle tempistiche più strette, ma stiamo cercando di creare una vera e propria mappatura dei paesi in cui vengono ancora praticate.
Per vedere altre foto di Simona, vai sul suo portfolio sul sito di Contrasto.