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La vera storia del Notting Hill Carnival

Se vai al Notting Hill Carnival di questi tempi, sei giustificato a non considerare le origini dell’evento. Saresti troppo distratto dal mare di bombole vuote di gas esilarante, vomito, rivoli di piscio provenienti da giardini privati, uomini adulti che ballano fumando stroppe come fosse l’ultimo giorno di scuola, una quantità inquietante di risse, e gigantesche polpette giamaicane, che di solito ti vengono servite da uno studente di Putney. Eppure un raggio di luce ancora riesce a penetrare il rigido guscio moderno del Carnival, come la vivace marcia dei Calypsonian, o la selezione di chicche di Rough But Sweet; ma ogni anno diventa sempre più difficile guardare oltre le droghe di merda e i taccheggi.

Con il Carnival del 2016 che promette ingresso a pagamento (per la prima volta), rafforzamento della sicurezza e il paventato annullamento della tradizionale serata conclusiva del lunedì, quale momento migliore per ripercorrere la storia di questo evento e capire perché è ancora uno dei pilastri culturali del Regno Unito. Arrivata dal mare insieme alla massa di immigrati dei Caraibi durante gli anni Cinquanta e Sessanta, la cultura del soundsystem trovò nel Regno Unito una seconda casa. Da nessun’altra parte al di fuori della Giamaica è stata altrettanto diffusa, nessun’altra città è stata tanto importante per la direzione del suo sviluppo come Londra. Il cuore pulsante di questa storia è Basil Jarvis.

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DJ, fonico, fondatore e proprietario del soundsystem Black Patch e padrino del Notting Hill Carnival dal primo momento, Jarvis diffonde sonorità soca da brividi e roots avvolgenti fin da quando si trasferì a Londra Ovest dai Caraibi. Ormai da quasi cinquant’anni folle di persone si accalcano attorno al suo sound system al leggendario Mangrove per essere investite dalle basse come da uno tsunami di miele.

A gennaio Jarvis si esibirà in svariati set da due ore all’interno di una mostra intitolata Sound System Culture: London, che sarà inaugurata al Tabernacle a Londra Ovest e combinerà immagini rare e filmati d’archivio, insieme a un sound system Heritage vecchio stile costruito per l’occasione. L’abbiamo rintracciato per fargli tirare fuori le storie più pazze di cinquant’anni di Carnival, dalle feste blues underground alle rivolte alla sua opinione su che cosa sia andato storto nel Carnival di oggi.

Basil Jarvis

Noisey: Ciao Basil! Com’era l’atmosfera al tuo primo Carnival?
Basil: Il mio primo Carnival fu il primo Carnival! Mi trasferii qua cinquant’anni fa e ho vissuto la maggior parte di quegli anni a Ladbroke Grove. Non me ne sono mai perso uno. Non so se mi ricordo il primo Carnival, forse c’era una cosa con cavalli e carretti, e una signorina vestita da fata, sai tipo quelle che si mettono in cima all’albero di Natale. Mi ero fatto prestare un sound system perché non avevo ancora il mio. A quei tempi non c’erano i carri e tutte quelle robe lì – la gente andava a piedi! Ai primi tempi i ragazzi portavano la fascia attorno al collo. Ora i tamburi stanno appoggiati su una piattaforma e la piattaforma ha le ruote.

I So che prima dei Carnival frequentavi molto il giro blues underground degli anni Cinquanta. Mettevi i dischi anche lì?
Sì, andavo a feste in casa e feste blues, i caraibici non erano molto ben accolti nel club negli anni Cinquanta e Sessanta, dovevamo portare le nostre feste altrove. I Blues party erano roba casareccia, nessuno faceva a botte. È lì che ho cominciato a fare il DJ, suonando per lo più la musica chiamata “mash potato the blue label”, ma se suonavi per i giamaicani mettevi roba tipo “When I Call Your Name” di Stranger Cole e Patsy Todd, e gli Wailers. Se il pubblico era trini or barbadiano, allora ne mettevi un paio reggae, ma soprattutto ska, rocksteady e calypso.

Vi bloccavano un sacco di feste, vero?
Veniva sempre la polizia a portarci via i drink, ma quando se ne andavano la festa ricominciava e andavamo a prendere dell’altro alcool.

Com’era il tuo primo sound system?
Tipo un albero di natale, bello e con un sacco di luci, fatto a mano, ma non da me. A quei tempi i sound system erano decorati e avevano luci intermittenti, spesso molto colorate, con una cascata di colori da entrambi i lati.

Jah Shaka all’Albany Empire, Deptford, London, 1984. Photo by Stephen Mosco

C’era molta competizione?
A portare i Sound system ai Carnival iniziò Lesley Palmer, che al tempo lavorava per Island Records a fine anni Settanta/primi Ottanta. Sì, c’era molta competizione. Per avere il migliore dovevi distinguerti. I Sound System si piazzavano ognuno in un punto diverso, e c’erano giudici che decretavano il vincitore. In termini di design, la gente creava dei sound system potenti e davvero belli. Roba incredibile.

Come ti procuravi musica per i tuoi set e la tua collezione oggi com’è?
Enorme. Quando facevo i Carnival mi portavo quasi cento dischi. All’inizio suonavo soprattutto calypso, ma poi, quando i sound system sono diventati una parte importante del Carnival, ho iniziato a variare a seconda del pubblico. Molti dei miei dischi venivano direttamente dai caraibi, sai. Ai tempi, eri dipendente dagli amici che partivano una volta all’anno per andare a Trinidad, e si portavano dietro un po’ di materiale, oppure eri in contatto con negozi e mercatini di lì, e ti facevi spedire la roba mandandogli una lista. Mi toccava comprare musica solo basandomi sul nome dell’artista, perché non conoscevo i titoli della roba che si suonava nei Caraibi o in America.

Com’è oggi l’atmosfera dei Carnival?
Non sono Carnival del popolo, sono Carnival della polizia. Non ci sono più fondi perché l’arts counci lha subito molti tagli, e ci sono un sacco di regole che prima non c’erano: restrizioni sui decibel e simili. Se arrivi troppo tardi o suoni troppo forte ti fanno spegnere e ti confiscano il sound system, con multe fino a mille sterline. Per cui molti dei player o dei trader originali se ne sono andati . C’è gente che sta portando il Carnival alla morte! Tipo quando hanno cambiato la destinazione verso Hyde Park! Ma il Carnival non è un festival, è una processione. Se la gente deve arrivare alle due di pomeriggio e andarsene alle cinque non è per niente un Carnival. Tutta sta gente non sa veramente niente, non conoscono la storia.

Saxon Crew, 1983, Maxi Priest Collection

A proposito di polizia, non è un segreto che ci siano state tensioni al Carnival nel corso degli anni…
Nei primi tempi non c’erano limiti, suonavamo fino al mattino. Poi si è iniziato ad andare più cauti. Arrivavi e cercavi uno spiazzo in cui metterti, e se non c’era aspettavi fino al giorno dopo. Ogni gruppo in maschera aveva i suoi responsabili e una sua sicurezza, non c’erano mai provlemi. Oggi la polizia dice di non potersi più permettere la sicurezza al Carnival, ma in realtà non c’è bisogno di coì tanta polizia.

Hai suonato al Carnical del 1976, quando ci furono le rivolte contro la polizia?
Quell’anno i poliziotti mi sfasciarono tutta la strumentazione. Suonavo al Mangrove, e la polizia irruppe dentro senza motivo e mi distrusse il sound system. Non mi hanno risarcito neanche un penny, e a quei tempi non ti facevi nessun tipo di assicurazione. A un tipo fecero diciotto punti in testa a manganellate e ruppero un braccio a una ragazza. Fu terribile. La gente era giustamente arrabbiata: c’era davvero troppa polizia, decisero di provocarli e da lì ebbe inizio tutto. Dopo il 76 il Carnival non fu mai più lo stesso, le comunità iniziarono a dividersi e si crearono varie fazioni contrapposte. Oggi non saprei nemmeno più dirti chi è che gestisce il Carnival, da quante diverse commissioni anno, non so nemmeno più dove sia l’ufficio principale.

E i sound system di oggi? C’è ancora gente che resiste e mantiene viva la cultura sound system…
È vero. Ci sono ragazzi che ancora portano avanti, per così dire, la tradizione dei loro padei. Dei grandi come Sir Coxsone, Peoples Sound, Java High Power, e qualcuno da Londra Est. Però molti degli iniziatori hanno mollato o sono morti, sai? Duke Vin è andato, Count Steve, un sound system from Shepherd’s Bush, è morto mesi fa. Sono mlti dei vecchi amici a non esserci più.

In cinquant’anni di of Notting Hill Carnival, qual è stato l’anno più bello secondo te?
All’inizio il Carnival era famigliare, era roba di casa. Veniva dal cuore della gente. Nessuno ci finanziava, per cui la gente lo faceva dal cuore, per il gusto di farlo. Poi è arrivato il business dei finanziamenti, e il mercato, tutto è diventato più commerciale, etc etc. Da lì in poi è andato sempre peggio. Musicalmente, comunque, il meglio è stato negli anni Sessanta e Settanta. Per me ska e rocksteady erano il meglio che la Giamaica abbia mai prodotto. Cioè, quando è arrivato il raggae c’erano per lo più Bob Marley & The Wailers, Toots & The Maytals e Dennis Brown. Non bisogna dimenticare che gli Wailers venivano dallo ska, per passare poi al rocksteady al raggae. Ma se guardiamo agli anni Sessanta, c’era gente come Eric ‘Monty’ Morris, Derrick Harriott, Lloyd Charmers, Bob Andy, Ken Boothe, Alton Ellis. Per me sono loro i veri artisti.